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→  giugno 14, 2006

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Intercettazioni e cittadini

di Paola Severino

L’ampio ed acceso dibattito sviluppatosi nelle ultime settimane sul tema delle intercettazioni dimostra che l’esigenza di una riforma era ed è avvertita da ampi strati dell’opinione pubblica, dai vertici delle istituzioni e perfino dai contrapposti schieramenti politici, come seria e fondata. Il tema, però, non sarebbe compiutamente sviluppato se, una volta costruite le regole e le sanzioni, esse rimanessero un vuoto simulacro e fossero destinate ad una totale o parziale disapplicazione. Il rispetto delle regole e l’adozione delle sanzioni rappresentano l’altro focus del problema, su cui tutti i cittadini, ciascuno nel proprio ruolo, sono tenuti a vigilare, senza concedere
sconti o esoneri a nessuno. Quando infatti entra in discussione un problema di libertà individuali fondamentale come questo, che può incidere
anche su persone non indagate, va stimolata una forte consapevolezza sociale, da tutti condivisa.
D’altra parte essa si fonda sulla semplice constatazione che potrebbe capitare a chiunque di trovare la propria
vita privata esposta al pubblico.
Da questa condivisione deve poi nascere, affinché non ci si riduca ad una sterile enunciazione di principio, l’espressione di un forte dissenso sociale e deontologico, prima ancora che giudiziario.
Così, non può considerarsi lecitoo giustificabile l’atteggiamento di chi va alla ricerca più di “pettegolezzi” tratti da intercettazioni prive di rilevanza giudiziaria che di notizie dotate dei requisiti dell’interesse pubblico
alla emersione di fatti illeciti.
Sono in tanti, tra chi fa informazione, ad essere scrupolosi ed attenti a questa fondamentale esigenza di distinguere, ma esiste anche una minoranza di essi, disposti a tutto pur di acquisire un presunto “scoop”.
È chiaro che il problema della pubblicazione indebita di intercettazioni si risolverà solo quando la grande maggioranza di chi fa informazione in modo corretto dimostrerà la propria dissociazione da quello sparuto manipolo che danneggia l’immagine dell’intero mondo dell’informazione.
Solo questa forma di sanzione sociale rappresenterà il vero humus per far efficacemente partire ed approdare i doverosi procedimenti e le connesse sanzioni disciplinari e penali.

A maggior ragione, non può considerarsi giustificabile o tacitamente consentito il ben più grave comportamento di chi fornisce quelle notizie coperte dal segreto investigativo.
È dato di comune esperienza che spesso vengano additati come fonte di rivelazione gli avvocati. Affinché questo
dato non sia distorto o, peggio, usato come diversivo, occorre però fare dei distinguo.
Sono noti i casi in cui la diffusione della notizia non poteva provenire dai difensori, per il semplice fatto che si
trattava di atti e documenti ancora non depositati e quindi ignoti anche al difensore.
È altresì noto che per molti avvocati il segreto professionale rappresenta un vincolo “sacro” e così forte che a volte
non si conosce neppure il nome dei loro assistiti, ancorché si tratti di personaggi famosi.
Esistono, però, alcuni avvocati per i quali la tentazione della pubblicità sul proprio nome travalica ogni dovere professionale, sfociando nella continua ricerca di occasioni di contatto con la visibilità esterna, anche a costo di svelare notizie coperte da segreto istruttorio.
Anche in questo caso il problema si risolverà alla radice solo quando la maggioranza degli avvocati rispettosi delle regole dimostrerà la propria dissociazione da quella ridotta minoranza, la cui scorrettezza si riverbera negativamente ed ingiustamente nell’intera categoria.
Solo a queste condizioni i procedimenti disciplinari e penali potranno essere efficacemente istruiti e le conseguenti
sanzioni effettivamente applicate.
È infine dato anch’esso di comune esperienza che una certa parte delle rivelazioni provengono dagli stessi pubblici
ufficiali che hanno acquisito quelle notizie e che di esse dovrebbero essere i più gelosi custodi, vigilando pure sui soggetti che collaborano alle operazioni di intercettazione.
Anche con riferimento a questo aspetto del problema occorre molta chiarezza ed obiettività.
La grande maggioranza dei magistrati considera il segreto delle indagini veramente inviolabile e quindi struttura i propri uffici, anche con una costante vigilanza sui collaboratori, in modo tale da renderli effettivamente blindati rispetto al pericolo di una fuga di notizia. Non si può negare, però, che esiste un ristretto numero di magistrati che abituandosi a considerare “normale” una continuità di rapporti con la stampa, tende poi ad allentare la rete di controlli sui propri uffici e da considerare quasi“inevitabile” la fuga di notizie segrete.
Anche in questo caso, il problema verrà risolto alla radice solo quando la maggioranza silenziosa (che è anche,spesso, quella più operosa) dimostrerà, con i fatti e non con le parole, la dissociazione da quella minoranza così poco attenta al rispetto delle regole,che rischia di minare la fiducia del cittadino nel sistema giudiziario.
Quali sono i fatti che ci si attende? La risposta è semplice e proviene da una fonte autorevole e certamente non
sospettabile di scarso rispetto per la magistratura.
Ha scritto ieri l’on. Violante che «il vero scandalo delle intercettazioni è nella impunità per la violazione del segreto», puntando il dito sullo scarso impulso che viene dato dalle Procure alle indagini sui casi di fughe di notizie da fonti ufficiali.
Occorre dismettere, aggiungo, l’atteggiamento di passiva rassegnazione alla asserita impossibilità di trovare un colpevole, che può apparire anche se non è una forma di copertura. Occorre rispettare nella sostanza la Regola dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, anche quando l’applicazione di essa crea disagio. Se questo disagio può essere superato affidando ad altra sede giudiziaria, come pure suggerisce l’on. Violante, la competenza per l’accertamento del reato di violazione del segreto istruttorio, ben venga anche questa riforma.
Il problema principale è e rimane, del resto, quello del rispetto delle regole, che coinvolge tutte le categorie professionali ed anche tutti i comuni cittadini, poiché la tutela di una sfera di libertà inviolabile riguarda tutti noi e deve essere presidiata da tutti noi.

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Debenedetti: privacy, diritto inviolabile che va garantito per dire davvero la verità
di Franco Debenedetti – Il Messaggero, 16 giugno 2006

→  aprile 26, 2006

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Con la rivoluzione digitale non è più necessario snellire Rai e Mediaset

di Carlo Rognoni

Privatizzare la Rai? Vendere una o due reti del servizio pubblico? Ogni tanto c’è ancora chi che lo propone. Eppure oggi è davvero un’idea sorpassata. Vediamo di spiegare perché. Intanto cerchiamo di capire quali sono le ragioni dei privatizzatori. Non dimenticando che ce ne sono almeno di tre tipi. Primo, ci sono i fondamentalisti del mercato: privato è bello sempre e comunque. E dunque vendere, vendere, vendere. Naturalmente anche la Rai. Secondo, ci sono i disillusi del servizio pubblico: troppa lottizzazione, troppa partitocrazia – e per di più di partiti con l’affanno e dal nome sempre più incerto. Il risultato, secondo loro, è drammatico: una informazione pilotata, non più credibile, telegiornali addomesticati che servono magari a soddisfare il narcisismo di alcuni segretari di partito ma che non aiutano certo i cittadini a capire la società che cambia, a districarsi nel mondo della politica. E poi troppi programmi di qualità bassa, all’inseguimento di un primato negli ascolti che ha solo la motivazione commerciale alle spalle, quella per conquistarsi una fetta di pubblicità più alta. Tanto vale vendere! Terzo, ci sono i liberal-riformisti: se si vuole avere più concorrenza, un sistema radiotelevisivo davvero pluralista, va rotto il giocattolo che tiene ingessato tutto il sistema, va insomma spezzato il duopolio Rai – Mediaset. E quale miglior modo se non quello di intervenire innanzitutto sul servizio pubblico e mettere in vendita una o due reti, così da creare le condizioni perché un nuovo soggetto imprenditoriale si affacci al mercato?

Posizioni ideologiche. Nel primo caso c’è poco da controbattere: di fronte a un muro di posizioni ideologiche, anche i migliori argomenti rischiano di andare a sbattere. Nel secondo caso è un po’ come se si volesse buttare via il bambino con l’acqua sporca: non funziona la governance, non danno affidamento i meccanismi di governo e direzione aziendale? Vanno aperte le finestre nelle redazioni di Saxa Rubra e va fatta circolare un po’ d’aria fresca – aria di libertà – nelle redazioni? Sicuramente si. Non c’è bisogno, però, di liberarsi del servizio pubblico tout court.
Basterebbe una legge che staccasse la spina che lega la Rai alle segreterie di partito e basterebbero dei direttori un po’ più coraggiosi, autonomi e responsabili verso chi paga il canone e non verso i leader di partito. Perché non sono i partiti gli editori di riferimento, bensì la totalità di chi paga il canone. Non dovrebbe essere così difficile imporlo alla cultura politica e a quella aziendale.
Più sofisticata e più credibile la posizione dei liberal-riformisti. Io stesso fino a qualche anno fa, di fronte alla complicità dei governi di centro destra, schiavi e vittime dell’«anomalia Berlusconi», nella conservazione del duopolio, se non del suo rafforzamento, e di fronte all’impotenza dei governi di centro sinistra a fare riforme coraggiose, mi ero andato convincendo che forse per dare un po’ di pluralismo al sistema radiotelevisivo italiano ci fosse bisogno di «uno shock terapeutico» e non ci restasse altro da fare che imporre al servizio pubblico di dimagrire e così spingere qualche imprenditore illuminato a comprarsi magari Raiuno e a cimentarsi nella concorrenza con il monopolista rimasto, anche grazie all’aiuto di norme antitrust più stringenti per il mercato pubblicitario. Non la penso più così. E a farmi cambiare idea è la consapevolezza che con la rivoluzione digitale sta completamente cambiando lo scenario dentro il quale si muove la televisione, stanno cambiando gli argomenti, i paletti, i rapporti di forza, i punti di riferimento che erano tipici dell’epoca dell’analogico.

Convergenze mediatiche. Intanto la televisione analogica in chiaro e gratuita non è più sola. Sta crescendo a ritmi accelerati la televisione a pagamento: prima di tutto il satellite che può già contare su più di 3,5 milioni di abbonati e che nei giorni del calcio va anche oltre il 15 per cento degli ascolti; è partita la pay per view in digitale terrestre grazie a Mediaset e a Telecom; e poi sta per partire la Iptv, la televisione via protocollo Internet. A Fastweb che è stata l’antesignana segue la stessa Telecom e presto sicuramente altri telefonici si affacceranno alla tv a pagamento via Internet. Parlare oggi di vendere una o due reti dimostra che non si è capito quello che sta succedendo, soprattutto se si pensa di poter creare per questa strada più pluralismo, più mercato. La novità, infatti, è che con la convergenza fra computer, televisione e telefono, non ha più senso parlare di reti, di canali, di programmi, come se ne parlava nell’epoca dell’analogico. Bisogna ripartire da un concetto nuovo, dalla «capacità trasmissiva», e cioè dalla quantità di bit al secondo che possono essere distribuiti via etere. E’ allora la percentuale di questa capacità trasmissiva che va regolamentata – e non il numero delle reti – in modo da garantire che ce ne sia a disposizione per più soggetti imprenditoriali e non solo per i soliti noti. (…)
Prima di proseguire nel nostro ragionamento teso a dimostrare la debolezza, la contraddittorietà o meglio l’obsolescenza dell’idea di vendere una rete Rai, bisogna chiarire ancora alcuni fatti di cui bisogna avere consapevolezza, prima di avventurarsi nell’ipotizzare una riforma del sistema che vada nella direzione di una maggior concorrenza, di un reale maggior pluralismo. E i fatti da conoscere, oltre al concetto di fondo della «capacità trasmissiva» sono i seguenti. Primo. Nell’epoca dell’analogico, chi ha una rete diffonde un canale, un programma, un palinsesto e dunque è logico che controlli il sistema distributivo. E’ quello che si chiama un soggetto imprenditoriale «verticalmente integrato». Dallo Stato ottiene in concessione le frequenze che gli servono solo ed esclusivamente per trasmettere – grazie agli impianti, alle torri, ai siti che occupa – la sua rete, che contiene un solo canale, un solo programma. E questo programma lo infarcisce di pubblicità nei limiti che gli consente la legge. Nell’epoca del digitale, là dove c’è una rete ci sono più canali, almeno cinque. E la legge giustamente dice che almeno il 40 per cento devono essere affidati ad altri imprenditori che producono televisione. Insomma io potrò anche tenermi tre canali ma due devo darli ad altri. Con l’arrivo della rivoluzione digitale il mio mestiere si complica e si duplica: per un verso faccio l’operatore di rete che deve garantire ad altri il massimo di trasparenza e di correttezza nell’accesso alla rete, per un altro verso continuo a fare il fornitore di contenuti. E se i contenuti di chi ospito nella mia rete fanno concorrenza ai miei contenuti? Come devo comportarmi? E’ da qui che nasce l’idea di distinguere chi gestisce la rete da chi fabbrica e distribuisce contenuti. Sono due mestieri diversi e sarebbe bene che lo fossero sempre di più in maniera tale da dar vita a società nettamente separate.

Anomali. Secondo. L’evoluzione del sistema radiotelevisivo in Italia ha prodotto negli anni alcune anomalie di cui – nell’epoca dell’analogico – non si è riusciti a liberarsi: intanto va detto che l’80 per cento delle frequenze che contano a livello nazionale se le dividono Rai e Mediaset. Sul totale delle 20 mila frequenze più o meno legittime, la metà è occupata da due sole aziende. Le altre 10 mila se le dividono tutte le altre tv nazionali e le 700 tv locali (un vero sproposito). Per capire la follia italiana forse basta un dato: la Germania occupa per tutte le sue tv la metà delle frequenze che occupa l’Italia. Negli anni le frequenze sono state occupate senza alcun rispetto per l’ottimizzazione del sistema, senza la capacità di nessuna Autorità di imporre un Piano nazionale di assegnazione delle frequenze che ottimizzasse l’uso dello spettro radioelettrico. Di fronte al caos dell’etere, per difendersi dalle interferenze si sono occupate più frequenze, si sono costruiti più impianti di quanti non fosse necessario a rigor di logica. Il risultato è che oggi realisticamente si può parlare di uno spreco di capacità trasmissiva. (…) Terzo. Uno dei guasti del duopolio è di aver consentito a un solo soggetto – Mediaset – di arrivare a controllare il 65 per cento della pubblicità televisiva nazionale. Con la spiegazione che la Rai ha il canone, al servizio pubblico sono stati imposti vincoli forti sulla raccolta pubblicitaria. Il risultato è che la Rai oggi può vendere 72 mila secondi di pubblicità alla settimana, mentre Mediaset ne può vendere la bellezza di 360 mila! Un terzo soggetto come Telecom Media Italia che pure ha due canali analogici non va oltre la raccolta del 2 – 3 per cento della pubblicità nazionale. Senza vincoli antitrust ex ante – e la Gasparri con l’invenzione del Sic ha fatto strame della norma antitrust che prevedeva un tetto del 30 per cento per ogni soggetto radiotelevisivo – è difficile pensare che anche nel nuovo mercato televisivo digitale, almeno nella fase di transizione dall’analogico al digitale, si crei una reale concorrenza. Quarto. Operatori verticalmente integrati che controllano il meglio delle frequenze e hanno la stragrande maggioranza delle risorse pubblicitarie sono anche in condizione di pagare di più e meglio i diritti dei prodotti più appetibili, dal calcio al cinema. Quei diritti che fanno aumentare gli ascolti e dunque giustificano fatturati pubblicitari sempre più alti. (…) Quinto e ultimo punto di cui è necessario aver consapevolezza prima di procedere nel ragionamento iniziale contro la privatizzazione di una rete Rai: con la rivoluzione digitale e con l’arrivo della convergenza – grazie ai bit – fra televisione, telefonia e computer, si è creata una situazione nuova per i broadcaster come Mediaset e Rai.
Quella capacità trasmissiva di cui abbiamo parlato, fa gola ormai anche alle società che vendono telefonia. Ne hanno bisogno per arricchire la loro offerta sui telefonini. La vendita della sola voce non soddisfa più i loro bisogni di crescita. Anche considerando che sempre più la voce passerà via Internet con nuove straordinarie tecnologie che riducono drasticamente il costo di una telefonata. Già oggi parlare da computer a computer non costa più di un centesimo di euro. (…)
La difficoltà per un nuovo governo sta non tanto nel prefigurare lo scenario di quando tutto il sistema sarà digitalizzato, quanto nel decidere che fare durante gli anni della transizione, del passaggio dall’analogico al digitale. Si può consentire a chi oggi ha uno strapotere nell’analogico di proseguire sulla vecchia strada della posizione dominante sia nelle frequenze, sia nella pubblicità, sia negli ascolti, aspettando che il digitale terrestre crei nei fatti maggior pluralismo? E come si deve fare per evitare che il duopolio dall’analogico si trasferisca al digitale? E che cosa si dirà a quei dirigenti Mediaset, come lo stesso Confalonieri, che dicono di temere «vendette» del centro sinistra e probabilmente per vendetta intendono il ritorno di regole antitrust, il rispetto di norme che facilitino la concorrenza e non il contrario come oggi?

Switch off. Partiamo dalla fine, da quando cioè ci sarà stato lo switch off, il totale passaggio della tv dall’analogico al digitale. A quel momento, il punto di riferimento per norme antitrust intelligenti dovrà essere la percentuale di «capacità trasmissiva» su cui un’impresa potrà contare. E’ realistico pensare che nessuno – visti i tanti soggetti anche telefonici interessati alla rete – disponga di più del 10 per cento, e non del 20 per cento come dice la legge Gasparri. Che vuol dire se la capacità è 350 megabit al secondo? Che nessuno può avere più di 35 megabit/secondo, vale a dire in teoria otto canali digitali terrestri. Meno se sono ad alta definizione e comunque da definire se tutti in chiaro oppure come in Francia alcuni anche a pagamento.
Prima di tutto vanno dunque create le condizioni perché chi fa l’operatore di rete sia un soggetto imprenditoriale diverso da chi fa il fornitore di contenuti. Solo così avrà come interesse assolutamente prioritario quello di ottimizzare l’uso della risorsa frequenze, mettendo più capacità trasmissiva possibile a disposizione di tutto il sistema. Per raggiungere questo obiettivo nel periodo di mezzo, nella fase di transizione, vanno scoraggiati gli imprenditori verticalmente integrati. Per la Rai potrebbe valere l’impegno a mettere sul mercato Raiway facendone un operatore di rete autonomo, in grado di fare accordi con altre imprese, nazionali e no, con un solo dovere: per i prossimi dieci anni garantire alla Rai la capacità trasmissiva di cui ha bisogno per offrire un buon servizio pubblico universale a costi politici. Nel caso la Rai volesse usare parte della capacità trasmissiva anche per canali a pagamento, in questo caso e per quei canali dovrebbe pagare cifre di mercato.

Transizione. Per quanto riguarda la risorsa pubblicitaria, per tutto il periodo della transizione dall’analogico al digitale, vanno comunque ripristinati tetti antitrust ex ante, che verranno tolti e diventeranno verifiche ex post sulle posizioni dominanti del mercato quando ci sarà il solo digitale. Al fine di evitare di imporre subito tagli sconvolgenti – proprio per non penalizzare nessuno, neanche Mediaset – va comunque messa in campo una riduzione dei tetti consentiti per tappe temporali prefissate: per esempio ogni due anni. Per chi intende restare proprietario delle reti e dei contenuti, vanno prefigurati tetti e vincoli più stringenti. Per chi ha una sola rete analogica si può anche immaginare che non ci siano tetti ex ante; per chi ha due o più reti analogiche si dovranno rispettare tetti ex ante pari a un terzo del mercato pubblicitario nazionale. A meno che non abbia già separato la proprietà della rete affidandola a un operatore di rete terzo. In questo caso potrà raccogliere anche il 10 per cento in più rispetto al 30 per cento consentito.
Come si può arguire da tutte queste ipotesi che un nuovo governo dovrà comunque mettere in agenda, la discussione sul futuro del sistema radiotelevisivo non gira più intorno a vendere una rete Rai o due, ma gira intorno a temi nuovi, figli della rivoluzione tecnologica in atto e i cui contorni non sono ancora ben definiti. Per la Rai la sfida ruota intorno alla ridefinizione della sua missione di servizio pubblico, di fabbrica dei contenuti per tutte le piattaforme tecnologiche che vanno dal digitale terrestre alla tv mobiloe, dal satellite alla Iptv.

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di Michele Grillo

Quale politica per il mercato televisivo è il tema affrontato da Franco Debenedetti (Il Riformista, 6 aprile 2006) con un articolo approfondito che merita un commento. Debenedetti sembra ritenere che continuare a discutere degli aspetti strutturali del settore, benché magari in principio appropriato, possa rivelarsi altrettanto sterile quanto le proposte di deconcentrazione avanzate ripetutamente nel passato, ma mai realizzate. Inoltre, più pragmaticamente, egli ritiene piuttosto che la legge Gasparri offra un adeguato assetto normativo per regolamentare in modo concorrenziale il settore; e che, in fondo, l’unico miglioramento da apportare alla legge consisterebbe nell’eliminazione dell’articolo 21 comma 5, con il quale vengono posti limiti alla alienazione delle partecipazioni dello Stato nella Rai. Il completamento della liberalizzazione del settore, egli conclude, richiede solo di sottrarre la Rai alla politica e ai partiti. La Gasparri, a parere di FD, ha il merito: a) di affidare correttamente alla Autorità di garanzia per le comunicazioni – Agcom – la individuazione dei mercati rilevanti secondo i criteri del diritto comunitario della concorrenza e la competenza per vigilare sul costituirsi di posizioni dominanti su tali mercati; b) di indurre lo sviluppo di “altre Tv”; c) di facilitare l’ingresso di nuovi entranti obbligando gli operatori dominanti di riservare ai terzi il 40% della nuova capacità trasmissiva che si realizza con lo sviluppo del digitale terrestre.
La nostra opinione non diverge tanto dalla proposta di “dimagrimento” della Rai (sebbene rimanga da trattare l’argomento della massima importanza, che peraltro neppure FD affronta, di come offrire un servizio che sia pubblico, ma non partitico), diverge invece in modo consistente circa l’adeguatezza della Gasparri a disegnare il riassetto del sistema televisivo in modo compatibile con un contesto davvero concorrenziale.
Aspetti tecnologici. Per poter illustrare la nostra tesi è necessario chiarire alcuni aspetti tecnologici. La Tv che è entrata finora nelle nostre case si basa sulla tecnologia analogica, che consente di trasmettere, su ogni rete, un solo programma (o canale). Nell’etere c’è un limitato numero di frequenze; in Italia le emittenti hanno occupato, con le loro antenne, frequenze in modo caotico, dando luogo a notevoli problemi sia di congestione dello spettro frequenziale, sia di interferenze. In altre parole, oggi, ciascuna emittente è costretta a utilizzare molte più frequenze di quanto sarebbe necessario sulla base di un razionale Piano di allocazione delle risorse frequenziali che, diversamente che negli altri paesi, in Italia non è stato mai attuato. (E’ soltanto di alcune settimane fa la notizia che l’Agcom intende predisporre il catasto nazionale degli impianti radiotelevisivi e delle relative frequenze, per avere almeno una descrizione di una situazione caotica che si protrae da decenni). Sulla base dell’occupazione di fatto dello spettro frequenziale, un vecchio Piano predisposto nel 1992 fissava in 12 il numero massimo di reti televisive nazionali il che, in tecnologia analogica, lasciava spazio per un pari numero di canali nazionali.
Questi canali potrebbero aumentare in modo consistente se le frequenze fossero riallocate in modo ordinato; potrebbero invece anche diminuire se l’Italia, alla prossima riunione di giugno dell’International telecommunications union, fosse chiamata a risolvere i problemi di sovrapposizione delle frequenze alla frontiera e di occupazione di spazi di pertinenza di paesi vicini. Ragioneremo come se le frequenze non aumentassero, né diminuissero.
Come è noto il punto di partenza della Gasparri è la trasformazione del sistema analogico in digitale. Con il digitale terrestre su una stessa rete anziché un solo canale ne potranno passare circa cinque. Questa rete a più canali si chiama multiplex. Con questa trasformazione tecnologica c’è spazio per ben oltre cinquanta canali. La tecnologia ha allargato il mercato potenziale e la possibilità di ingresso di nuovi concorrenti. Chiarito lo scenario tecnologico cerchiamo ora di capire perché questa crescita potenziale del mercato non voglia dire automaticamente crescita della concorrenza.
Le ragioni che FD non considera adeguatamente sono, oltre alle inevitabili implicazioni strutturali della presenza di due operatori incombenti, ciascuno con il 40% del mercato, la «concentrazione delle reti» e il «mercato segmentato».
La concentrazione delle reti. Come già due anni fa aveva messo in evidenza l’Antitrust nella sua Indagine conoscitiva sul settore televisivo, l’Italia è l’unico paese, in Europa, nel quale vi sono emittenti proprietarie di più di una rete (il che, nel sistema analogico, implica più di un canale).
Con il passaggio al digitale terrestre, Mediaset verrebbe a disporre di tre multiplex e quindi di quindici canali circa, replicando l’attuale assetto del mercato, nonostante il moltiplicarsi dei canali. La Gasparri tuttavia impone che ogni operatore metta a disposizione di terzi il 40% di ogni multiplex, quindi due canali su cinque. Questa prescrizione è un’assurdità che è passata inosservata. Se c’è un’unica rete (come nel caso del gas o dell’energia) una razionale norma anti-monopolistica impone: a) la separazione tra rete e produzione; b) il passaggio di più produttori sull’unica rete. Nel caso delle Tv, come dice FD, non si può separare la rete dal produttore (anche se questa valutazione è forse appropriata al solo caso del sistema analogico, nel quale non ha senso separare la rete su cui è trasmesso il primo canale Rai o il canale 5 di Mediaset dai rispettivi canali). Ma il punto che FD non rileva è che nel caso delle Tv la rete non è una sola. E’ illogico imporre un obbligo di accesso (cioè i nuovi canali che saranno disponibili con il passaggio al digitale) su reti che restano comunque di proprietà degli attuali oligopolisti (Rai e Mediaset), giacché questi ultimi, nonostante la regolazione, restano in grado di trarre inevitabile vantaggio dalla «integrazione verticale»; sarebbe invece molto più razionale il disegno di un mercato concorrenziale che contemplasse una riduzione del numero delle reti sotto il controllo dei due operatori incombenti e la liberazione di asset frequenziali che potrebbero essere offerti all’asta a nuovi operatori; mentre le scelte degli operatori incombenti potrebbero rimanere libere per quanto riguarda le reti che restano a loro disposizione. In buona sostanza la legge Gasparri va modificata là dove non interviene sul possesso di tre reti ciascuna da parte dei due oligopolisti nel passaggio dall’analogico al digitale e cerca di rimediare alle conseguenze anti-concorrenziali di ciò, obbligando l’alienazione del 40% dei nuovi canali che con il digitale saranno disponibili sulle vecchie reti.
Mercato segmentato. Il secondo elemento che condiziona la concorrenza nei mercati televisivi è la impossibilità di superare la segmentazione dei mercati tra canali gratuiti e canali a pagamento. Non è vero, come ipotizza l’impianto della Gasparri, che esiste un unico mercato in cui chi offre canali a pagamento è in concorrenza con chi offre canali gratuiti. L’Agcom, nella sua indagine conoscitiva, ha dimostrato come le possibilità di concorrenza tra queste due piattaforme sono molto limitate. Le emittenti a pagamento «scremano il mercato» dei consumatori disposti a pagare per vedere le trasmissioni di un canale; gli altri consumatori, disposti, pur di non pagare, a sorbirsi le interruzioni pubblicitarie, sono catturati dalle emittenti che trasmettono trasmissioni gratuite. Il prodotto che quest’ultime emittenti offrono è appunto la pubblicità. In modo abbastanza sorprendente questo aspetto è trascurato completamente nell’argomentazione di FD. La moltiplicazione delle imprese a pagamento non intacca il grado di oligopolio sull’offerta pubblicitaria del segmento di Tv gratuita e la cosa non è certo senza importanza, e non solo economica.
La proposta. Il combinato disposto del progresso tecnico e della Legge Gasparri è inadatto a ridurre l’elevato grado di monopolio nel settore delle Tv gratuite e nel settore pubblicitario. Un elevato grado di monopolio in questi settori ha conseguenze negative che travalicano il settore stesso interessando il settore della carta stampata e che travalicano le mere conseguenze economiche interessando la pluralità dell’informazione e la robustezza della democrazia. La proprietà delle reti va deconcentrata con atto politico; e sono deboli i tentativi di neutralizzare le implicazioni di una proprietà concentrata delle reti con obblighi di accesso e altri interventi di regolazione da parte della Agcom. Come avviene negli altri paesi europei, ogni operatore pubblico e privato non dovrebbe possedere più di una rete che, con la trasformazione tecnologica al digitale, consente comunque di disporre di cinque canali. Ne deriva che sarebbe auspicabile una legge che imponga l’alienazione di due reti ciascuno ai due oligopolisti attuali. A queste condizioni, anche la Rai dovrebbe garantire il servizio pubblico disponendo di una sola rete finanziata con il canone, alienando le altre due reti. Al pari di Mediaset.

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Media, meno politica e più concorrenza

di Alessandro Penati

I media dovrebbero essere una priorità per il nuovo governo. Non per risolvere il conflitto di interessi di Berlusconi (un problema che va tenuto separato) o per occupare politicamente la Rai; ma per favorire la crescita di un settore trainante, con produttività e margini elevati, utilizzatore di nuove tecnologie, non esposto alla concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro. Un settore che in Europa è ancora frammentato (e dovrà consolidarsi), nel quale l´Italia, per una volta, non parte svantaggiata dal nanismo delle sue imprese.

Non serve una nuova legge. Basta modificare la Gasparri, conservandone gli aspetti positivi. Per superare il duopolio Rai-Mediaset, la Gasparri punta, correttamente, a facilitare l´ingresso di nuovi operatori e sfruttare l´innovazione tecnologica per promuovere la concorrenza delle nuove reti (telefono Dvb-h, satellite, digitale
terrestre, Adsl). La legge riconosce che tutte le reti competono per un´unica risorsa scarsa, il tempo libero dello spettatore: chi vede un film su Sky, lo scarica da Internet, o lo acquista on demand col digitale terrestre, è uno spettatore in meno per la tv commerciale.
Pubblicità, abbonamento, servizi a consumo sono modi alternativi per far pagare al consumatore ciò che desidera vedere.

Un problema di concorrenza va gestito con gli strumenti antitrust, che la legge assegna opportunamente all’Autorità: vanno potenziati e ridefiniti. C´è un vincolo di concentrazione per segmento di mercato, che è servito a sanzionare il duopolio Rai-Mediaset. E uno globale (il Sic) che si applica a chi opera su più piattaforme, come Telecom (analogica, digitale terrestre, via Internet e telefonia mobile), o nell´editoria. Ma dalla definizione attuale del Sic vanno espunte voci, come le “comunicazioni di prodotti e servizi”, utili solo a gonfiare artificiosamente la dimensione del settore.

L´azione antitrust dovrebbe garantire l´accesso alle reti, con un approccio simile al roaming, usato con successo nella telefonia mobile. Infatti, è interesse di chi controlla una rete veicolare in esclusiva i propri contenuti per valorizzarla, e presidiare quante più reti possibile, a danno di nuovi entranti e produttori terzi di contenuti.
Poiché tutta la tv dovrà passare obbligatoriamente al digitale terrestre, è stato necessario assegnare frequenze digitali agli attuali operatori tv, per gestire la transizione. Ma si deve garantire che una parte significativa della loro capacità di trasmissione sia effettivamente resa disponibile, al costo, a operatori terzi che lo richiedano. Bene ha fatto l´Autorità a imporre a Mediaset di destinare una delle sue frequenza digitali a operatori telefonici (Tim e
Vodafone), senza vincoli sui contenuti trasmessi o accordi per la raccolta pubblicitaria.

L´Autorità dovrebbe vietare l´acquisto di contenuti in esclusiva per tutte le piattaforme (prassi oggi diffusa), e fare uso frequente di condizioni “must carry” e “must offer”, a vantaggio dei nuovi entranti: una rete “deve trasmettere” senza costi i contenuti di un operatore debole, o “deve offrire” i propri contenuti per essere trasmessi su altre reti. Un approccio analogo dovrebbe essere adottato con la tv via Internet, quando la banda a 20Mb su cavo telefonico sarà disponibile commercialmente. Infine, la Gasparri va modificata, obbligando gli attuali operatori tv, dopo il passaggio al digitale, a restituire allo Stato le frequenze analogiche, in parte da assegnare a nuovi entranti, e in parte da mettere all´asta.

Ma la concorrenza non si crea solo mettendo frequenze e reti a disposizione di potenziali concorrenti. I contenuti che fanno audience sono pochi, e le risorse necessarie per acquistarli ingenti. E bisogna tener conto del valore delle abitudini: una rete tv è anche un tasto del telecomando o volti familiari. Invece di immaginare ipotetici operatori futuri, sarebbe meglio incentivare la concorrenza tra quelli esistenti. Sky, nata dal monopolio sul satellite, ha portato più benefici alla concorrenza di tutte le leggi degli ultimi 20 anni.
Telecom è diventata l´unico operatore integrato verticalmente con accesso a tutte le reti, e ha le risorse per finanziare l´espansione.
Fastweb, con alle spalle un grande produttore di contenuti, potrebbe avere un ruolo incisivo. Ma soltanto una vera privatizzazione della Rai, che liberebbe la sua capacità commerciale e finanziaria, potrebbe promuovere rapidamente la concorrenza e lo sviluppo. Non sarebbe difficile scindere il servizio pubblico in un´apposita società, finanziata interamente dal canone, con una frequenza in dote (analogica e digitale); cedendo tutta la Rai (marchio, canali, contenuti, impianti e frequenze) al miglior offerente.

In un´intervista al Corriere, Prodi aveva ventilato questa ipotesi. Dovrebbe metterla in atto. Darebbe impulso al settore e libererebbe la televisione dalla politica. E la politica dalla televisione. Molti italiani gliene sarebbero grati: di destra, e di sinistra.

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Per liberalizzare la tv, sottrarre la Rai alla politica
di Franco Debenedetti – Il Riformista, 06 aprile 2006

→  marzo 29, 2006

il_riformista
APPELLO. MODIFICARE LA GASPARRI E INTRODURRE LA CONCORRENZA

di Paolo Messa

Riportiamo qui sotto l’appello lanciato dal direttore di Formiche, pubblicazione a cura di Paolo Messa, sulla questione televisiva. Che non è solo una questione di proprietà, né solo (anche) di conflitto di interessi tra politica e controllo del principale mezzo di comunicazione di massa (in attesa che venga scavalcato da Internet). La questione televisiva riguarda la libertà, che si basa su concorrenza e pluralismo. Il Riformista lo pubblica e ne sostiene lo spirito e la sostanza. Siamo convinti che chiunque vinca alle prossime elezioni si troverà ad affrontare un nodo intricato. Che non si taglia con una spada. E’ anche questo il senso della tavola rotonda che abbiamo organizzato due settimane fa con i maggiori rappresentanti delle imprese che fanno televisione e telecomunicazioni. E’ nostra intenzione ospitare e stimolare una discussione vera, tenendo fuori la propaganda.

In Italia c’è abbastanza pluralismo televisivo? Esiste un settore meno protetto di quello televisivo? Temiamo di no. Non pensiamo che la questione riguardi il conflitto d’interessi. Anzi, riteniamo che bene abbia fatto questa maggioranza a varare un provvedimento sul quale c’era, almeno inizialmente, un’intesa con l’opposizione. Sarebbe insensato prevedere una ritorsione legislativa nel caso in cui vincesse il centrosinistra.

Il tema del pluralismo però rimane. C’è da prima che il fondatore del più importante gruppo televisivo privato italiano scendesse nell’arena politica ma non è stato affatto risolto dalla legge Gasparri. L’espediente del digitale si è rivelato inefficace (ha riprodotto il duopolio in una versione tecnologicamente più innovativa), la diffusione del satellite (dove vanno affermandosi realtà indipendenti di ottimo livello) è stata di fatto bloccata o rallentata, la crescita delle tv locali più importanti (quattro o cinque davvero significative) limitata. Nel frattempo, il mercato evolve nel senso della tv digitale mobile (quella sui telefonini, per intenderci) ed i grandi gruppi editoriali manifestano l’interesse di crescere proprio sulla tv.

Se le condizioni legislative lo consentissero in tempi relativamente rapidi potremmo avere una piccola ma significativa ’rivoluzione del telecomando’. Si tratta quindi di intervenire per modificare nel profondo la legge Gasparri. Non per punire l’attuale presidente del Consiglio e capo di Mediaset ma per introdurre, anche in questo settore, maggiore concorrenza. Meno protezionismo e più libertà economica: questo il nostro suggerimento per entrambi i Poli.

Paolo Messa – Formiche

Primi firmatari: Gustavo Piga – docente di Economia, Università di Roma Tor Vergata: Giuseppe Pennisi – docente di Economia, scuola superiore della pubblica amministrazione: Alberto Mingardi – Istituto Bruno Leoni.

→  marzo 17, 2006

Questa pubblicità é uscita a piena pagina su tutti i giornali italiani lo stesso giorno in cui il Sole 24 Ore ha fatto uscire il mio pezzo “Servono da subito procedure più sicure”.

Il Comunicato Telecom