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→  marzo 23, 2007


di Piergiorgio Odifreddi

Torna in libreria lo “scandaloso” saggio di Bertrand Russell sul matrimonio
Il 24 febbraio 1940 il City College di New York affidò a Bertrand Russell l’incarico di tenere l’anno seguente tre corsi di filosofia: il primo sui concetti moderni della logica, il secondo sulle basi della matematica e il terzo sulle relazioni tra scienza pura e applicata. Il vescovo William Manning inviò immediatamente una lettera ai giornali cittadini, avvisando la popolazione che l’incaricato era «un uomo noto come propagandista antireligioso e antimorale, che difende in particolar modo l’adulterio». Il settimanale gesuita America precisò che egli era «un arido e decadente difensore della promiscuità sessuale», e il senatore John Dunigan dichiarò in aula che la filosofia di Russell «sovverte religione, stato e famiglia».

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→  marzo 22, 2007


di Bertrand Russell

Nel 1929, questo saggio fu considerato scandaloso dagli ambienti più tradizionalisti. Oggi, molte delle idee in esso sostenute sono entrate nel dibattito politico e alcune sono state recepite dalla legislazione del diritto familiare. Eppure, dopo quasi ottant’anni, il testo conserva intatta la sua carica «eversiva» contro il pregiudizio e i luoghi comuni in materia di vita sessuale.
L’impietosa critica del filosofo è soprattutto contro la religione cristiana, colpevole di aver imposto una morale sessuofobica; in realtà, Russell non svilisce il ruolo sociale del matrimonio, anzi lo considera «la migliore e più importante istituzione che possa esistere tra esseri umani», se inteso come alleanza e vincolo profondo per la costruzione di una famiglia e non come censura dell’amore passionale, che secondo il filosofo deve potersi esprimere anche al di fuori del matrimonio. Ma l’analisi va oltre, coinvolgendo educazione dei figli, contraccezione, divorzio, omosessualità, salute e istruzione pubblica, in una riflessione tutt’ora ricca di stimoli su temi di perenne attualità anche nella società del terzo millennio.

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→  marzo 19, 2007

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di Alberto Statera

“Un allarme per la democrazia”, scandì Romano Prodi quando nella Commissione Antitrust, regnante Berlusconi, furono nominati da Pierferdinando Casini e Marcello Pera, rispettivamente presidenti di Camera e Senato, Giorgio Guazzaloca e Antonio Pilati. Un allarme così grave perché l’ Autorità per la concorrenza, in un paese democratico, è la più importante e, in un sistema bipolare si richiede che sia una “forte e robusta istituzione di garanzia”. Pena, tra l’ altro, “la delegittimazione dell’ Italia nel contesto europeo”, aggiunse Prodi. Lo scandalo, pur in un momento in cui i conflitti d’ interessi erano ben altri, era allora più che legittimo, visto che a garantire il mercato, la concorrenza e i consumatori d’ Italia erano stati chiamati due personaggi che il rispetto sostanziale della legge avrebbe dovuto escludere a priori: Giorgio Guazzaloca, di professione macellaio ed ex sindaco di Bologna, quindi a digiuno totale di mercato e concorrenza, e Antonio Pilati, tutt’ altro che digiuno, ma autore del testo della Gasparri, la legge sulle telecomunicazioni fatta su misura per l’ allora presidente del Consiglio in carica, un signore competente che assurgeva a controllore delle leggi da lui stesso elaborate. Sudamerica, panorama sudamericano.
Passati gli anni, Guazzaloca e Pilati sono restati a piè fermo, senza che l’Europa per la verità ci abbia espulsi come vaticinava Prodi. Due commissari scaduti, Carlo Santagata e Nicola Occhiocupo, sono stati invece sostituiti giorni fa, con nomina firmata dai presidenti delle Camere Fausto Bertinotti e Franco Marini, ben impreparati entrambi in tema di mercato e di concorrenza, si presume sentito Palazzo Chigi. I fasti dell’ era berlusconiana si spera siano inimitabili, e nessuno avrebbe avuto il coraggio di proporre la nomina all’ Antitrust del panettiere bolognese della signora Flavia Prodi, nè del grande banchiere Nanni Bazoli, o del furbissimo consigliere presidenziale Angelo Rovati, autore del famoso piano di riassetto della Telecom, che tante grane procurò al premier. Ma la scelta di Marini e Bertinotti non è quella che ci si sarebbe aspettata. Non certo quella che ribalta la valutazione delle Autorità, che dovrebbero essere garanti dei consumatori e della democrazia, pena l’ allarme denunciato tre anni fa dall’ attuale premier.
Sono personaggi indiscutibilmente di vaglia Carla Rabiti Bedogni e Piero Barucci, nominati all’ Antitrust da Bertinotti e Marini. La prima è docente di diritto del mercato finanziario alla Sapienza di Roma. L’ altro, ex ministro del Tesoro, è presidente della Banca Leonardo e ha ricoperto posizioni di vertice in molte banche, dal Credito Italiano al Monte dei Paschi di Siena, fino a Mediobanca. Ma soprattutto è stato presidente dell’ Abi, l’ Associazione Bancaria Italiana, che è la lobby dei banchieri, più volte oggetto delle attenzioni non proprio amichevoli dell’ Antitrust per i sospetti di cartello. Nel primo caso, come ha notato Franco Debenedetti, ex senatore dei diesse che, non ricandidato, fa ora il giornalista con impatto assai più efficace di prima, c’ è quantomeno uno “sgarbo istituzionale”, in quanto i presidenti delle Camere sapevano benissimo che c’ è all’ esame delle loro assemblee una legge che prevede il divieto del passaggio da un’ Autorità all’ altra, per evitare il “professionismo” delle Autorità. E la Bedogni, purtroppo, viene dalla Consob. Nel secondo caso, è piuttosto evidente che la storia personale, come si dice, non fa del professor Barucci, nonostante la stima che se ne coltivi, il più puro difensore delle regole della concorrenza, del mercato, il più inflessibile persecutore delle posizioni dominanti, degli abusi, né l’irrogatore senza cuore di sanzioni a banche, di cui magari è stato per anni amministratore delegato o consigliere. Credevamo francamente che l’ “allarme democratico” lanciato a suo tempo dall’ ex presidente della Commissione Ue, avrebbe guidato meglio, “qui e ora”, la mano digiuna di mercato di Bertinotti e Marini.

ARTICOLI CORRELATI
Antitrust. Gli errori di Marini e Bertinotti
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2007

→  febbraio 15, 2007


di Mattia Feltri

Nel nuovo libro di Andrea Romano la parabola di tre ex ragazzi tra divisioni e ripensamenti. Come quello di Veltroni che da giovane criticava il kennedismo e inneggiava a Mao
Ognuno col suo viaggio, ognuno diverso», scrive Andrea Romano a proposito di Massimo D’Alema, Piero Fassino e Walter Veltroni, e citando il poeta – cioè Vasco Rossi – che per il cognome, da un certo punto in poi, è l’elemento più ortodosso rimasto in campo. Nella sua ribalderia, Romano ha perlomeno la grazia di omettere il verso successivo: «Ognuno in fondo perso dentro i c… suoi».

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→  febbraio 6, 2007

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di Salvatore Bragantini

Prima due articoli di Francesco Giavazzi, poi una lettera di Franco Debenedetti hanno criticato sul Corriere la nascita di F2i, il fondo per le infrastrutture promosso dalla Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e da altre banche; se Giavazzi riconosce i meriti del capitalismo di Stato nella rinascita postbellica—ricordati da Barry Eichenberg nel suo “The european economy since 1945” — entrambi temono che rinasca l’Iri.
Il capitalismo di Stato è il passato, non il futuro; su alcuni punti, tuttavia, è bene tornare. Aveva ragione l’allora presidente Iri, Prodi, a cercare di togliere ai privati il controllo di Mediobanca, giacché esso era esercitato grazie a un accordo impresentabile, e perciò nascosto. Definito da Cesare Merzagora un pasticcio di allodola e cavallo, esso conferiva ai privati un peso sproporzionato alle poche lire da loro investite; era il tipico prodotto di un mondo del quale nessuno — certo non Giavazzi o Debenedetti — ha nostalgia.

Se il capitalismo di Stato non ha futuro, ciò non comporta che lo abbia invece un altro capitalismo, spesso relazionale, familista e teso ad estrarre dalle imprese i benefici privati del controllo, più ostile al mercato di quello di Stato. La sagacia dei grandi gruppi del cortile domestico nel costruire buoni progetti industriali spesso sonnecchia, come Omero. Si pensi al fiasco del reimpiego degli indennizzi per le imprese elettriche prima, o al sonno tranquillo di Fiat come azionista di Telecom poi: c’è voluta la ruspante razza padana, con la sua inclinazione per le scorciatoie legali, per scoprire quale miniera si nascondeva lì sotto.

In verità i nostri due capitalismi, di Stato e privato, sono sempre andati a braccetto. Ciò vuol dire che non possiamo puntare sui privati? Certo che dobbiamo farlo, però pregando la divina provvidenza, ove pensi a tali minuzie, di far crescere, alfine, il medio capitalismo italiano: quello che miete successi in giro per il mondo, sempre schiacciato dal capitalismo di relazione. Questo, peraltro, ci pensa da solo a sparire: si vedano le grandi imprese che sono sparite nell’oblio, quando non affondate negli scandali.

Quanto a F2i: nascono tanti fondi per infrastrutture nel mondo, perché non dovrebbe nascerne uno in Italia, che di infrastrutture moderne ha gran bisogno? Se il rischio d’impresa per esse è più basso, i fondi possono trovare soldi prospettando rendimenti inferiori a quelli usuali nel private equity. Se ciò avvicina i fondi più ai bond a lungo termine che alle azioni, che c’è di male? I fondi pensione avranno fame di questi asset. Era indispensabile che in F2i ci fosse, con la Cassa, denaro pubblico? No, ma se partecipano Intesa San Paolo, Lehman e Unicredit, perché non può farlo, in minoranza e senza patti d’antan, una banca pubblica? F2i stimolerà, non impedirà, la nascita di fondi simili.
La partecipazione di Cdp in Terna non sarà venduta a F2i, perché una legge lo impedisce, a tutela degli investitori. Ci volle infatti una legge “speciale” per consentire ai gestori di fondi immobiliari di cedere immobili ai “propri” fondi. Ne beneficiò Pirelli Re, insieme a qualche ente pubblico; non si ricordano molte proteste. C’è pericolo che F2i compri a poco prezzo cespiti senza gara, facendo concorrenza sleale, o al contrario paghi care le reti di società decotte, a favore delle banche creditrici? Quando accadrà ci ribelleremo: farlo ora è un processo alle intenzioni, senza presupposti di fatto. Se poi F2i acquistasse infrastrutture dal settore pubblico, il peso di questo nella nostra economia scenderebbe, liberando risorse per scopi più consoni.
Certo, a pensar male spesso ci si prende, e F2i potrebbe deragliare dalle intenzioni dichiarate, ma il rischio che esso avvii la riscossa del capitalismo di Stato mi pare inferiore a quello di una nuova era glaciale. Non si vede, infine, perché il denaro pubblico, che non ha fatto voto di castità, debba precludersi, anche in piccola parte, l’accesso alle sensuali delizie della leva finanziaria, così beatamente godute dagli oligopolisti privati.

ARTICOLI CORRELATI
Sotto quel fondo moderno c’è molto di antico, l’Iri
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2007

Capitalismo di stato
di Francesco Giavazzi – Il Corriere della Sera, 27 gennaio 2007

… a proposito di F2i -Fondo Italiano per le Infrastrutture
la risposta di Vito Gambarale, 27 gennaio 2007

→  gennaio 27, 2007

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di Francesco Giavazzi

I fondi che investono in infrastrutture (autostrade, porti, aeroporti, ma anche ospedali, reti elettriche e per la distribuzione del gas) sono sempre più numerosi. Solo negli ultimi mesi ne sono nati 5 o 6, ad esempio quello lanciato dalla società americana Carlyle, con una dotazione iniziale di oltre un miliardo di dollari. I fondi dell’australiana Macquarie (che in Italia possiede il 44,5% degli Aeroporti di Roma) investono nel mondo un totale di circa 40 miliardi, abbastanza per costruire otto ponti sullo Stretto di Messina.

In Italia accade raramente che opere pubbliche siano finanziate ricorrendo a questi fondi: il motivo per cui esse non decollano è l’incertezza regolamentare. Esemplare è il caso Autostrade: dopo aver firmato una concessione trentennale, oggi il governo ha deciso di riscriverla. E’ vero che quella concessione era forse troppo favorevole ai privati, ma lo Stato avrebbe dovuto pensarci prima: rinnegare un contratto firmato ha effetti deleteri e tiene alla larga gli investitori. E quando ciò accade, per finanziare opere pubbliche non rimane che ricorrere alle tasse dei cittadini.
La scorsa settimana il governo ha creato un fondo per le infrastrutture nel quale investiranno la Cassa depositi e prestiti, le nostre banche maggiori e le fondazioni bancarie. Ce n’era davvero bisogno? E perché le banche, anziché creare un proprio fondo, come Macquarie o Carlyle, ne sottoscrivono uno la cui regia è saldamente in mano al governo e la cui guida è affidata a Vito Gamberale, già manager delle Partecipazioni statali, poi passato dalla parte dei «cattivi rentier » di Autostrade e ora redento?

Il motivo contingente che ha indotto a creare il nuovo fondo è la decisione dell’Antitrust che impone alla Cassa depositi e prestiti di cedere o la partecipazione in Enel o quella in Terna, la società che possiede la rete elettrica. Per non perdere il controllo né dell’una né dell’altra, Terna sarà trasferita al nuovo fondo e quindi rimarrà nella sfera pubblica. Ma a che prezzo avverrà la cessione? Se fosse troppo basso ci perderebbero i contribuenti, se fosse troppo alto a perderci sarebbero gli azionisti delle banche che partecipano al fondo. Per garantire entrambi ci vorrebbe una gara aperta ai fondi internazionali. Ma di gare non si parla.

Senza gare e finanziato da banche amiche (ora si capisce perché il governo ha applaudito alla nascita di Intesa-San Paolo) il fondo crescerà: dopo Terna, acquisterà la partecipazione dell’Eni in Snam Rete Gas, poi la rete fissa di Telecom Italia, secondo il principio che le reti devono essere separate dai gestori dei servizi. Questo è giusto. Ma non c’è ragione che siano anche pubbliche. E così, grazie alla tenacia di Prodi, il piano di settembre del suo (ex) consigliere Rovati — che prevedeva appunto la nazionalizzazione della rete fissa di Telecom — arriverà in porto.
Vent’anni fa Prodi, allora presidente dell’Iri, cercò di togliere ai privati il controllo di Mediobanca. Non ci riuscì. La nuova Mediobanca nasce oggi, sotto l’ala protettiva di Palazzo Chigi e degli azionisti bresciani di Intesa-San Paolo. Non mi sorprenderei se il prossimo passo fosse la nomina all’Antitrust e all’Autorità per l’energia di qualche commissario perbene, che tuttavia nutre dubbi sulle proprietà taumaturgiche del mercato. Autorità amiche non obietteranno a canoni un po’ più alti per l’accesso alle reti possedute dal nuovo fondo. Le risorse del fondo cresceranno e così i suoi orizzonti, per arrivare ad altre mete più ambiziose. Può darsi che tutto ciò sia nell’interesse del Paese ma è legittimo chiedere che un passo tanto importante sia preceduto da una grande e libera discussione.

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di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2007

Chi dice che privato è meglio?
di Salvatore Bragantini – Il Corriere della Sera, 06 febbraio 2007

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la risposta di Vito Gambarale, 27 gennaio 2007