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→  settembre 15, 2006

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di Alessandro Penati

Pirelli deve uscire dal cul de sac in cui si è cacciata cinque anni fa, indebitandosi per strapagare la conquista di Telecom. L’avventura ha lasciato gli azionisti con l´amaro in bocca: il titolo ha perso il 30% del suo valore negli ultimi cinque anni, nonostante la Borsa sia salita del 61%. E Pirelli con tanti debiti: probabilmente supereranno i 2 miliardi a fine anno, più gli oltre 3 di Olimpia, che Consob dovrebbe chiedere di consolidare. Le dismissioni potrebbero essere una soluzione. Ma se anche Pirelli cedesse la rimanente parte di pneumatici e immobiliare, per eliminare il debito e concentrarsi in Telecom, non riuscirebbe a remunerare adeguatamente gli azionisti se non fra qualche lustro. L’alternativa – riconoscere di aver strapagato, vendere la quota in Telecom al miglior offerente, e voltare pagina – è inaccettabile per il gruppo di controllo: Pirelli diventerebbe un gruppo industriale di medie dimensioni, ancora indebitato, fuori dalle luci della ribalta.
Da qui la “riorganizzazione” di Telecom per risolvere i problemi di Pirelli: vendere le attività che valgono di più (Tim, e la Rete) per azzerare l´indebitamento; cavalcare l’entusiasmo della Borsa per il connubio media-Internet; e riposizionarsi nel settore che in Italia garantisce il maggior peso politico. Un piano giustificato con il deterioramento delle prospettive della telefonia e i vincoli posti dall’Authority, che impedirebbero a Telecom di competere. Argomentazioni deboli.
Giustamente l’Authority impedisce a Telecom di offrire ai clienti della rete fissa, acquisiti in virtù del vecchio monopolio e finanziati dal canone, un telefono che fuori di casa si trasformi automaticamente in un portatile: sarebbe un’offerta commerciale che nessun concorrente potrà mai replicare. Ma non le vieta di proporre un servizio integrato di telefonia fissa, mobile e Internet, come altri operatori. Inoltre, è vero che le prospettive della telefonia sono peggiorate ovunque, ma i problemi della società sono imputabili anche a una serie di errori nella gestione Tronchetti Provera: per primo, l’incredibile errore di valutazione al momento dell’acquisizione del controllo.
La politica di cessione delle partecipazioni estere ha concentrato l’attività di Telecom sul mercato italiano, saturo e a bassa crescita. Gli investimenti nel settore dei media, dove l’azienda vuole riposizionarsi, sono stati disastrosi: dal 2002 a oggi, le televisioni del gruppo hanno fatturato 550 milioni, perdendone 350 (prima di oneri e tasse). L’indebitamento di Telecom, più elevato della media di settore, non è piovuto dal cielo: 15 dei 41 miliardi derivano proprio dalla fusione con Tim, che è stata finanziata con il debito per non diluire il valore del premio di controllo di Olimpia. E il debito non si riduce anche perché sugli utili di Telecom grava l’onere dei dividendi che devono affluire ai piani alti della catena di controllo.
La vendita di Tim sarebbe un errore fatale: priverebbe Telecom della principale fonte di cash flow e di un vasto parco clienti da utilizzare, come fanno le società telefoniche di mezzo mondo, per finanziare gli investimenti nella banda larga e nell’acquisto di contenuti multimediali. Per comprare Tim ci sarebbe la coda. E, paradossalmente, al nuovo proprietario, basterebbe acquisire una società che già offre banda larga (come Fastweb) e, avendo risorse e clienti, negoziare accordi con grandi produttori di contenuti per ricostruire in poco tempo una “Telecom” più forte.
L’ipotesi poi che il valore delle attività Internet possa moltiplicarsi, trasformando Telecom in una media company, è discutibile. Nel connubio media-rete vince chi ha i contenuti, non chi li distribuisce: sono i contenuti a fidelizzare i clienti, non la rete, anche perché sono in molti a poter offrire l´accesso alla banda larga. Qualsiasi accordo con Murdoch andrebbe a vantaggio soprattutto di Sky. E poi, ci si dimentica che il successo di Internet implica un trasferimento di ricavi e pubblicità a danno dei media tradizionali. Ma poiché la quantità di media che le persone consumano al giorno è limitata, e la rete aumenta la concorrenza nella distribuzione, è più logico aspettarsi che in futuro siano i multipli di valutazione dei media a ridursi, piuttosto che quelli delle società telefoniche a esplodere.
La verità è che per cercare di mettere fine alle sofferenze degli azionisti Pirelli, si pregiudica il futuro di Telecom. Capisco la preoccupazione del cittadino Prodi. Ma la sua reazione come capo del Governo è censurabile per quattro ragioni. Perché non può violare le regole del libero mercato dei capitali che lui stesso ha posto alla base della costruzione europea. Perché regala al gruppo di controllo di Telecom la patente di vittima di un ottuso e obsoleto dirigismo, facendone passare in secondo piano le gravi responsabilità nella gestione del gruppo. Perché il problema non è Tim in mani straniere, ma un fallimento clamoroso di governance e regole di mercato, che permette a Trochetti Provera e ai suoi manager, che non sono proprietari di Telecom, né di Pirelli, di continuare a gestire il primo gruppo italiano, dopo cinque anni di risultati deludenti. E perché i fallimenti del nostro capitalismo non si risolvono con la quasi nazionalizzazione delle reti, attraverso la Cassa depositi e prestiti, o con la tutela pubblica che trasforma Palazzo Chigi nella succursale di una investment bank.
Le dimensioni di una società telefonica sono oggi incompatibili con la presenza di un gruppo di controllo. La miglior difesa degli azionisti di Telecom e degli interessi nazionali sarebbe dunque una società a capitale diffuso con un management scelto solo in base a capacità e risultati. Senza badare a pedigree o passaporti. E questo è possibile solo se investitori istituzionali, consiglieri indipendenti e stampa specializzata fossero pronti a fare pressioni per rimuovere il management incapace. In Telecom, come in qualsiasi altra azienda.

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Verso le nuove partecipazioni statali?
di Carlo Scarpa – La Voce, 11 settembre 2006

Linea disturbata
di Tito Boeri – La Stampa, 17 settembre 2006

→  settembre 11, 2006

lavoce
di Carlo Scarpa

Non so se il vituperato documento di Rovati (consigliere di Romano Prodi) sia uno scandalo, ma senza dubbio è un pasticcio che testimonia di una grande confusione nel Governo su chi debba dettare gli indirizzi di politica industriale, e su quali debbano essere tali indirizzi.
Al momento della costituzione del Governo avevamo già rilevato come fosse in atto un tentativo di unificare le strategie industriali del Governo (direttamente sotto il controllo della Presidenza del Consiglio) ma come tale tentativo fosse ricco di contraddizioni. Queste contraddizioni oggi puntualmente esplodono, arricchite dalla evidente eterogeneità della maggioranza e della stessa compagine governativa.
Riassumiamo alcuni dei passi compiuti in questi pochi mesi del nuovo Governo.

Mercati “frammentati”: Il ministro Bersani riesce a far passare un decreto sulla liberalizzazione di libere professioni, sulla vendita di farmaci, ecc. (sui taxi, lasciamo perdere…).

Mercato energetico: Sono stati annunciati alcuni provvedimenti per aumentare la concorrenza per energia elettrica e gas sono ma tali interventi non ancora stati esplicitati. Per contro, si è cercato di aiutare Enel nel suo tentativo di entrare oltr’Alpe, ed Eni sul mercato russo (e fin qui niente di male), ma sempre (a quanto si è letto) offrendo alle controparti dei pezzi di mercato italiano in cambio di aperture a questi “campioni nazionali”.
Dopo mesi (forse anni) di trattative fallite, pare andare in porto la fusione tra Aem Milano e Asm Brescia con un accordo tra i sindaci di Milano (destra) e Brescia (sinistra). Il fatto che questo potrebbe limitare sostanzialmente la concorrenza nel mercato elettrico – già dominato da Enel – non sembra preoccupare nessuno.

Trasporti: Si cerca di bloccare – con argomentazioni formali del tutto speciose e argomentazioni sostanziali di difesa dell’italianità dell’impresa – l’operazione di fusione tra Autostrade e la spagnola Abertis .
Si rinnovano i vertici di pezzi importanti della presenza statale nel settore, o confermando chi ha guidato i disastri degli ultimi anni, o promuovendo ex sindacalisti e altri.
Spicca tra questi un ex dirigente IRI che negli ultimi anni ha condotto la Stretto di Messina S.p.A., massima fautrice del discusso progetto del ponte sullo stretto, che è stato posto ai vertici di Anas. Due dettagli: il primo, è che il Ponte sullo Stretto era l’unica opera esplicitamente menzionata nel Programma dell’Unione per dire che non andava fatta. Il secondo, che il neo presidente di Anas non si è ancora dimesso dalla Stretto di Messina, che dovrebbe essere quanto meno un promoter di un’opera data in concessione dalla stessa Anas. Meno male che la maggioranza vuole riprendere in mano il tema del conflitto di interessi…
Alitalia resta nei guai, ma per fortuna sulle sue alleanze interviene anche il vice-presidente del Consiglio, come se il management (appena rinnovato) dovesse agire sotto tutela e senza la fiducia del Governo.
Ma nel programma dell’Ulivo non c’era scritto che si voleva un’Autorità indipendente per il settore dei trasporti? Pare in realtà che la presenza pubblica sia in aumento, non in diminuzione…

Telecomunicazioni. Un consigliere del Presidente del Consiglio immagina un piano di pesante ristrutturazione di un’impresa privata (Telecom), lo comunica su carta intestata della Presidenza ai vertici di questa impresa, ma il Presidente del Consiglio (a quanto pare) non ne sa nulla. All’interno di questo piano si prefigura una ri-nazionalizzazione della rete telefonica tramite la Cassa Depositi e Prestiti, che già da diversi anni (soprattutto sotto Tremonti e Siniscalco) è tornata al centro delle “nuove partecipazioni statali”.
Da più parti della maggioranza si reclama l’utilizzo dei poteri speciali associati alla golden share, che dovrebbe essere riservata a casi in cui siano lesi gli “interessi vitali” del paese.
Cosa emerge da questo mosaico, a parte alcuni curiosi elementi di dilettantismo? Forse effettivamente alcune regolarità, alcune linee guida si possono dedurre.

  1. Il Governo crede (ma certo senza estremismi) nella deregulation dei settori che potenzialmente sono concorrenziali (professioni, commercio), ma le lobby (taxi) restano molto ascoltate;
  2. Il Governo cerca di dire la sua su ogni grande operazione e su ogni grande impresa, che sia all’interno del portafoglio del Tesoro (Alitalia) o meno (Telecom);
  3. Le grandi imprese (autostrade, Enel, Eni, …) vengono in primo luogo difese, soprattutto nella loro italianità;
  4. La presenza politica nell’industria non sembra destinata a diminuire, e talvolta appare in aumento;
  5. La smania di protagonismo dei diversi membri del Governo e della maggioranza prevale sul tentativo di avere una “cabina di regia” della politica industriale.

Alcune di queste cose sono del tutto legittime, per carità, e se è vero che l’Italia non ha mai avuto governi liberisti, anche questo non fa eccezione. In questo e in altri sensi, non si può certo dire che i segnali di discontinuità siano molto forti. Se al vertice di Bankitalia il cambiamento è stato marcato (e benvenuto!), al vertice del paese forse servirebbe lo stesso rispetto dei ruoli tra autorità pubblica e imprese che oggi contraddistingue il comportamento del Governatore Draghi.
Speriamo che eventuali discontinuità non provengano dalla nazionalizzazione delle reti: non si sente proprio il bisogno di aumentare il numero di reti in mano pubblica. Si pensi alla qualità della rete ferroviaria, alla rete idrica che perde circa il 35% dell’acqua immessa, alle infrastrutture del sistema energetico, che 3 anni fa ci ha dato il black-out e che l’anno scorso ci ha costretto ad abbassare la temperatura delle case. Vogliamo altre reti pubbliche? Per carità…
E nessuno sente veramente il bisogno che sia Palazzo Chigi a dettare i comportamenti a Telecom Italia. Le preoccupazioni sono legittime, il resto (i toni, il documento Rovati, …) lascia perplessi. Quello che veramente servirebbe, sarebbe più chiarezza per i piccoli azionisti (che ogni anno si trovano di fronte a piani industriali sempre meno credibili) e maggiore capacità degli stessi azionisti di minoranza (inclusi i fondi di investimento) di intervenire a difesa del valore dell’impresa.
Che lo Stato si occupi delle regole e di fare funzionare i mercati (e le autorità di regolazione ove strettamente necessario). Al resto dovrà pensare la responsabilità degli azionisti. Forse la riunione del CdA di Telecom che ha condotto alle dimissioni di Tronchetti Provera è un buon segno; lo vedremo nei prossimi giorni.

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Tutti gli errori dei due contendenti
di Alessandro Penati – La Repubblica, 15 settembre 2006

Linea disturbata
di Tito Boeri – La Stampa, 17 settembre 2006

→  settembre 3, 2006

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di Gabriele Pastrello

Secondo l’ex senatore Franco Debenedetti (lettera a Repubblica del 31 agosto), la discussione degli anni Trenta sull’impossibilità di effettuare una scelta razionale in un’economia pianificata, aveva deciso una volta per tutte la questione dell’intervento dello Stato nell’economia. Né storicamente, né teoricamente, la discussione sulla pianificazione e sui prezzi ha a che fare con Keynes.

Il liberale Keynes riteneva che le misure invocate da difensori acritici del capitalismo, tipo Hayek e Mises, ne avrebbero invece provocato il crollo politico. Peraltro, il fatto che le politiche keynesiane abbiano garantito, ai paesi capitalistici più sviluppati, trent’anni di benessere e di ritmi di crescita mai visti né prima né dopo, suona come una recisa smentita alla critica, ben poco scientifica, di Hayek.

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Il socialismo liberale e l’economia di Stato
di Franco Debenedetti – La Repubblica, 31 agosto 2006

→  agosto 30, 2006

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Consolidation is coming to Italy’s banking sector, and not a moment too soon. The planned €29.43 billion merger between Banca Intesa and Sanpaolo is expected to kick-start an M&A frenzy in a country that has one of the most fragmented, least modernized and most expensive (at least for customers) banking industries in the developed world. So this deal is, on the whole, good news. But it hardly signals the end of political considerations and economic nationalism as major factors in the banking sector.

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→  luglio 25, 2006

Quanta retorica si fa sulle riforme usate dai partiti per esser legittimati

di Giorgio Rebuffa

Ora che è passato un mesetto, lo possiamo dire apertamente: la vittoria del no al referendum costituzionale non ha solo bocciato un brutto testo, ma ha chiuso la fase delle ciance costituzionali. E ha chiuso anche la fase delle opposte retoriche del tipo «la Costituzione non si tocca!» o, il suo opposto, «la riforma della Costituzione ci salverà!». Naturalmente non è sicuro che andrà così, ma è una speranza molto viva: non vogliamo arrenderci all’idea che le dinamiche costituzionali finiscano come le partite di calcio, preda di cronisti assatanati a raccontare le gesta dei nostri gladiatori o come le vite delle belle attrici, vittime di gossippari truculenti. Speriamo che sulle riforme cada un bel silenzio rispettoso. Poi chissà, un giorno.

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→  giugno 29, 2006

di Monica d’Ascenzo e Simone Filippetti

La nascita di un Terzo Polo televisivo, vagheggiata fin dai tempi dei Governi di centro-sinistra a fine anni ’90, torna a scatenare la speculazione su Ti Media . Ieri il titolo del gruppo presieduto da Marco Tronchetti Provera ha archiviato la seduta a 0,3718 euro per azione con un rialzo del l’8,52%, un balzo che porta il saldo da inizio settimana in positivo del 15,5%. Gli analisti di spiegazioni non ne hanno: non si può parlare più da tempo di prezzi giustificati dai fondamentali. Tanto più che multipli sul Mol, margine operativo lordo, non ce ne sono considerato che la società è ancora in rosso e a livello operativo è atteso il segno più solo nel 2008. Le azioni però quotano già a 4/4,5 volte i ricavi attesi per l’esercizio in corso. Una valutazione di Borsa che porta la società a 1,24 miliardi di capitalizzazione, quando, in base ai calcoli degli analisti con i comparable, dovrebbe avere una capitalizzazione attorno ai 750/850 milioni, pari a circa 0,25 euro per azione.
Per questo gli operatori del mercato sono scettici che De Agostini, cui tutti guardano come la candidata ideale all’acquisto dopo la mega-plusvalenza da 1,5 miliardi dal l’operazione Toro, possa davvero essere intenzionata a rilevare la società. E d’altra parte le smentite sono arrivate puntuali ieri pomeriggio. Telecom Italia ha negato di aver ricevuto un’offerta per Ti Media, mentre De Agostini ha dichiarto che non c’è alcuna trattativa a riguardo. Gli investitori non ci hanno creduto, considerato che il titolo Ti Media dopo i comunicati dei due gruppi ha strappano nuovamente al rialzo nell’ultima ora e mezza di contrattazioni.
A far propendere le speculazioni su un interesse di De Agostini è anche la constatazione che a guidare il gruppo di Novara oggi è quel Lorenzo Pellicioli che sei anni fa fu tra i protagonisti dell’operaziona Seat-Tmc, ossia il tentativo, poi naufragato, di mettere in piedi il Terzo Polo televisivo con l’avallo del Governo Amato. Tra l’altro il gruppo della famiglia Boroli-Drago controlla anche il pacchetto di maggioranza (39,478%) della spagnola Antena 3. Lo stesso Pellicioli ha espresso solo un mese fa l’intenzione di salire nell’azionariato della tv iberica, che sotto la guida di Maurizio Carlotti, ex amministratore delegato di Mediaset , continua a crescere tanto da aver archiviato il primo trimestre del 2006 con un Ebitda in aumento del 29,9% e un utile netto salito del 10,7% a 248,9 milioni. Certo è che, da un punto di vista strettamente industriale, le eventuali sinergie tra Ti Media e Antena 3 sono giudicate dagli analisti marginali. De Agostini potrebbe eventualmente replicare il modello di business ‘dualistico’ di Mediaset, che controlla in Spagna Telecinco, ma con una gestione a sé stante. Senza contare, poi, che De Agostini avrebbe a disposizione un manager di provata esperienza come Carlotti a cui affidare la nuova sfida. Ma l’acquisto di Ti Media agli attuali prezzi di mercato viene valutata come un’inversione di tendenza nella politica di acquisizioni di Novara, finora improntata alla massima cautela e a realizzi consistenti.
Per questo il mercato guarda anche ad altri possibili pretendenti per Ti Media: fra i candidati potrebbe esserci anche Rcs Media Group . In occasione della fiammata del titolo del gruppo, che controlla La7 e il 51% di Mtv, a fine aprile scorso fonti vicine a Rcs avevano negato trattative in corso, ma non un eventuale interesse nel caso il dossier fosse stato presentato ai vertici dell’editrice del Corriere della Sera. In questo caso, però, si dovrebbe tener conto dei paletti dalla Legge Gasparri, secondo la quale chi ha più di una rete televisiva nazionale non potrà controllare quotidiani fino al 2010 e viceversa. Nel caso in cui Rcs acquisisse Ti Media dovrebbe quindi disfarsi di una delle due emittenti.
Infine sul mercato è circolato anche il nome di Carlo De Benedetti, come possibile pretendente del gruppo media. Ma anche in questo caso ci sarebbe da fare i conti con la Gasparri. Non solo sarebbe necessaria la cessione di una delle due emittenti di Ti Media, ma nel caso l’acquisizione avvenisse tramite L’Espresso il gruppo dovrebbe dismettere anche Rete A, acquisita a inizio 2005.