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→  febbraio 29, 2024

Introduzione del Prof. Georg Staffelbach.

Ė il titolo di un tema posto agli studenti di seconda ginnasio di una scuola cantonale della Svizzera interna. È incredibile ciò che sono riusciti a comporre in 40 minuti, a dimostrazione di quanto i giovani siano familiari con gli avvenimenti del mondo.
Un giovane emigrante italiano, per giunta due anni più giovane degli altri, dunque di appena 13 anni, ha scritto un tema di cinque pagine per di più in un tedesco scorrevole. Eppure ha imparato la lingua solo qui in Svizzera. Naturalmente che non possa essere totalmente neutrale glielo possiamo perdonare: non lede la nostra neutralità se qui riportiamo il suo svolgimento.


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→  ottobre 8, 2022


di Pietro Ichino

Le idiosincrasie di chi vede il Jobs Act come fumo negli occhi, ma dice di ripartire dai più poveri

Dopo le elezioni del 25 settembre molti, a sinistra, sostengono che il Pd dovrebbe tornare a “occuparsi dei poveri”. Vi è qualche ragione per ritenere che chi lo afferma non abbia le idee chiare su che cosa questo significhi in concreto; perché, da sinistra, ciò che occorre fare veramente per consentire ai poveri di uscire dalla loro condizione viene per lo più bollato come “di destra” e dunque rifiutato. “Occuparsi dei poveri”, se lo si vuol fare bene, significa principalmente far funzionare i cosiddetti ascensori sociali, cioè gli strumenti che consentono alle persone meno dotate di “salire”, di migliorare la propria condizione socio-economica. Il primo e più efficace ascensore sociale è la scuola. Potenziare la scuola significa, certo, investire di più su edilizia e attrezzature scolastiche; ma significa soprattutto investire sul miglioramento della qualità dell’insegnamento, cioè sulla capacità e sull’impegno degli insegnanti.

Questo implica non solo una formazione migliore di questi ultimi, ma anche inviarli a insegnare dove occorre e non dove fa comodo a loro. Implica far sì che la struttura scolastica sia capace di valutarne la prestazione per poter retribuire meglio i più bravi e allontanare dalle cattedre quelli che non conoscono la materia affidata loro, o non sanno insegnarla, o più semplicemente non hanno voglia di farlo. E per valutare gli insegnanti occorre anche rilevare capillarmente l’opinione espressa su di loro dalle famiglie e dagli studenti. In altre parole, potenziare la scuola significa mettere al centro il diritto degli studenti, in particolare dei meno dotati, di quelli che non hanno alle spalle una famiglia colta. Se finora nella scuola pubblica italiana tutto questo non si è fatto, è perché porta inevitabilmente a qualche attrito con i sindacati degli insegnanti.

Oggi, dunque, se un professore insegna male o non insegna del tutto, nella quasi totalità dei casi non accade nulla: così un’intera classe viene privata per uno o più anni dell’insegnamento di materie essenziali, come l’italiano o la matematica. E questo, si osservi, accade in modo diffusissimo: quasi ogni classe ha almeno un professore – se non due o addirittura tre – che per incapacità o negligenza non svolge in modo appropriato il proprio servizio.

Occuparsi dei più poveri significa attivare una sistematica e rigorosa valutazione della qualità dell’insegnamento impartito dagli istituti scolastici pubblici; ma anche consentire loro di scegliere gli insegnanti e attirare i migliori premiandoli. Questo si deve fare se si vuole davvero stare dalla parte dei più poveri. Ma a questo la sinistra-sinistra si è sempre fortemente opposta. Un altro ascensore sociale importantissimo è costituito dai servizi al mercato del lavoro. Occuparsi dei poveri significa adoperarsi per risolvere un problema gravissimo: quel 40 per cento di posti di lavoro qualificato o specializzato – in Italia sono centinaia di migliaia! – che le imprese hanno necessità di coprire ma non riescono a farlo per mancanza delle persone idonee.

E’ la conseguenza di un sistema della formazione professionale del quale nessuno controlla e misura in modo sistematico l’efficacia. Per farlo il sistema c’è (è previsto dal Jobs Act: artt. 13-16 del d.lgs. n. 150/2015): istituire un’anagrafe della formazione professionale e incrociarne i dati con quelli delle Comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro sulle assunzioni, degli albi professionali, delle liste di disoccupazione. Sarebbe così possibile conoscere di ogni corso il tasso di coerenza tra la formazione impartita e gli esiti occupazionali effettivi, che è l’indice migliore della qualità del servizio. Ma questa previsione legislativa è stata totalmente disattesa per un’intera legislatura: non solo perché per la sinistra-sinistra il Jobs Act è come il fumo negli occhi, ma anche, più specificamente, perché una mappatura rigorosa dell’efficacia della formazione porterebbe a chiudere una buona metà dei centri che oggi vengono finanziati col denaro pubblico; e alla sinistra-sinistra sta più a cuore la stabilità degli addetti a questi corsi che l’interesse della generalità delle persone che vivono del proprio lavoro, o che aspirerebbero a farlo.

Per concludere, il Pd farà benissimo a occuparsi con maggiore impegno dei poveri. Ma per farlo dovrà liberarsi di questi veri e propri tabù di una sinistra che al primo posto mette l’interesse degli addetti ai servizi, non quello di chi ne ha vitale bisogno. E che forse, a ben vedere, sinistra nel senso proprio del termine non è affatto.

→  settembre 15, 2022


Citizens, not corporate chiefs, should tackle social issues, says the entrepreneur and author

When i first started writing about the rise of “stakeholder capitalism” in corporate America—and its close cousin, the esg (environmental, social and governance) movement in capital markets—I had to explain what these terms meant because they were new concepts to most audiences. Today I must explain what they mean for a different reason: the terms themselves are now widely familiar, but their definitions have been diluted by their greatest champions. That fact alone underscores the biggest problem of all with these movements.

Stakeholder capitalism refers—or at least used to refer—to the idea that companies should serve not just their shareholders, but also other societal interests. This notion stands in sharp contrast to shareholder capitalism, which calls for corporate executives to maximise shareholder return above all else. Proponents of this view, including the American economist Milton Friedman, worried that a shift away from shareholder primacy would make companies both less efficient and less profitable, leaving society as a whole worse off.

Thoughtful proponents of stakeholder capitalism argue that Friedman missed an important point: corporations do not exist in the state of nature, but exist only because society permits them to do so. Society endowed shareholders of corporations an extraordinary gift that ordinary persons do not enjoy: limited liability. This refers to the legal barrier that prevents anyone wronged by a corporation from holding an owner of that corporation personally liable. The Economist has called limited liability “one of man’s greatest inventions”. Many economic historians believe it helped power the Industrial Revolution. They’re probably right.

This is the strongest case for stakeholder capitalism. In return for this extraordinary gift, corporate shareholders owed an implicit obligation back to society: namely, that corporations ought to consider not only shareholder interests but broader societal interests when making decisions. This is what the world’s most influential proponent of stakeholder capitalism, BlackRock’s chief executive Larry Fink, meant when he proclaimed that “companies need to earn their social license to operate every day.”

This is a respectable view. Nonetheless I believe it falls short for legal and historical reasons that I lay out in “Woke, Inc”, my book published last year. In it I argued that the reason corporate law codifies shareholder primacy is not simply to protect shareholders, but to protect democracy. The creation of the limited-liability corporation was a potent tool to not simply unlock economic gains through the private sector, but also stop potentially limitless corporate power that could infect other spheres of society beyond the marketplace for goods and services. By limiting the focus of corporate boards to shareholders’ financial interests alone, corporate law intended to confine the sphere of influence of corporations as a means of protecting democracy and other civic institutions from corporate overreach—just as society confers certain legal advantages to non-profit corporations in return for confining their activities to the sphere of charitable causes. Or at least, so I argued.

Reasonable minds can differ on this question, and this debate will take further book-length works to fully adjudicate. But as I awaited a rebuttal to my argument, something curious happened: the world’s greatest proponents of stakeholder capitalism responded with the surprising claim that actually stakeholder capitalism is indeed the same thing as plain old capitalism. In his letter from 2022 to America’s ceos, Mr Fink asserted that “stakeholder capitalism…is not a social or ideological agenda. It is not ‘woke.’ It is capitalism.” (The emphasis is his). This has since become a popular refrain to defang Republican criticism of the esg movement in particular.

But if “stakeholder capitalism is capitalism,” then why was it necessary to popularise the term in the first place? For the greater economic and political advantage enjoyed as a result by the people who get to coin the terms. esg funds often charge many times more for investment funds that are nearly indistinguishable from those without the esg title. Numerous alumni of BlackRock and other esg-promoting financial institutions occupy senior roles in the administration of an American president who has himself voiced support for stakeholder capitalism. And our society’s approach to addressing important social questions such as climate change and racial inequity are more heavily influenced by the dictates of corporate chiefs in Davos than they are by the voices of everyday citizens in the public square.

This raises my greatest concern of all with stakeholder capitalism, no matter how it’s defined: its proponents are eager to strengthen the link between democracy and capitalism at a time when we should instead assiduously disentangle one from the other. Stakeholder capitalism is part of a broader worldview that holds that corporate leaders should play a fundamental role in determining and implementing a society’s core values.

No citizen in a democratic society should want executives from $10trn financial institutions to play a larger role than they already do in defining and implementing social values. Part of what it means to live in a democracy is for those questions to be determined by the citizenry—publicly through debate and privately at the ballot box—where each person’s view is unadjusted according to the number of dollars that he controls in the marketplace.

The everyday citizen in Western democracies ranging from America to Britain now correctly senses that something is amiss. His voice counts for less when corporate elites use market power to settle political questions. The apostles of stakeholder capitalism convene in ski towns to decry the rise of populism without recognising that populism is itself an inevitable byproduct of their creed.

Therein lies a great irony: a movement whose core justification was the need for capitalists to internalise the negative externalities of their actions has now created a new negative externality. It’s arguably the most damaging of them all: rampant and increasingly irresolvable cultural discord in democracies around the world.

The social fabric of a diverse democracy depends on preserving certain spaces as apolitical sanctuaries, especially in a divided body politic like ours. Our system of unbridled profit-focused capitalism used to serve as perhaps the most important of those sanctuaries, but no longer. Stakeholder capitalism poisons democracy and partisan politics poisons capitalism. This is the great negative externality of stakeholder capitalism, and one that it ought to internalise by returning political power from its nebulous “stakeholders” back to citizens of nations.

→  giugno 22, 2022


George F. Will

Semantic infiltration is the tactic by which political objectives are smuggled into discourse that is ostensibly, but not actually, politically neutral. People who adopt a political faction’s vocabulary also adopt — perhaps inadvertently, but inevitably — the faction’s agenda. So, everyone who values economic dynamism, and the freedom that enables this, should recoil from the toxic noun “stakeholder.”

The Oxford Reference definition is “all those with interests in an organization,” including “shareholders, employees, suppliers, customers, or members of the wider community (who could be affected by environmental consequences of an organization’s activities).” Which means: everyone. “All” in the “wider community” who claim an “interest.” Anyone can make such claims; no one can refute them.

A former governor of the Bank of England (Mark Carney), the head of the world’s largest investment firm (Larry Fink of BlackRock) and the CEO of the largest U.S. bank (Jamie Dimon of JPMorgan Chase) have joined forces to make capitalism “sustainable” through “ESG” (environmental, social and governance) investing. Although fashionable, this is of dubious legality. (See below: fiduciary duty.) The Economist’s “Schumpeter” columnist notes that sanctimony accompanies such “financial do-goodery.” Of course: ESG appeals to people for whom mere business — the creation of wealth and opportunity — lacks the cachet of politics.

Although progressivism presents itself as modernity on the march, its stakeholder doctrine echoes feudalism. Phil Gramm, a former U.S. senator, and Mike Solon, president at US Policy Strategies, writing in the Wall Street Journal, note that in feudalism’s “communal world,” workers had obligations to the church, the local aristocracy, the guild and the village: These “stakeholders” leeched away portions of what workers produced.

Today, Gramm and Solon say, about 70 percent of corporate revenue goes to labor, and 72 percent of the value of publicly traded U.S. companies is “owned by pensions, 401(k)s, individual retirement accounts, charitable organizations, and insurance companies funding life insurance policies and annuities.” So, the wealth of workers, and of current and future retirees, is diminished when “stakeholders” get corporations to sacrifice the goal of maximizing economic value to noneconomic, generally political goals.

Stakeholder capitalism violates fiduciary laws that require those entrusted with investors’ money to employ it “solely in the interest of” and “for the exclusive purpose of providing benefits to” the investors. (Emphasis added.) Sen. Marco Rubio’s proposed Mind Your Own Business Act would enhance shareholders’ power to sue corporate management for breach of fiduciary duty when corporations take actions “on a primarily non-pecuniary” (usually political) basis, or use primarily non-pecuniary public reasoning to justify corporate actions.

Although progressives are especially disposed to break all private entities to the saddle of politics, factions of all persuasions can infuse politics into this and that: A Texas law, itself a political gesture, requires banks that underwrite the state’s municipal bond market to certify that their political gestures do not include forbidding transactions with the firearms or ammunition manufacturers and retailers. One affected bank: Dimon’s JPMorgan Chase.

The New York Times recently interviewed two advocates of ESG investing. One said, in effect, that only such investing fulfills fiduciary obligations because the welfare of those whose money is being used depends on “a planet that is livable.” Meaning: Politically enlightened ESG advocates know what unenlightened investors would want if they were as intelligent and virtuous as the advocates.

The other ESG enthusiast the Times interviewed said “social justice investing” is “the deep integration of four areas: racial, gender, economic and climate justice.” And the “single-issue CEO” — the kind focused on maximizing shareholders’ value — is “not the way of the future.” This is often the progressives’ argument-ending declaration: Non-progressives are on the wrong side of history, so they can be disregarded until history discards them.

The Times’s interviewer observed that “defining justice seems messy these days.” These days? Actually, justice has been a contested concept since Plato wrote. For today’s ESG advocates, however, the millennia-long debate is suddenly over: Justice is 2022 American progressivism, period.

In a dynamic society, resources are efficiently disposed by corporate managements whose primary duty, which other corporate activities do not compromise, is to maximize shareholder value by profitably supplying the demand for goods and services. Furthermore, in a congenial society, boundaries are respected: Most people say about most things, “This is none of my business.”

Self-proclaimed stakeholders, parasitic off others’ labor and accumulation, assert that everything is their business. Actually, although everyone has a right to advocate progressivism, no one has a right to insist on a stake in deploying others’ property for the stakeholders’ political ends.

→  settembre 29, 2021


a cura di Lorenzo Benassi Roversi

Oggi la mano pubblica interviene con forza. Cosa si dice dalla prospettiva liberale?
Franco Debenedetti: L’intervento dello Stato in risposta alle calamità è dovuto: è suo dovere proteggere i cittadini. Il Covid ha reso necessaria la riduzione di libertà che potranno essere riacquisite solo vaccinando la popolazione.

Fin qui, tutti d’accordo, o quasi… ma non la spaventa che gli apparati pubblici assumano un ruolo così importante nell’economia?
Franco Debenedetti: Da una parte, vedo i pericoli dell’assistenzialismo. Dall’altra, connessa ai fondi del PNRR, c’è una grandissima opportunità di ripartenza.

Anche Lei si affida alla spesa pubblica. Sta diventando keynesiano?
Franco Debenedetti: (ride) Mi spiego. I fondi del Next Generation EU sono condizionati all’avvio di riforme di cui abbiamo bisogno per risolvere problemi che ci trasciniamo da decenni. Se questa opportunità non fosse colta sarebbe una tragedia – per tutti non solo per i liberali –. La “pacchia” della BCE che acquista il nostro debito a tassi di interesse così bassi non continuerà per sempre. I fondi europei sono un’opportunità perché possono costringerci a cambiare le regole in senso liberale. Il vincolo estero, come già in passato, può giocare a nostro favore.

Il riferimento è alla legge sulla concorrenza?
Franco Debenedetti: Anche. Ci sarebbe molto da fare. Sa in quanti settori il nostro ordinamento nega la concorrenza? Eppure, dove la concorrenza è arrivata – dalla telefonia all’Alta Velocità – l’efficienza è cresciuta e i prezzi sono calati.

A quali altre riforme pensa?
Franco Debenedetti: Dobbiamo chiederci: perché l’Italia ha una produttività più bassa degli altri Paesi? Prima del Covid-19 crescevamo meno degli altri, in ragione di problemi strutturali. I principali sono giustizia, fisco e pubblica amministrazione. La prima riforma è partita, c’è un testo, ma ci sarà da vincere la resistenza delle consorterie nella magistratura. La seconda è ancora da impostare, si intende partire dal catasto, ma il bilanciamento degli interessi sarà tremendamente difficile. Quanto alla pubblica amministrazione, mi preoccupa in particolare un suo sottoinsieme: la scuola.

Cosa la preoccupa?
Franco Debenedetti: Che non si cambi davvero. I criteri con cui si assume favoriscono chi è già dentro al sistema, a prescindere dal merito: invece bisogna assumere discriminando. Vanno insegnati i valori dell’individuo, per cui uno non vale uno. C’è bisogno di introdurre il principio della concorrenza: dalla valutazione dell’attività degli insegnanti devono dipendere vantaggi e svantaggi, economici o di carriera. Se non passa il principio del merito a cosa educhiamo? La nostra scuola però non vuole valutare e non vuole essere valutata, non vuol sentir parlare di premiare merito ed efficienza. Bisogna vincere le resistenze. È in gioco il futuro, dei nostri ragazzi e del nostro Paese.

Restiamo al presente. Da liberale, non le causa perplessità il fatto che l’economia sembra dipendere sempre più dai poteri pubblici che non dal libero gioco del mercato? Sono stati creati Ministeri appositi per spingere l’economia in direzioni ben specifiche, penso al Ministero della Transizione Ecologica, a quello della Transizione Digitale. Il Green Deal di Ursula von der Leyen già nel nome echeggia il New Deal di Roosevelt. A voi liberali non dovrebbe venire qualche timore?
Franco Debenedetti: Risorse economiche in grande quantità saranno prese a prestito dall’Europa e lo Stato si occuperà di collocarle. I rischi ci sono e sono i soliti: che i soldi siano spesi male e poi vadano restituiti a prezzo di sacrifici. Ma guardi, se pensa che l’economia vada in certe direzioni su spinta pubblica si sbaglia. Non è così. I mercati si sono già da tempo orientati verso transizione tecnologica e sostenibilità ambientale, così anche le imprese e gli investitori. D’altronde, il campione delle turbine eoliche è un’azienda privata, la Siemens, le tecnologie della transizione ecologica sono sviluppate da privati. Oggi si parla di mobilità sostenibile, ma non è lo Stato che ha inventato le macchine elettriche. Si tratta di agevolare questi processi di transizione. Lo si può fare bene o male, in modo liberale ed efficiente o in modo illiberale e inefficiente.

Qual è la discriminante?
Franco Debenedetti: Se lo Stato interpreta bene il suo ruolo di regolatore. Abbiamo la fortuna di avere al Governo Mario Draghi, che credo abbia ben presente questo rischio.

Sul fronte ambientale, sono in molti a dire che l’intervento pubblico è reso necessario da un fallimento del mercato, che lasciato a sé stesso non è stato in grado di tutelare l’ambiente da un capitalismo distruttivo.
Franco Debenedetti: Non è così. Si confonde il ruolo del mercato con quello dello Stato. Per molto tempo c’è stata un’assenza di normazione: è lo Stato che deve fare le regole. Il mercato permette ai privati di esercitare la massima libertà entro quelle regole, che lo Stato fa rispettare con controlli e sanzioni. Gli Accordi di Parigi, ad esempio, non sono in contrasto con i principi liberali. Il punto è che lo Stato non si metta a fare l’imprenditore. Pensi a Enel: lo Stato è azionista di maggioranza, ma sta al suo posto, non interviene in modo distorsivo della concorrenza. Enel funziona come le altre aziende e funziona bene: è quotata in borsa, si espande all’estero.

Si sente dire che i fondi del Recovery Fund permetteranno allo Stato di interpretare il ruolo di “innovatore”, per citare Mariana Mazzucato, con cui lei ha qualche conto aperto. Cosa c’è che non le va a genio in questo modello?
Franco Debenedetti: Lo Stato non può fare l’imprenditore e l’innovatore perché fa già il regolatore. Se entra nel gioco economico limita la concorrenza. Lo Stato decide regole e deroghe, può avere liquidità illimitata attraverso il prelievo fiscale. Chi può competere a queste condizioni? No, guardi, se lo Stato adotta questa logica non c’è speranza.

Si fa notare che la Silicon Valley non esisterebbe senza investimenti pubblici.
Franco Debenedetti: La Silicon Valley è un sistema altamente concorrenziale. Nessuno sa come si produce l’innovazione, non ci sono meccanismi esatti. Si sa però che esistono condizioni che favoriscono l’innovazione. La prima di queste è la concorrenza. Se lo Stato vuole favorire l’innovazione, si occupi di garantire mercati concorrenziali. Inoltre, per innovare è necessario saper trarre profitto dagli errori. Lo Stato tende a non farlo perché costa in termini di consenso, mentre le conseguenze economiche si pagano solo a distanza di generazioni. Ne viene che lo Stato non sbaglia mai e quando sbaglia tende a nascondere i propri errori, ricoprendoli di denaro pubblico. Alitalia è un buon esempio, no?

Torniamo all’ambiente. Si teme che le politiche sostenibilità determini il rimpicciolirsi di alcune filiere, quelle legate alla plastica o alla chimica, per esempio. Tra i più preoccupati ci sono alcune categorie sindacali. Che dire a riguardo?
Franco Debenedetti: È una forma di luddismo. Non si vuole capire che non è la politica, ma è il mercato ad andare in questa direzione, ad avvantaggiare filiere sostenibili. Oggi è così. Sono stato presidente di una società con sede a Bologna, che produceva macchine per la lavorazione del tabacco. Quando abbiamo capito che il consumo di sigarette diminuiva ci siamo orientati altrove, verso le macchine per l’imballaggio. Abbiamo trovato un’altra strada. Non si può contrastare il nuovo per difendere ciò che non funziona più. È un metodo che sottrae efficienza al mercato.

Ci saranno costi sociali da sopportare se certe filiere andranno a ridursi. Al liberismo si rimprovera un certo cinismo, il disinteresse verso le ripercussioni sociali.
Franco Debenedetti: Dalla rivoluzione industriale a oggi il libero mercato è stato fonte di ricchezza e benessere. Ci sono Paesi dove le libertà economiche non sono mai arrivate, sono Paesi in cui non vorremmo vivere. Per crescere, si cambia. Se la mobilità elettrica è il futuro ma il motore elettrico si compone di meno pezzi del motore a scoppio qualcuno rimarrà senza lavoro, dovrà imparare a fare altre cose. Così come il capitale fisico delle aziende deve rinnovarsi, il capitale umano deve riqualificarsi. È la storia che ce lo dice, dai tempi della spoletta meccanica che rivoluzionò l’industria tessile inglese. Il luddismo nasce quando qualcuno rifiuta di adattarsi.

Tante imprese oggi sostengono di avere superato la logica del mero profitto e di adottare modelli di business orientati alla responsabilità sociale. C’è un rifiuto del ruolo affidato alle imprese dal liberismo classico che viene da dentro al sistema imprenditoriale?
Franco Debenedetti: Quella della responsabilità sociale è un’operazione di pubbliche relazioni. Le imprese tengono a mostrarsi responsabili perché esserlo permette di massimizzare i profitti. Prendiamo la Business Roundtable: 181 tra i più importanti imprenditori degli Stati Uniti promisero di gestire le proprie aziende avendo di mira lo stakeholder value, non lo shareholder value. Uno studio riportato dal Financial Times mostra che non è cambiato alcunché da quella dichiarazione ad oggi.

Tutta ipocrisia?
Franco Debenedetti: Non hanno cambiato perché non era necessario cambiare. Lo spiego nel libro Fare Profitti. Etica dell’impresa, che tratta proprio questo tema. Non serve sovrapporre altre logiche e altre finalità alle società di capitale che operano su un mercato competitivo. Per trattenere gli operai e garantire la produzione, Henry Ford si accorse che era nel suo interesse fare qualcosa: aumentò le paghe e ridusse l’orario di lavoro. Ovviamente, la logica era quella della massimizzazione del profitto. Le imprese continueranno a fare ciò che conviene ai loro azionisti e a rispondere a ciò che chiede il mercato. E ciò è un bene perché da duecento anni è così che si crea la ricchezza.

Da più parti si ritiene necessario dare al mercato una direzione più “morale”, per così dire. Inaccettabile?
Franco Debenedetti: Il mercato di per sé non è né morale, né immorale. Oggi però il bene della reputazione ha un grande valore per le imprese. Nike stava per fallire quando si scoprì che nella filiera di produzione che faceva capo all’azienda si verificava lo sfruttamento del lavoro dei minori. Inizialmente, Nike ha negato la propria responsabilità sulla condotta delle altre aziende della filiera. Poi ha dovuto cambiare direzione e impegnarsi in una campagna che garantisse una filiera più equa. A richiederlo sono stati i consumatori, ossia il mercato.

→  maggio 14, 2021


Un viaggio al cuore dell’impresa, per definirne la natura, i soggetti, i diritti e gli interessi al tempo delle aziende Big Tech e della pandemia. Lo propone Franco Debenedetti, ingegnere, manager e Presidente Istituto Bruno Leoni nel suo ultimo libro “Fare profitti” edito da Marsilio. Lo ha intervistato Alessandro Barbano in questa puntata di War Room Books.