A che cosa serve il sindacato?

ottobre 23, 2006



di Pietro Ichino

Nell’ottobre del 2000, proprio mentre la Fiat prendeva la decisione di chiudere lo stabilimento dell’Alfa Romeo di Arese, la casa automobilistica giapponese Nissan annunciava di voler produrre in Europa un suo nuovo modello destinato al mercato comunitario. Si candidarono un sito industriale spagnolo, uno francese e uno inglese. Da noi, invece, a candidare lo stabilimento di Arese, con i suoi duemila operai in procinto di perdere il posto, non ci pensò nessuno. Fu distrazione? No. Il sistema italiano dei rapporti di lavoro e sindacali non avrebbe neppure consentito di aprire una trattativa sulla base delle proposte della casa nipponica.
La gara venne vinta dalla Gran Bretagna. Bassi stipendi? Lavoro precario? Niente affatto: nello stabilimento inglese, scelto poi dalla Nissan, il lavoro è retribuito il doppio di quello dei metalmeccanici italiani, è sicuro e altamente qualificato. Ma è regolato da un accordo sindacale incompatibile con il contratto collettivo italiano di settore.

Così, mentre all’Alfa di Arese i lavoratori restano in cassa integrazione per anni e il nostro sindacato vagheggia un impossibile intervento pubblico che consenta di non mettere in discussione nulla del vecchio modello di relazioni industriali, il sindacato inglese negozia e accetta di sottoscrivere una scommessa comune con l’investitore straniero.
Pietro Ichino ripropone, come in una cronaca giornalistica, questa vicenda emblematica e alcune altre parimenti significative del difficile stato delle relazioni sindacali nell’Italia contemporanea, dal caso dell’Alitalia, dove le hostess si ammalano a comando per scioperare anche quando è proibito, a quello del ministro del Lavoro che appoggi il sindacato che le organizza; dalle agitazioni che paralizzano due volte al mese ferrovie e trasporti urbani all’incredibile vicenda degli uomini radar. E ne prende spunto per formulare una proposta di riforma molto chiara e semplice. Una riforma che assume anch’essa il carattere di una scommessa comune a tutte le parti responsabili del futuro economico dell’Italia. Perché il nostro paese non può uscire dal declino senze eliminare i fattori istituzionali e culturali che paralizzano il suo sistema di relazioni sindacali.

IL DIBATTITO
La fabbrica partecipativa
di Guido Baglioni, 23 ottobre 2006

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