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→  ottobre 8, 2022


di Pietro Ichino

Le idiosincrasie di chi vede il Jobs Act come fumo negli occhi, ma dice di ripartire dai più poveri

Dopo le elezioni del 25 settembre molti, a sinistra, sostengono che il Pd dovrebbe tornare a “occuparsi dei poveri”. Vi è qualche ragione per ritenere che chi lo afferma non abbia le idee chiare su che cosa questo significhi in concreto; perché, da sinistra, ciò che occorre fare veramente per consentire ai poveri di uscire dalla loro condizione viene per lo più bollato come “di destra” e dunque rifiutato. “Occuparsi dei poveri”, se lo si vuol fare bene, significa principalmente far funzionare i cosiddetti ascensori sociali, cioè gli strumenti che consentono alle persone meno dotate di “salire”, di migliorare la propria condizione socio-economica. Il primo e più efficace ascensore sociale è la scuola. Potenziare la scuola significa, certo, investire di più su edilizia e attrezzature scolastiche; ma significa soprattutto investire sul miglioramento della qualità dell’insegnamento, cioè sulla capacità e sull’impegno degli insegnanti.

Questo implica non solo una formazione migliore di questi ultimi, ma anche inviarli a insegnare dove occorre e non dove fa comodo a loro. Implica far sì che la struttura scolastica sia capace di valutarne la prestazione per poter retribuire meglio i più bravi e allontanare dalle cattedre quelli che non conoscono la materia affidata loro, o non sanno insegnarla, o più semplicemente non hanno voglia di farlo. E per valutare gli insegnanti occorre anche rilevare capillarmente l’opinione espressa su di loro dalle famiglie e dagli studenti. In altre parole, potenziare la scuola significa mettere al centro il diritto degli studenti, in particolare dei meno dotati, di quelli che non hanno alle spalle una famiglia colta. Se finora nella scuola pubblica italiana tutto questo non si è fatto, è perché porta inevitabilmente a qualche attrito con i sindacati degli insegnanti.

Oggi, dunque, se un professore insegna male o non insegna del tutto, nella quasi totalità dei casi non accade nulla: così un’intera classe viene privata per uno o più anni dell’insegnamento di materie essenziali, come l’italiano o la matematica. E questo, si osservi, accade in modo diffusissimo: quasi ogni classe ha almeno un professore – se non due o addirittura tre – che per incapacità o negligenza non svolge in modo appropriato il proprio servizio.

Occuparsi dei più poveri significa attivare una sistematica e rigorosa valutazione della qualità dell’insegnamento impartito dagli istituti scolastici pubblici; ma anche consentire loro di scegliere gli insegnanti e attirare i migliori premiandoli. Questo si deve fare se si vuole davvero stare dalla parte dei più poveri. Ma a questo la sinistra-sinistra si è sempre fortemente opposta. Un altro ascensore sociale importantissimo è costituito dai servizi al mercato del lavoro. Occuparsi dei poveri significa adoperarsi per risolvere un problema gravissimo: quel 40 per cento di posti di lavoro qualificato o specializzato – in Italia sono centinaia di migliaia! – che le imprese hanno necessità di coprire ma non riescono a farlo per mancanza delle persone idonee.

E’ la conseguenza di un sistema della formazione professionale del quale nessuno controlla e misura in modo sistematico l’efficacia. Per farlo il sistema c’è (è previsto dal Jobs Act: artt. 13-16 del d.lgs. n. 150/2015): istituire un’anagrafe della formazione professionale e incrociarne i dati con quelli delle Comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro sulle assunzioni, degli albi professionali, delle liste di disoccupazione. Sarebbe così possibile conoscere di ogni corso il tasso di coerenza tra la formazione impartita e gli esiti occupazionali effettivi, che è l’indice migliore della qualità del servizio. Ma questa previsione legislativa è stata totalmente disattesa per un’intera legislatura: non solo perché per la sinistra-sinistra il Jobs Act è come il fumo negli occhi, ma anche, più specificamente, perché una mappatura rigorosa dell’efficacia della formazione porterebbe a chiudere una buona metà dei centri che oggi vengono finanziati col denaro pubblico; e alla sinistra-sinistra sta più a cuore la stabilità degli addetti a questi corsi che l’interesse della generalità delle persone che vivono del proprio lavoro, o che aspirerebbero a farlo.

Per concludere, il Pd farà benissimo a occuparsi con maggiore impegno dei poveri. Ma per farlo dovrà liberarsi di questi veri e propri tabù di una sinistra che al primo posto mette l’interesse degli addetti ai servizi, non quello di chi ne ha vitale bisogno. E che forse, a ben vedere, sinistra nel senso proprio del termine non è affatto.

→  settembre 15, 2022


Citizens, not corporate chiefs, should tackle social issues, says the entrepreneur and author

When i first started writing about the rise of “stakeholder capitalism” in corporate America—and its close cousin, the esg (environmental, social and governance) movement in capital markets—I had to explain what these terms meant because they were new concepts to most audiences. Today I must explain what they mean for a different reason: the terms themselves are now widely familiar, but their definitions have been diluted by their greatest champions. That fact alone underscores the biggest problem of all with these movements.

Stakeholder capitalism refers—or at least used to refer—to the idea that companies should serve not just their shareholders, but also other societal interests. This notion stands in sharp contrast to shareholder capitalism, which calls for corporate executives to maximise shareholder return above all else. Proponents of this view, including the American economist Milton Friedman, worried that a shift away from shareholder primacy would make companies both less efficient and less profitable, leaving society as a whole worse off.

Thoughtful proponents of stakeholder capitalism argue that Friedman missed an important point: corporations do not exist in the state of nature, but exist only because society permits them to do so. Society endowed shareholders of corporations an extraordinary gift that ordinary persons do not enjoy: limited liability. This refers to the legal barrier that prevents anyone wronged by a corporation from holding an owner of that corporation personally liable. The Economist has called limited liability “one of man’s greatest inventions”. Many economic historians believe it helped power the Industrial Revolution. They’re probably right.

This is the strongest case for stakeholder capitalism. In return for this extraordinary gift, corporate shareholders owed an implicit obligation back to society: namely, that corporations ought to consider not only shareholder interests but broader societal interests when making decisions. This is what the world’s most influential proponent of stakeholder capitalism, BlackRock’s chief executive Larry Fink, meant when he proclaimed that “companies need to earn their social license to operate every day.”

This is a respectable view. Nonetheless I believe it falls short for legal and historical reasons that I lay out in “Woke, Inc”, my book published last year. In it I argued that the reason corporate law codifies shareholder primacy is not simply to protect shareholders, but to protect democracy. The creation of the limited-liability corporation was a potent tool to not simply unlock economic gains through the private sector, but also stop potentially limitless corporate power that could infect other spheres of society beyond the marketplace for goods and services. By limiting the focus of corporate boards to shareholders’ financial interests alone, corporate law intended to confine the sphere of influence of corporations as a means of protecting democracy and other civic institutions from corporate overreach—just as society confers certain legal advantages to non-profit corporations in return for confining their activities to the sphere of charitable causes. Or at least, so I argued.

Reasonable minds can differ on this question, and this debate will take further book-length works to fully adjudicate. But as I awaited a rebuttal to my argument, something curious happened: the world’s greatest proponents of stakeholder capitalism responded with the surprising claim that actually stakeholder capitalism is indeed the same thing as plain old capitalism. In his letter from 2022 to America’s ceos, Mr Fink asserted that “stakeholder capitalism…is not a social or ideological agenda. It is not ‘woke.’ It is capitalism.” (The emphasis is his). This has since become a popular refrain to defang Republican criticism of the esg movement in particular.

But if “stakeholder capitalism is capitalism,” then why was it necessary to popularise the term in the first place? For the greater economic and political advantage enjoyed as a result by the people who get to coin the terms. esg funds often charge many times more for investment funds that are nearly indistinguishable from those without the esg title. Numerous alumni of BlackRock and other esg-promoting financial institutions occupy senior roles in the administration of an American president who has himself voiced support for stakeholder capitalism. And our society’s approach to addressing important social questions such as climate change and racial inequity are more heavily influenced by the dictates of corporate chiefs in Davos than they are by the voices of everyday citizens in the public square.

This raises my greatest concern of all with stakeholder capitalism, no matter how it’s defined: its proponents are eager to strengthen the link between democracy and capitalism at a time when we should instead assiduously disentangle one from the other. Stakeholder capitalism is part of a broader worldview that holds that corporate leaders should play a fundamental role in determining and implementing a society’s core values.

No citizen in a democratic society should want executives from $10trn financial institutions to play a larger role than they already do in defining and implementing social values. Part of what it means to live in a democracy is for those questions to be determined by the citizenry—publicly through debate and privately at the ballot box—where each person’s view is unadjusted according to the number of dollars that he controls in the marketplace.

The everyday citizen in Western democracies ranging from America to Britain now correctly senses that something is amiss. His voice counts for less when corporate elites use market power to settle political questions. The apostles of stakeholder capitalism convene in ski towns to decry the rise of populism without recognising that populism is itself an inevitable byproduct of their creed.

Therein lies a great irony: a movement whose core justification was the need for capitalists to internalise the negative externalities of their actions has now created a new negative externality. It’s arguably the most damaging of them all: rampant and increasingly irresolvable cultural discord in democracies around the world.

The social fabric of a diverse democracy depends on preserving certain spaces as apolitical sanctuaries, especially in a divided body politic like ours. Our system of unbridled profit-focused capitalism used to serve as perhaps the most important of those sanctuaries, but no longer. Stakeholder capitalism poisons democracy and partisan politics poisons capitalism. This is the great negative externality of stakeholder capitalism, and one that it ought to internalise by returning political power from its nebulous “stakeholders” back to citizens of nations.

→  giugno 22, 2022


George F. Will

Semantic infiltration is the tactic by which political objectives are smuggled into discourse that is ostensibly, but not actually, politically neutral. People who adopt a political faction’s vocabulary also adopt — perhaps inadvertently, but inevitably — the faction’s agenda. So, everyone who values economic dynamism, and the freedom that enables this, should recoil from the toxic noun “stakeholder.”

The Oxford Reference definition is “all those with interests in an organization,” including “shareholders, employees, suppliers, customers, or members of the wider community (who could be affected by environmental consequences of an organization’s activities).” Which means: everyone. “All” in the “wider community” who claim an “interest.” Anyone can make such claims; no one can refute them.

A former governor of the Bank of England (Mark Carney), the head of the world’s largest investment firm (Larry Fink of BlackRock) and the CEO of the largest U.S. bank (Jamie Dimon of JPMorgan Chase) have joined forces to make capitalism “sustainable” through “ESG” (environmental, social and governance) investing. Although fashionable, this is of dubious legality. (See below: fiduciary duty.) The Economist’s “Schumpeter” columnist notes that sanctimony accompanies such “financial do-goodery.” Of course: ESG appeals to people for whom mere business — the creation of wealth and opportunity — lacks the cachet of politics.

Although progressivism presents itself as modernity on the march, its stakeholder doctrine echoes feudalism. Phil Gramm, a former U.S. senator, and Mike Solon, president at US Policy Strategies, writing in the Wall Street Journal, note that in feudalism’s “communal world,” workers had obligations to the church, the local aristocracy, the guild and the village: These “stakeholders” leeched away portions of what workers produced.

Today, Gramm and Solon say, about 70 percent of corporate revenue goes to labor, and 72 percent of the value of publicly traded U.S. companies is “owned by pensions, 401(k)s, individual retirement accounts, charitable organizations, and insurance companies funding life insurance policies and annuities.” So, the wealth of workers, and of current and future retirees, is diminished when “stakeholders” get corporations to sacrifice the goal of maximizing economic value to noneconomic, generally political goals.

Stakeholder capitalism violates fiduciary laws that require those entrusted with investors’ money to employ it “solely in the interest of” and “for the exclusive purpose of providing benefits to” the investors. (Emphasis added.) Sen. Marco Rubio’s proposed Mind Your Own Business Act would enhance shareholders’ power to sue corporate management for breach of fiduciary duty when corporations take actions “on a primarily non-pecuniary” (usually political) basis, or use primarily non-pecuniary public reasoning to justify corporate actions.

Although progressives are especially disposed to break all private entities to the saddle of politics, factions of all persuasions can infuse politics into this and that: A Texas law, itself a political gesture, requires banks that underwrite the state’s municipal bond market to certify that their political gestures do not include forbidding transactions with the firearms or ammunition manufacturers and retailers. One affected bank: Dimon’s JPMorgan Chase.

The New York Times recently interviewed two advocates of ESG investing. One said, in effect, that only such investing fulfills fiduciary obligations because the welfare of those whose money is being used depends on “a planet that is livable.” Meaning: Politically enlightened ESG advocates know what unenlightened investors would want if they were as intelligent and virtuous as the advocates.

The other ESG enthusiast the Times interviewed said “social justice investing” is “the deep integration of four areas: racial, gender, economic and climate justice.” And the “single-issue CEO” — the kind focused on maximizing shareholders’ value — is “not the way of the future.” This is often the progressives’ argument-ending declaration: Non-progressives are on the wrong side of history, so they can be disregarded until history discards them.

The Times’s interviewer observed that “defining justice seems messy these days.” These days? Actually, justice has been a contested concept since Plato wrote. For today’s ESG advocates, however, the millennia-long debate is suddenly over: Justice is 2022 American progressivism, period.

In a dynamic society, resources are efficiently disposed by corporate managements whose primary duty, which other corporate activities do not compromise, is to maximize shareholder value by profitably supplying the demand for goods and services. Furthermore, in a congenial society, boundaries are respected: Most people say about most things, “This is none of my business.”

Self-proclaimed stakeholders, parasitic off others’ labor and accumulation, assert that everything is their business. Actually, although everyone has a right to advocate progressivism, no one has a right to insist on a stake in deploying others’ property for the stakeholders’ political ends.

→  settembre 29, 2021


a cura di Lorenzo Benassi Roversi

Oggi la mano pubblica interviene con forza. Cosa si dice dalla prospettiva liberale?
Franco Debenedetti: L’intervento dello Stato in risposta alle calamità è dovuto: è suo dovere proteggere i cittadini. Il Covid ha reso necessaria la riduzione di libertà che potranno essere riacquisite solo vaccinando la popolazione.

Fin qui, tutti d’accordo, o quasi… ma non la spaventa che gli apparati pubblici assumano un ruolo così importante nell’economia?
Franco Debenedetti: Da una parte, vedo i pericoli dell’assistenzialismo. Dall’altra, connessa ai fondi del PNRR, c’è una grandissima opportunità di ripartenza.

Anche Lei si affida alla spesa pubblica. Sta diventando keynesiano?
Franco Debenedetti: (ride) Mi spiego. I fondi del Next Generation EU sono condizionati all’avvio di riforme di cui abbiamo bisogno per risolvere problemi che ci trasciniamo da decenni. Se questa opportunità non fosse colta sarebbe una tragedia – per tutti non solo per i liberali –. La “pacchia” della BCE che acquista il nostro debito a tassi di interesse così bassi non continuerà per sempre. I fondi europei sono un’opportunità perché possono costringerci a cambiare le regole in senso liberale. Il vincolo estero, come già in passato, può giocare a nostro favore.

Il riferimento è alla legge sulla concorrenza?
Franco Debenedetti: Anche. Ci sarebbe molto da fare. Sa in quanti settori il nostro ordinamento nega la concorrenza? Eppure, dove la concorrenza è arrivata – dalla telefonia all’Alta Velocità – l’efficienza è cresciuta e i prezzi sono calati.

A quali altre riforme pensa?
Franco Debenedetti: Dobbiamo chiederci: perché l’Italia ha una produttività più bassa degli altri Paesi? Prima del Covid-19 crescevamo meno degli altri, in ragione di problemi strutturali. I principali sono giustizia, fisco e pubblica amministrazione. La prima riforma è partita, c’è un testo, ma ci sarà da vincere la resistenza delle consorterie nella magistratura. La seconda è ancora da impostare, si intende partire dal catasto, ma il bilanciamento degli interessi sarà tremendamente difficile. Quanto alla pubblica amministrazione, mi preoccupa in particolare un suo sottoinsieme: la scuola.

Cosa la preoccupa?
Franco Debenedetti: Che non si cambi davvero. I criteri con cui si assume favoriscono chi è già dentro al sistema, a prescindere dal merito: invece bisogna assumere discriminando. Vanno insegnati i valori dell’individuo, per cui uno non vale uno. C’è bisogno di introdurre il principio della concorrenza: dalla valutazione dell’attività degli insegnanti devono dipendere vantaggi e svantaggi, economici o di carriera. Se non passa il principio del merito a cosa educhiamo? La nostra scuola però non vuole valutare e non vuole essere valutata, non vuol sentir parlare di premiare merito ed efficienza. Bisogna vincere le resistenze. È in gioco il futuro, dei nostri ragazzi e del nostro Paese.

Restiamo al presente. Da liberale, non le causa perplessità il fatto che l’economia sembra dipendere sempre più dai poteri pubblici che non dal libero gioco del mercato? Sono stati creati Ministeri appositi per spingere l’economia in direzioni ben specifiche, penso al Ministero della Transizione Ecologica, a quello della Transizione Digitale. Il Green Deal di Ursula von der Leyen già nel nome echeggia il New Deal di Roosevelt. A voi liberali non dovrebbe venire qualche timore?
Franco Debenedetti: Risorse economiche in grande quantità saranno prese a prestito dall’Europa e lo Stato si occuperà di collocarle. I rischi ci sono e sono i soliti: che i soldi siano spesi male e poi vadano restituiti a prezzo di sacrifici. Ma guardi, se pensa che l’economia vada in certe direzioni su spinta pubblica si sbaglia. Non è così. I mercati si sono già da tempo orientati verso transizione tecnologica e sostenibilità ambientale, così anche le imprese e gli investitori. D’altronde, il campione delle turbine eoliche è un’azienda privata, la Siemens, le tecnologie della transizione ecologica sono sviluppate da privati. Oggi si parla di mobilità sostenibile, ma non è lo Stato che ha inventato le macchine elettriche. Si tratta di agevolare questi processi di transizione. Lo si può fare bene o male, in modo liberale ed efficiente o in modo illiberale e inefficiente.

Qual è la discriminante?
Franco Debenedetti: Se lo Stato interpreta bene il suo ruolo di regolatore. Abbiamo la fortuna di avere al Governo Mario Draghi, che credo abbia ben presente questo rischio.

Sul fronte ambientale, sono in molti a dire che l’intervento pubblico è reso necessario da un fallimento del mercato, che lasciato a sé stesso non è stato in grado di tutelare l’ambiente da un capitalismo distruttivo.
Franco Debenedetti: Non è così. Si confonde il ruolo del mercato con quello dello Stato. Per molto tempo c’è stata un’assenza di normazione: è lo Stato che deve fare le regole. Il mercato permette ai privati di esercitare la massima libertà entro quelle regole, che lo Stato fa rispettare con controlli e sanzioni. Gli Accordi di Parigi, ad esempio, non sono in contrasto con i principi liberali. Il punto è che lo Stato non si metta a fare l’imprenditore. Pensi a Enel: lo Stato è azionista di maggioranza, ma sta al suo posto, non interviene in modo distorsivo della concorrenza. Enel funziona come le altre aziende e funziona bene: è quotata in borsa, si espande all’estero.

Si sente dire che i fondi del Recovery Fund permetteranno allo Stato di interpretare il ruolo di “innovatore”, per citare Mariana Mazzucato, con cui lei ha qualche conto aperto. Cosa c’è che non le va a genio in questo modello?
Franco Debenedetti: Lo Stato non può fare l’imprenditore e l’innovatore perché fa già il regolatore. Se entra nel gioco economico limita la concorrenza. Lo Stato decide regole e deroghe, può avere liquidità illimitata attraverso il prelievo fiscale. Chi può competere a queste condizioni? No, guardi, se lo Stato adotta questa logica non c’è speranza.

Si fa notare che la Silicon Valley non esisterebbe senza investimenti pubblici.
Franco Debenedetti: La Silicon Valley è un sistema altamente concorrenziale. Nessuno sa come si produce l’innovazione, non ci sono meccanismi esatti. Si sa però che esistono condizioni che favoriscono l’innovazione. La prima di queste è la concorrenza. Se lo Stato vuole favorire l’innovazione, si occupi di garantire mercati concorrenziali. Inoltre, per innovare è necessario saper trarre profitto dagli errori. Lo Stato tende a non farlo perché costa in termini di consenso, mentre le conseguenze economiche si pagano solo a distanza di generazioni. Ne viene che lo Stato non sbaglia mai e quando sbaglia tende a nascondere i propri errori, ricoprendoli di denaro pubblico. Alitalia è un buon esempio, no?

Torniamo all’ambiente. Si teme che le politiche sostenibilità determini il rimpicciolirsi di alcune filiere, quelle legate alla plastica o alla chimica, per esempio. Tra i più preoccupati ci sono alcune categorie sindacali. Che dire a riguardo?
Franco Debenedetti: È una forma di luddismo. Non si vuole capire che non è la politica, ma è il mercato ad andare in questa direzione, ad avvantaggiare filiere sostenibili. Oggi è così. Sono stato presidente di una società con sede a Bologna, che produceva macchine per la lavorazione del tabacco. Quando abbiamo capito che il consumo di sigarette diminuiva ci siamo orientati altrove, verso le macchine per l’imballaggio. Abbiamo trovato un’altra strada. Non si può contrastare il nuovo per difendere ciò che non funziona più. È un metodo che sottrae efficienza al mercato.

Ci saranno costi sociali da sopportare se certe filiere andranno a ridursi. Al liberismo si rimprovera un certo cinismo, il disinteresse verso le ripercussioni sociali.
Franco Debenedetti: Dalla rivoluzione industriale a oggi il libero mercato è stato fonte di ricchezza e benessere. Ci sono Paesi dove le libertà economiche non sono mai arrivate, sono Paesi in cui non vorremmo vivere. Per crescere, si cambia. Se la mobilità elettrica è il futuro ma il motore elettrico si compone di meno pezzi del motore a scoppio qualcuno rimarrà senza lavoro, dovrà imparare a fare altre cose. Così come il capitale fisico delle aziende deve rinnovarsi, il capitale umano deve riqualificarsi. È la storia che ce lo dice, dai tempi della spoletta meccanica che rivoluzionò l’industria tessile inglese. Il luddismo nasce quando qualcuno rifiuta di adattarsi.

Tante imprese oggi sostengono di avere superato la logica del mero profitto e di adottare modelli di business orientati alla responsabilità sociale. C’è un rifiuto del ruolo affidato alle imprese dal liberismo classico che viene da dentro al sistema imprenditoriale?
Franco Debenedetti: Quella della responsabilità sociale è un’operazione di pubbliche relazioni. Le imprese tengono a mostrarsi responsabili perché esserlo permette di massimizzare i profitti. Prendiamo la Business Roundtable: 181 tra i più importanti imprenditori degli Stati Uniti promisero di gestire le proprie aziende avendo di mira lo stakeholder value, non lo shareholder value. Uno studio riportato dal Financial Times mostra che non è cambiato alcunché da quella dichiarazione ad oggi.

Tutta ipocrisia?
Franco Debenedetti: Non hanno cambiato perché non era necessario cambiare. Lo spiego nel libro Fare Profitti. Etica dell’impresa, che tratta proprio questo tema. Non serve sovrapporre altre logiche e altre finalità alle società di capitale che operano su un mercato competitivo. Per trattenere gli operai e garantire la produzione, Henry Ford si accorse che era nel suo interesse fare qualcosa: aumentò le paghe e ridusse l’orario di lavoro. Ovviamente, la logica era quella della massimizzazione del profitto. Le imprese continueranno a fare ciò che conviene ai loro azionisti e a rispondere a ciò che chiede il mercato. E ciò è un bene perché da duecento anni è così che si crea la ricchezza.

Da più parti si ritiene necessario dare al mercato una direzione più “morale”, per così dire. Inaccettabile?
Franco Debenedetti: Il mercato di per sé non è né morale, né immorale. Oggi però il bene della reputazione ha un grande valore per le imprese. Nike stava per fallire quando si scoprì che nella filiera di produzione che faceva capo all’azienda si verificava lo sfruttamento del lavoro dei minori. Inizialmente, Nike ha negato la propria responsabilità sulla condotta delle altre aziende della filiera. Poi ha dovuto cambiare direzione e impegnarsi in una campagna che garantisse una filiera più equa. A richiederlo sono stati i consumatori, ossia il mercato.

→  maggio 14, 2021


Un viaggio al cuore dell’impresa, per definirne la natura, i soggetti, i diritti e gli interessi al tempo delle aziende Big Tech e della pandemia. Lo propone Franco Debenedetti, ingegnere, manager e Presidente Istituto Bruno Leoni nel suo ultimo libro “Fare profitti” edito da Marsilio. Lo ha intervistato Alessandro Barbano in questa puntata di War Room Books.

→  maggio 10, 2021


Recensione di Marcello Messori, professore di Economia al Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss

Parafrasando Milton Friedman, Franco Debenedetti sostiene che l’impresa capitalistica adempie al suo compito sociale e soddisfa i propri principi etici solo se persegue la massimizzazione del profitto. Di conseguenza il suo originale e articolato volume, Fare profitti. Etica dell’impresa (Marsilio: Venezia 2021), mira a provare la dominanza analitica e fattuale della cosiddetta shareholder value rispetto alla stakeholder value, ossia la dominanza del principio della massimizzazione del valore attuale per gli azionisti di ogni data impresa rispetto al principio della composizione fra i contrastanti interessi propri dell’eterogeneo insieme di quanti partecipano alla vita di quella stessa impresa.

La mia argomentazione – un po’ provocatoria – è che, in modo non intenzionale, l’analisi dell’autore finisca per provare la tesi esattamente opposta: l’incongruenza di optare per la shareholder value rispetto alla stakeholder value.

In apertura del primo capitolo della prima parte del volume, Debenedetti afferma: “la società assegna all’impresa il compito di produrre ricchezza; questa è […] la sua prima e sola responsabilità” (p. 25). Ritengo che nessun economista possa dissentire da un’affermazione del genere, date due condizioni. La prima è che sia corretto assimilare il concetto di ricchezza alla cumulata dei flussi di valore aggiunto o, se si preferisce, dei flussi di reddito netto derivanti dall’attività dell’apparato produttivo di un determinato sistema economico nel corso del tempo. La seconda condizione è che compito dell’impresa sia quello di utilizzare, in modi efficienti, le risorse produttive disponibili per creare reddito netto; ma che, così facendo, l’insieme delle imprese debba anche limitare la creazione di esternalità negative (per esempio, inquinamento) in quanto – a livello aggregato – tali esternalità si traducono in costi che riducono il reddito netto complessivo.

È essenziale notare che, letta nel senso appena specificato, l’affermazione di Debenedetti non ipoteca in alcun modo le quote di distribuzione del reddito netto fra i diversi aggregati sociali. Ciò dovrebbe, del resto, essere conforme con l’approccio analitico di Friedman (ossia, con l’approccio ortodosso). È ben noto che la microeconomia tradizionale si basa sul Primo teorema dell’economia del benessere e, in vigenza di alcune condizioni restrittive (in particolare, preferenze ben conformate degli agenti), sul Secondo teorema dell’economia del benessere. I due teoremi implicano, fra l’altro, che l’efficienza nell’allocazione delle risorse produttive non influenza e non viene influenzata dalla distribuzione del reddito netto fra i vari aggregati sociali. Di conseguenza, l’approccio ortodosso appare neutrale rispetto alla ripartizione del reddito netto e della ricchezza e, dunque, non giustifica alcuna discriminazione fra shareholder value e stakeholder value che attiene, appunto, alla sfera della distribuzione.

La macroeconomia classica di Lucas e Sargent ha dimostrato, fin dagli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, che lo schema analitico di Friedman non è micro-fondato. Ciò contribuisce a spiegare perché lo stesso Friedman trascuri i due teoremi dell’economia del benessere e attribuisca all’impresa il compito di massimizzare una specifica quota distributiva, appunto il profitto, anziché il reddito netto. Seguendo Friedman, nei due primi capitoli del suo libro anche Debenedetti cade nella stessa impropria assimilazione. Pertanto, a dispetto del fatto che i due Teoremi dell’economia del benessere attestano l’irrilevanza della distribuzione del reddito netto per l’allocazione efficiente delle risorse produttive, egli ne inferisce che l’approccio ortodosso sancisce la dominanza dello shareholder value rispetto allo stakeholder value.

La conclusione raggiunta può essere criticata mediante due obiezioni. La prima obiezione è che la teoria ortodossa della distribuzione del reddito è strettamente collegata alla produzione mediante la teoria del valore. Quest’ultima assimila lavoro e capitale come fattori produttivi, provando che l’eguaglianza fra produttività marginale del capitale e profitto è compatibile con il principio della massimizzazione dello stesso profitto. Pertanto, ciò che non poteva essere provato con riferimento all’allocazione delle risorse produttive trova fondamento in termini di teoria marginalista della distribuzione del reddito.

La seconda obiezione consiste nel fatto che, massimizzando il proprio profitto, ogni impresa si assicura le condizioni ottimali per la riproduzione della sua attività e adempie così al suo compito in una prospettiva dinamica. Il problema è che nessuna di tali due obiezioni è analiticamente robusta. La prima si fonda su un concetto di capitale che, come è noto da molti anni nella teoria economica, dà luogo a insuperabili incoerenze logiche. La seconda rimanda a un’analisi dinamica che, come emerge anche dalle difficoltà di esaminare l’accumulazione del capitale nel modello tradizionale analiticamente più avanzato (il modello walrasiano), non trova fondamento nell’approccio ortodosso.

Anche se Franco Debenedetti non rende espliciti i problemi di analisi appena discussi, implicitamente riconosce i limiti dell’approccio ortodosso tanto da confrontarsi con una più recente e sofisticata teoria microeconomica non-walrasiana: la teoria dei contratti che interpreta le relazioni fra diversi aggregati sociali nei termini di rapporti di agenzia. Il rapporto è fra un ‘principale’, che di norma ha il potere di definire le condizioni contrattuali, e uno o più ‘agenti’, che di norma hanno vantaggi informativi o sfruttano l’incompletezza del contratto quando si tratta di soddisfare clausole stipulate. Nell’ottica del ragionamento fin qui svolto, il ricorso alla teoria dei contratti è dirimente rispetto alla tesi fondamentale del volume di Debenedetti. Quest’ultimo demanda, infatti, a tale teoria il compito di provare la dominanza dello shareholder value rispetto allo stakeholder value.

La conferma dell’ultima affermazione è data dal fatto che l’autore utilizza uno dei contributi seminali di questo filone teorico (il saggio del 1976 di Jensen e Meckling) come se rappresentasse il manifesto dello shareholder value. Il problema è che, anche in tale caso, l’autore cade in un’inferenza infondata. La ragione, che spiega il riferimento privilegiato di Jensen e Meckling (1976) alla massimizzazione del profitto di impresa, dipende dal loro esclusivo esame dei rapporti di agenzia fra azionisti e management.

In questi specifici rapporti l’obiettivo del ‘principale’, rappresentato dall’insieme degli azionisti, è di disegnare un contratto che minimizzi la possibile estrazione di benefici privati da parte degli ‘agenti’, rappresentati dal top management. Pertanto, il contratto efficiente deve massimizzare i profitti per il ‘principale’. Tuttavia, come sono pronti a riconoscere gli stessi Jensen e Meckling sulla scorta delle precedenti analisi di Williamson e di altri neo-istituzionalisti e come ricorda lo stesso Debenedetti, l’impresa va trattata come un insieme (un fascio) di contratti. Ciò significa che l’impresa è costituita da un insieme di diversi rapporti di agenzia.

Sotto il profilo analitico, ciò significa che il management di una data impresa, che funge da ‘agente’ nel rapporto con gli azionisti, diventa il ‘principale’ nelle relazioni contrattuali con gli agenti-lavoratori (come è mostrato da molteplici contributi della teoria dei contratti applicata al mercato del lavoro). D’altro canto, una volta conclusi i loro contratti con il management e dopo aver così percepito un reddito, i lavoratori assumono anche la veste di consumatori diventando il ‘principale’ nei confronti degli azionisti quali rappresentanti dell’agente-impresa. Per di più, gli stessi azionisti e/o il management continuano a rappresentare l’impresa nei diversi rapporti di agenzia con i vari aggregati di fornitori.

Questo complesso insieme di rapporti contrattuali fissa la forma e il livello delle remunerazioni e i valori di scambio (prezzi relativi) che assicurano un equilibrio fra i contrastanti interessi di tutti gli eterogeni partecipanti ai molteplici rapporti di agenzia che caratterizzano la vita di un’impresa. Gli equilibri possibili sono svariati (equilibri multipli); eppure taluni sono più efficaci oppure più efficienti di altri. Un’appropriata combinazione fra i diversi contratti dovrebbe essere in grado di selezionare equilibri ‘buoni’ se non l’equilibrio migliore. Ma ciò significa che, almeno stando alla definizione offerta dalla teoria dei contratti, l’impresa è tenuta a perseguire un’equilibrata composizione fra i contrastanti interessi di tutti gli aggregati sociali che partecipano alla sua attività o che la condizionano per via diretta.

Detto in altri termini, e parafrasando le parole con cui Debenedetti apre il primo capitolo del suo volume, il sistema economico capitalistico assegna all’impresa “il compito di produrre ricchezza” e di ripartirla secondo la più efficiente o efficace armonizzazione degli interessi conflittuali fra i suoi svariati partecipanti. L’etica dell’impresa è, così, ricondotta al perseguimento dello stakeholder value.

Si sarebbe tentati di concludere che il volume di Debenedetti finisce, di fatto, per essere un manifesto a favore dello stakeholder value. Una simile conclusione prescinde, tuttavia, dalle critiche che l’autore muove a tale impostazione. Egli sostiene che, diversamente dallo shareholder value, lo stakeholder value non fonda la determinazione delle quote distributive del reddito su una metrica analitica ma la demanda a decisioni arbitrarie che sono vulnerabili all’intrusione di interessi personali o di improprie sovra-determinazioni politiche.

Anche in questo caso, penso che l’autore sottovaluti i problemi aperti nella teoria economica ortodossa e – più in generale – in molti punti alti della storia dell’analisi economica e che non colga appieno l’innovatività della teoria dei contratti.

Quanto al primo punto va rilevato che la metrica analitica, cui Debenedetti si richiama per giustificare la massimizzazione del profitto e la connessa determinazione delle quote distributive, è fondata sulla specifica teoria del valore dell’approccio ortodosso. Si è tuttavia già accennato, ed è noto da tempo, che quella teoria del valore – così come le diverse teorie classiche e marxiane del valore – sono minate da insuperabili aporie logiche che le rendono analiticamente inutilizzabili (al riguardo, basti riferirsi ai lavori di Napoleoni negli anni settanta del secolo scorso).

Di conseguenza, almeno dal punto di vista teorico, la metrica analitica dello shareholder value è un fallimento. Viceversa (e arriviamo così al secondo punto), in alcuni filoni della teoria dei contratti (si vedano i lavori di Hart e Moore fra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta), si affronta il problema dell’indeterminatezza delle quote distributive e della connessa fissazione del potere di acquisto attribuiti ai vari attori che partecipano ai rapporti di agenzia costitutivi dell’impresa. Infatti, Hart e Moore riconoscono che l’intreccio di clausole contrattuali lascia un reddito residuo; e che, quindi, occorre definire una regola per l’allocazione di tale residuo (che può essere quantitativamente rilevante).

La soluzione proposta si basa su due passaggi: il reddito residuo va attribuito a chi detiene i diritti di proprietà, ossia agli azionisti nel caso dell’impresa; l’allocazione efficiente dei diritti di proprietà per una data attività richiede che tali diritti siano attribuiti al cosiddetto ‘agente indispensabile’, ossia all’attore che svolge la funzione cruciale per l’organizzazione e la riproduzione dell’attività.

L’approdo raggiunto non porta, purtroppo, ad alcuna conclusione pienamente soddisfacente. Esso ci permette di affermare che lo stakeholder value poggia su fondamenti teorici più robusti rispetto allo shareholder value anche con riguardo alla determinazione delle quote distributive. Tuttavia, la stessa impostazione di Hart e Moore denuncia fragilità specie se letta in chiave dinamica.

Allo scopo di esemplificare per i “non addetti ai lavori” il loro concetto di agente indispensabile, ossia la loro teoria sull’allocazione efficiente dei diritti di proprietà, i due economisti propongono l’esempio della barca a vela che solca i mari di un oceano con a bordo un ricco uomo d’affari, un abile marinaio e un cuoco. Essi sostengono che, in condizioni di mare calmo, i diritti di proprietà vanno attribuiti a chi può meglio sostenere i costi della crociera (ossia l’uomo d’affari).

Se però sopraggiunge una tempesta, è efficiente che tali diritti siano trasferiti al marinaio perché questa nuova allocazione accresce la probabilità di salvare la barca e la vita dei suoi occupanti. Infine, se la tempesta è così drammatica da obbligare all’approdo su un’isola deserta che porta al salvataggio di tutti ma impedisce la ripresa della navigazione, la soluzione più efficiente consiste nel trasferire i diritti proprietari al cuoco ossia a chi sa meglio utilizzare una cambusa sempre più sprovvista di riserve alimentari.

L’esempio rende evidente che, in un mondo dinamico e complesso quale quello attuale, la teoria di Hart e Moore non è praticabile. L’allocazione efficiente dei diritti di proprietà e la conseguente attribuzione del reddito residuo sarebbero così instabili da risultare incompatibili con la continuità di istituzioni e di apparati molto difficili da ‘smontare’ e ‘rimontare’ senza soluzione di continuità. Appare, per esempio, irrealistico individuare la soluzione efficiente in ricorrenti rivoluzioni nel governo di imprese che già sono sottoposte a tensioni e cambiamenti organizzativi a causa di innovazioni tecniche e di pressioni concorrenziali.

Eppure, nonostante i limiti denunciati, l’approccio della teoria dei contratti coglie aspetti cruciali della nostra economia e società. Viviamo in un mondo che è composto da aggregati sociali eterogenei che perseguono obiettivi e interessi conflittuali. L’intricata rete delle relazioni economiche e sociali fra questi aggregati, che può essere mediata e riprodotta solo grazie a continui interventi regolatori e istituzionali, assicura un ambiente aperto al cambiamento. Essa approda, però, a equilibri temporanei solo se si individuano e si praticano compensazioni e compromessi fra i molteplici interessi conflittuali.

Detto in altri termini, non esiste un bene comune o un insieme di beni comuni che sia pre-definito e invariante e che rappresenti l’obiettivo già pronto e condiviso da tutti. Tale insieme di beni comuni va faticosamente costruito all’interno delle conflittuali relazioni (di agenzia) fra i diversi attori mediante ripetuti aggiustamenti parziali e va ri-calibrato in funzione dei rapidi mutamenti economico-sociali. In un simile mondo appare quasi pleonastico chiedersi se debba prevalere il lineare shareholder value o l’intricato stakeholder value. A prescindere dalle preferenze di ognuno di noi, solo il secondo è in grado di dotarci di una ‘cassetta degli attrezzi’, seppure approssimativa, per fronteggiare la complessità del mondo in cui viviamo.

Risposta di Franco Debenedetti, imprenditore, economista e politico impegnato

“Le clausole contrattuali – scrive Messori – lasciano un reddito residuo e quindi occorre definire una regola per l’attribuzione di tale residuo.”

Ognuno dei contratti di cui consta l’impresa, anche se basato su una norma di legge, lascia un largo margine di interpretazione oltre che di integrazione, e non solo da parte del management. Pensiamo ai contratti nazionali del lavoro dipendente: sono le organizzazioni sindacali dei lavoratori ad opporsi ai contratti aziendali, anche se questi prevedono, oltre al salario fisso, una parte variabile legata alla produttività, che solo a livello aziendale può essere misurato con precisione e attribuito con giustizia.

Sostanzialmente, anche se non formalmente, è una partecipazione all’utile aziendale: spetta al management determinarlo in modo che risulti in un accrescimento dei profitti degli shareholder, ad esempio assicurandosi così le fedeltà di personale qualificato. Tutt’altra cosa sarebbe se lo facessero, ad esempio, per guadagnarsi personali dividendi politici. (Il testo di Friedman del New York Times Magazine, in appendice nel libro, è ricco di esempi). Si parla di Mitbestimmung: ma questa in Germania fu voluta per ragioni politiche, come fu pure, a detta dello stesso Gustav Erhard, l’anteporre l’aggettivo “soziale” alla Marktwirtschaft..

Sembra che Messori consideri l’impresa come un insieme più che un nexus of contracts, fascio di contratti. Invece è un “fascio proprio”, tutti i fili passano per un unico punto. I contratti sono a monte e a valle del processo produttivo, ma l’impresa ne è il centro perché ne è sempre controparte (come acquirente o come venditrice). La domanda è: quale criterio ordinatore è bene segua nel negoziarli?

Non v’è dubbio che la loro configurazione determini la distribuzione del valore aggiunto; ma la tesi di Friedman, argomentata nel mio libro, è che la ricchezza prodotta è massima se l’impresa configura quei contratti in modo tale da accrescere il proprio profitto. Questo non esclude che l’impresa possa avere interesse a garantire un profitto stabile ai propri fornitori, ad offrire ai propri lavoratori o clienti ancor più sicurezza di quella obbligata dalla legge. E quanto alle esternalità, affidare la tutela dell’ambiente – per considerare quella più eclatante – al buon cuore delle imprese, come in fondo fa la teoria dello stakeholder value, pare una pessima soluzione. Ne esistono altre, più efficaci: in proposito la letteratura è sterminata.

Friedman pone i contratti all’interno di un triangolo formato da: fair competition, legge, sentire etico. I contratti coi dipendenti, coi fornitori, coi clienti, con le banche, le norme di rispetto ambientale, sono tutti pensati in un mercato competitivo. Anche quello con gli shareholder è un contratto: in base a criteri interni a quel triangolo i risparmiatori scelgono sul mercato finanziario l’impresa a cui affidare i loro risparmi, diventandone azionisti.

I contributi dei molteplici stakeholder – dipendenti, finanziatori, fornitori, clienti, comunità – non sono singolarmente valutabili e quindi sarebbe arbitraria una regola per l’attribuzione del “reddito residuo” che hanno prodotto. Misurabile è solo il risultato complessivo del loro interagire, e si chiama shareholder value.

Ridurre il footprint carbonico, avere produzioni sostenibili, ripensare il mercato del lavoro alla luce della rivoluzione digitale (scrivere i nuovi diritti digitali, come scrive Maurizio Molinari), sono tutte scelte strategiche, accrescono il valore reputazionale dell’impresa, ne aumentano il valore a lungo termine. Compito del management adottarle: lo shareholder value sarà la misura del loro successo. E cosa se no?

Anche l’adozione di criteri gestionali ESG accresce il valore reputazionale presso alcuni investitori, ma incide sul rendimento: in media, su un arco di 5 anni, è inferiore di oltre il 20% a quello di portafogli composti da aziende con alto potenziale di ritorni nel lungo termine: se va bene a chi le sceglie, nessun problema. Anche chi sceglie il modello di società benefit persegue la strategia di accrescere il proprio capitale reputazionale, tant’è che la legge assegna all’Autorità Antitrust il compito di verificare se la funzione pubblicitaria non prevalga al punto da risultare in una violazione delle norme per la pubblicità ingannevole.

Messori, e molti altri con lui, impiega il verbo “massimizzare”: non così Friedman, che parla di “accrescere”. In effetti quel verbo, come rileva Armen Alchian in un noto paper, non descrive quello che fa e quello che deve fare l’operatore economico: questo ha piuttosto un comportamento adattativo, imitativo, che procede per tentativi alla ricerca di profitti positivi. E ciò per l’incertezza del futuro e per l’impossibilità umana di risolvere problemi che contengono un gran numero di variabili, anche nel caso in cui fosse definibile un ottimo. Se i profitti sono positivi l’azienda sopravvive, altrimenti muore.

I fautori dello stakeholder capitalism, preoccupati del modo di tagliare la torta del profitto, tendono a dimenticare ciò che grandemente influisce sulla sua dimensione, in particolare le azioni del decisore pubblico: interventi diretti dello Stato in attività economiche, politica fiscale che incide sugli incentivi di stake- e shareholder, politiche macro che, quando le conseguenze sono negative, vengono poi chiamate fallimenti di mercato.

La grande depressione del ’29 fu esasperata, secondo molti, dalle politiche protezioniste; la grande recessione del 2007 fu innescata dalla volontà politica di rendere possibile a ogni cittadino americano, compresi i Ninja (no income, no job or asset), di possedere una casa. Nella crisi del COVID. governi e banche centrali, Fed e BCE in testa, hanno inondato le economie con danaro, in quantità dove l’unità di misura è il trillion. Come conseguenza il mercato perde la sua funzione di assegnare prezzi al beni, quindi anche di valutare la convenienza relativa degli investimenti, sia pubblici sia privati, sia per stake- sia per shareholder. Lo sharehoder value rimane “l’indicatore di ultima istanza“.

Messori cita l’apologo di Hart and Moore, della barca a vela con a bordo “un ricco uomo d’affari”, un abile marinaio e un cuoco. Ma i due illustri economisti soprattutto sembrano confondere diritto di proprietà con poteri di comando. I diritti di proprietà vanno attribuiti al “ricco uomo d’affari” non perché può meglio sostenere i costi della crociera (modesti, stante l’equipaggio, nautica popolare) ma perchè ha deciso di fare quell’impresa per il proprio divertimento, l’ha finanziata e ha assunto un marinaio e un cuoco.

In condizioni di mare calmo decide di fare lo skipper, se sopraggiunge una tempesta, chiede al marinaio di pilotare la barca, e al cuoco di gestire la cambusa. Non c’è nessun passaggio di proprietà.

“In un mondo dinamico e complesso quale quello attuale, l’allocazione efficiente dei diritti di proprietà e la conseguente attribuzione del reddito residuo” non solo non sono “così instabili da risultare incompatibili con la continuità di istituzioni e di apparati molto difficili da ‘smontare’ e ‘rimontare’ senza soluzione di continuità”. Al contrario il mercato finanziario funziona in modo straordinario: adatta il proprio modo di agire alle tecnologie disponibili (dal big bang, all’high frequency trading, alle cryptocurrency); finanzia società che consegnano pizze con biciclette e quelle che fabbricano razzi per andare su Marte, su qualsiasi orizzonte temporale, per qualsiasi tipo di rischio, secondo qualsiasi preferenza personale (di cattolici che non vogliono affidare i loro risparmi a chi distribuisce profilattici in Africa, o di islamici che non vogliono dare i loro a chi tratta carne di maiale). Solo quando è lo Stato ad essere proprietario “l’allocazione efficiente dei diritti di proprietà diventa incompatibile con la continuità di istituzioni”: Alitalia docet.

Messori ritiene che il mio volume finisca “per essere un manifesto a favore dello stakeholder value”. In un certo senso è così: stakeholder sono pure, in proprio o per delega, gli shareholder di minoranza. l contratti che ne proteggono gli interessi sono le norme di corporate governance, i regolamenti di Borsa, la concorrenza tre le società, dai quattro giganteschi fondi passivi ai tanti fondi di private equity che scovano margini anche minimi di efficienza da offrire al risparmio.