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→  novembre 17, 2006


di Riccardo Gianola

La scena più gustosa del libro «Il baco del Corriere» di Massimo Mucchetti, compare a pagina 12. Il giornalista racconta che il 5 novembre 2004, alle nove di sera, l’amministratore delegato Vittorio Colao gli si presenta davanti. Prende un pezzo di carta bianca sulla scrivania e scrive una domanda in stampatello. “Dove possiamo parlare in sicurezza?”». Mucchetti gli risponde sempre per iscritto, per evitare evidentemente che qualcuno ascolti le loro voci: «Troviamoci sotto, all’angolo fra Solferino e Moscova».

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→  novembre 16, 2006


di Massimo Mucchetti

La storia dei giornali s’intreccia da sempre con quella dei potentati dell’economia. Lo si è visto anche nella calda estate del 2005 con la scalata al “Corriere della Sera”. Ma proprio gli esiti di quel resistibile assalto e, poi, la crisi al vertice di Telecom Italia, il rastrellamento di azioni Fiat fatto dagli Agnelli e i contrasti tra Capitalia e Capitalia portano in superficie tutti i limiti della coalizione economico-finanziaria che sta a capo del primo gruppo editoriale italiano. E inducono Massimo Mucchetti – vicedirettore del “Corriere” spiato assieme all’amministratore delegato di Rcs fin dal 2004 – a chiedersi se e come possa cambiare il vecchio modello che assegna la proprietà del primo gruppo editoriale italiano a un “patto di sindacato” formato da banche e industriali, i cui interessi di fondo confliggono con quelli della libera informazione.

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→  novembre 2, 2006

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di Antonio Sassano

In due articoli apparsi sul Sole 240re (il 21 ed il 31 ottobre), Franco Debenedetti ha definito il ddl Gentiloni: “Una legge che guarda al passato e ritarda il futuro”, “vessatoria per Mediaste”. La mia opinione è che, invece, si tratti di una legge che inizia a smontare il passato per costruire il futuro. Cerco di spiegare il perché.
Le critiche di Debenedetti sono suddivise tra le due questioni centrali: quella del mercato pubblicitario e quella delle frequenze. Voglio concentrarmi sulla seconda ma parto dalla prima. Debenedetti ci dice che il ddl Gentiloni trascura lutti gli “altri proventi afferenti ad un’impresa”, si concentra sulla sola pubblicità televisiva, dimentica “i modelli economici dei mercati a due versanti”. Nella sua sofisticata analisi economica sfugge però a Debenedetti che l’Antitrust ha concluso (Indagine conoscitiva 23/2004 ) che è proprio il mercato della “raccolta pubblicitaria su mezzo televisivo in chiaro” ad essere a due versanti mentre quello a pagamento è ad un solo versante. Si tratta, insomma, di mercati distinti. E dunque, il ddl è metodologicamente autorizzato a concentrarsi sul primo. La questione diviene: è giusto limitare un singolo soggetto al 45% del totale delle risorse disponibili su un singolo mercato, anche tenendo conto della sua rilevanza ai fini del pluralismo? Il ddl risponde positivamente: non mi sembra si tratti di una risposta particolarmente vessatoria.
Per quanto riguarda le frequenze Debenedetti afferma che: “La risorsa scarsa non sono (mai state) le frequenze bensì i contenuti”. È un’affermazione sorprendente. Tutti gli esperti concordano sul fatto che quello delle frequenze e della loro occupazione inefficiente sia “il” problema. Secondo Debenedetti il ddl Gentiloni ha l’obiettivo di ritardare l’avvento delle nuove tecnologie e di limitarsi a regolare il morente mercato analogico.
Questo tentativo è sintetizzato in tre mosse: lo spostamento della data dello switch off al 2012, il “trasferimento forzoso” dei palinsesti e l’introduzione di vincoli che “rendono impossibile a Mediaset e Telecom trasmettere i programmi che avevano promosso il digitale”, a vantaggio di Sky. L’ultima affermazione è una grave accusa di distorsione del mercato a favore dell’operatore satellitare. Grave ma infondata. Il ddl non prevede alcuna limitazione alla diffusione dei programmi pay per view. Non la prevede durante la fase di transizione, nella quale gli operatori di rete possono rimanere verticalmente integrati e dedicare ai propri conte-nuti il 60% della capacità trasmissiva dei propri multiplex. E neanche a regime (nel 2012): il limite del 20% garantirà una capacità sufficiente a trasmettere contemporaneamente fino a 14 programmi di ottima qualità. Nel 2012 ci saranno almeno cinque fornitori di contenuti in grado di trasmettere in diretta ed in alta definizione l’intero campionato di serie A e di competere tra loro e con l’operatore satellitare.
Quanto al “trasferimento forzoso” di due reti analogiche e allo spostamento dello switch off
Al 2012, le due obiezioni si contraddicono. Se scegliere il 2012 significa rimandare sine die, la data dello switch off può essere anticipata al 2010, diciamo. Ma se si vuole spegnere tutto nel 2010 non si può definire “forzoso” il trasferimento di due palinsesti nel 2009. Sarebbe piuttosto, un avvio tardivo del processo di transizione. Se conveniamo sull’effetto di forzamento del trasferimento dei due palinsesti in digitale, dobbiamo ammettere che la scelta del 2012 è una grande scommessa sulla capacità industriale e organizzativa del nostro Paese. Le “incertezze degli operatori e degli utenti” sono state prodotte dal continuo spostamento in avanti di scadenze che non si riusciva a rispettare. Resta la questione del “trasferimento forzoso”. La ratio dell’intervento è duplice: avviare la transizione e impedire che essa divenga una mera trasformazione 1-a-1 delle reti analogiche in digitali. Nel 2004 l’Antitrust raccomandava “misure di carattere strutturale che garantiscano una rapida ed ordinata transizione allo scenario previsto dal Piano digitale e che le precedenti posizioni detenute nelle reti analogiche (…) non si trasferiscano al futuro mercato digitale terrestre”.
La raccomandazione è ancora valida? La risposta è nei fatti. Rai e Mediaset non hanno posto mano alle reti analogiche,con la loro struttura ridondante e l’uso inefficiente di una risorsa preziosa per il Paese come lo spettro frequenziale. Le reti digitali sono state realizzate utilizzando le poche frequenze di qualità che le tv locali mettevano a disposizione. Ora non ne esistono più. Quando l’Agcom ha chiesto un piano di transizione al digitale, la risposta di Rai e Mediaset è stata: abbiamo tre reti analogiche, le trasformeremo 1-a-1 in tre reti digitali.
Nessun accenno al fatto che le reti analogiche di Rai e Mediaset utilizzano, ognuna, circa 1.000 impianti-frequenza ad ampio bacino di servizio contro i 260 previsti dal Piano dell’Agcom. Nè al fatto che migliaia delle nostre frequenze analogiche non sono coordinate a livello internazionale (Piano di Ginevra).
I principali operatori, senza stimoli esterni, ignorano il coordinamento internazionale, tendono a non trasformare le reti analogiche e a non muoversi verso lo scenario digitale, il ddl Gentiloni tenta di smontare questa situazione di equilibrio stabile. Fissa l’avvio della transizione a 15 mesi dalla sua approvazione, affidando agli operatori il progetto del trasferimento, che dovrebbe essere approvato dall’Agcom e prevedere il riutilizzo di parte delle frequenze intrappolate nelle reti analogiche. Ovviamente in accordo al Piano digitale europeo di Ginevra e al Piano dell’Agcom.
Le frequenze non utilizzate in questo progetto, grazie alla maggior efficienza delle reti digitali, tornerebbero allo Stato e, quindi, al mercato. Le frequenze e non gli impianti, che resterebbero agli operatori. E dunque, Rai e Mediaset sarebbero affiancate da eventuali nuovi entranti nel finanziare la realizzazione delle nuove reti. Più attori e più risorse per il mercato. Nè il ddl Gentiloni impedisce agli operatori di iniziare, da subito, la transizione al digitale. Potrebbe trattarsi anche dell’azione coordinata con gli altri operatori che Carlo Rognoni ha felicemente definito la “mossa del cavallo” e che per Claudio Cappon (IL Sole 24 Ore del 31 ottobre) è “coerente con gli obiettivi di apertura del mercato del ddl Gentiloni”. Il ddl Gentiloni avrebbe così ottenuto l’obiettivo strategico di accelerare la transizione con la semplice indicazione di una credibile strategia d’azione.
Se però, com’è possibile, nel 2009, a tre anni dallo switch off, gli operatori televisivi fossero ancora immobili nel loro equilibrio stabile, Franco Debenedetti considererebbe davvero un forzamento inaccettabile quello di spegnere finalmente due reti analogiche di trasferire i rispettivi palinsesti sui multiplex digitali e di aprire il mercato delle frequenze? Sinceramente, non lo credo.

ARTICOLI CORRELATI
Una legge vessatoria per la sola Mediaset
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2003

→  ottobre 23, 2006

di Guido Baglioni

Il caso dell’Alfa Romeo di Arese si contrappone agli esempi di altre due case automobilistiche, una inglese l’altra americana. La condivisione degli obiettivi di impresa è una formula di successo – La cultura della cooperazione nel nostro Paese è osteggiata anche dai manager.

A che cosa serve il sindacato. Questo è il titolo del volume appena uscito e, fatto insolito per gli studi che riguardano le relazioni industriali e sindacali, produrrà un vivace dibattito. A ciò contribuirà anche il sottotitolo: Le follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino. Le follie si esprimono emblematicamente nelle modalità del conflitto nel settore dei trasporti; la scommessa è attribuita alle possibilità di innovazione strategica e culturale del sindacalismo confederale.

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→  ottobre 23, 2006


di Pietro Ichino

Nell’ottobre del 2000, proprio mentre la Fiat prendeva la decisione di chiudere lo stabilimento dell’Alfa Romeo di Arese, la casa automobilistica giapponese Nissan annunciava di voler produrre in Europa un suo nuovo modello destinato al mercato comunitario. Si candidarono un sito industriale spagnolo, uno francese e uno inglese. Da noi, invece, a candidare lo stabilimento di Arese, con i suoi duemila operai in procinto di perdere il posto, non ci pensò nessuno. Fu distrazione? No. Il sistema italiano dei rapporti di lavoro e sindacali non avrebbe neppure consentito di aprire una trattativa sulla base delle proposte della casa nipponica.
La gara venne vinta dalla Gran Bretagna. Bassi stipendi? Lavoro precario? Niente affatto: nello stabilimento inglese, scelto poi dalla Nissan, il lavoro è retribuito il doppio di quello dei metalmeccanici italiani, è sicuro e altamente qualificato. Ma è regolato da un accordo sindacale incompatibile con il contratto collettivo italiano di settore.

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→  settembre 17, 2006

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di Tito Boeri

Dopo aver seguito in questi giorni le animate conferenze stampa della nostra fitta delegazione, i cinesi si stanno probabilmente chiedendo che razza di Paese sia l’Italia. Loro se ne intendono sia di affari che di intervento dello Stato in economia. E hanno ascoltato una sequenza di notizie alquanto sorprendenti. Primo, il manager del più grande gruppo italiano (anche per numero di consulenti ed advisors) rimane in sella per cinque anni pur a fronte di risultati deludenti, se non addirittura disastrosi come nei media, e di un indebitamento al di sopra della media del settore.
Secondo, questo numero uno rinnega, con l’approvazione unanime del consiglio di amministrazione, la promessa fatta agli azionisti sul prospetto informativo depositato solo un anno e mezzo fa. I risparmiatori, tra cui forse anche qualche cinese emigrato in Italia, hanno mestamente assistito negli ultimi 5 anni al dimezzamento del valore del titolo in Borsa credendo nelle «sinergie» e nella «creazione di valore» associata all’integrazione fra fisso, mobile, Internet e media. Apprendono ora, tutto d’un colpo, che il valore si crea invece solo spaccando in due, anzi in tre, l’azienda.
Terzo, il nostro governo, impegnato a convincere uomini d’affari cinesi a investire in Italia e le autorità di Guangdong a fidarsi di noi, divulga nei minimi particolari i contenuti di trattative riservate in corso tra Telecom e altre aziende.
Quarto, il nostro premier confessa di essere del tutto all’oscuro della vicenda, nonostante vi sia, tra i suoi consiglieri, chi ha preparato piani di riassetto dell’azienda in puro stile banca di investimento (termine tradotto in italiano perché, come è noto, nella merchant bank di Palazzo Chigi non si parla l’inglese).
Quinto, il numero uno di cui sopra si dimette, motivando la sua scelta non tanto in base ai pessimi risultati dell’azienda quanto alle interferenze del governo, e il consiglio sempre all’unanimità chiama l’uomo della provvidenza, attualmente alla guida della Federcalcio. In effetti, i cinesi hanno potuto in questi giorni toccare con mano la Coppa del Mondo esibita negli stand dell’Ice a Canton. Ma non c’era bisogno di questo per convincerli che il rosso, declinato al plurale, è sinonimo di successo.
Probabilmente i cinesi, nelle prossime settimane, avranno altro di cui occuparsi. Non potranno dunque acquisire quelle ulteriori informazioni, che forse potrebbero dare un senso a vicende apparentemente incomprensibili. Siamo il Paese in cui si lasciano sempre trapelare i segreti, basta che siano quelli degli altri. Quindi tranquillizziamoci: prima o poi, sapremo tutto. Ma una cosa è chiara sin d’ora, anche ai cinesi che sono maestri nel fare e disfare scatole e nello stare in mezzo al guado, fra Stato e mercato.
Se avessimo un capitalismo maturo e una classe politica che ha una cultura economica (prima ancora che di mercato) adeguata, probabilmente nulla di tutto ciò sarebbe avvenuto. Non avremmo catene di controllo bizantine, per cui gli utili di un’azienda che continua a macinare profitti nella telefonia mobile grazie alla scarsa (altro che eccessiva!) regolazione del settore, non vanno ad abbattere l’indebitamento, ma affluiscono ai piani alti della catena. Non avremmo neanche manager-padroni che possono sopravvivere, nonostante i loro palesi errori, ai posti di comando per quelli che nei mercati finanziari sono tempi biblici. Avremmo invece più concorrenza nelle telecomunicazioni e prezzi più bassi per gli utenti, il vero interesse nazionale, mentre il maggior gruppo italiano sarebbe un conglomerato con azionariato diffuso, controllato da un manager con una piccola quota. Non avremmo neanche personale nella cabina di regia con smanie di protagonismo, che vogliono intervenire in prima persona nella vita di un’impresa privata, anziché limitarsi a regolare e far leggi che assicurino che i piccoli azionisti abbiano voce in capitolo. Non avremmo progetti, comunque maturati non lontano dalle stanze dei bottoni, in cui torna in auge una creatura, assai popolare nella scorsa legislatura, come la Cassa Depositi e Prestiti, per rinazionalizzare la rete telefonica. Non vi sarebbe neanche chi al governo, per fortuna non tra i ministeri economici, chiede l’utilizzo della golden share, come se fossero in gioco gli «interessi vitali» del Paese. Di vitale per il Paese c’è in questa vicenda solo la credibilità internazionale. Bene salvaguardarla, a tutti i livelli.

ARTICOLI CORRELATI
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di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2006

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di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2006

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