BERTINOTTI NON È IL SOLO
Bertinotti non è solo, nel pensare ciò che ha detto a proposito delle vendita coatta che la politica dovrebbe imporre a Mediaset. Lo dicono Michele Grillo e Ferdinando Targetti (Il Riformista del 22 aprile): «la proprietà delle reti [tv] va deconcentrata con atto pubblico»: e, a scanso di equivoci, levando due reti a Rai e due a Mediaset. E’ la conclusione, secca e precisa, a cui arrivano nella loro replica al mio articolo sul mercato televisivo del 6 aprile.
Ma per la perentorietà, esplicita al limite del candore, con cui essa viene enunciata, questa conclusione è ben più di una replica: perché mette a nudo, non una semplice differenza di opinioni, ma la frattura profonda che attraversa la sinistra.
Parlassero di pluralismo, bene costituzionalmente garantito, dovrebbero riferirsi alle decisioni della Corte, e proprio ora che siamo in vista dei termini previsti da Italia e Europa per lo switch over dall’analogico al digitale. Parlano invece proprio di concorrenza e ritengono che nel mercato italiano non ce ne sia abbastanza. Giudizio su cui concordano quasi tutti, compreso probabilmente lo stesso Gasparri. Come rimediarvi? Qui sta il punto. Per MG&FT a decidere come farlo e a realizzarlo deve essere la politica, cioè i partiti che in quel momento hanno la maggioranza. Per me invece la politica deve esplicitare i criteri e conferire poteri, ma deve stare rigorosamente fuori dall’uso in prima persona e degli uni e degli Fausto altri. Il fatto che in tutti i paesi ad economia capitalistica i problemi di concorrenza sono regolati da soggetti indipendenti, la magistratura o, più sovente, un’autorità ad hoc, deriva da un fondamentale principio di separazione dei poteri. E’ un diritto dei cittadini poter accedere al mercato senza esserne impediti da barriere erette da chi è in posizione dominante: la politica, così come fa per gli altri diritti, deve garantirlo, non amministrarlo in proprio. Anche questo significa legiferare dietro un velo di ignoranza.
Ma oltre al dovere di moralità politica di ignorare chi è beneficiato o danneggiato dalle decisioni di chi è al potere, c’è quello di onestà logica, di riconoscere l’ignoranza della reale struttura dei fatti economici, delle loro interrelazioni, le conseguenze inintenzionali degli atti intenzionali. Un’ignoranza che è non solo impossibile, ma inutile colmare per ben governare. A dimenticarlo si cade nella «presunzione fatale», nel sogno pianificatorio, nell’arroganza costruttivista: sempre è fallita, sovente ha lasciato dietro a sé disastri. I mercati sono i luoghi in cui si prendono infinite decisioni, dove si incontrano interessi di utenti, clienti, dipendenti, proprietari.
Incombe sempre il pericolo di modellarlo secondo le idee dell’autorità, e, anziché liberarlo dai vincoli imposti dai concorrenti, di costringerlo in quelli immaginati dal decisore. Proprio per evitare questo pericolo, a differenza del potere politico che opera per decreti e leggi, le autorità antitrust pervengono alle loro decisioni attraverso un processo trasparente, dopo un pubblico confronto con le parti interessate e le loro risoluzioni sono appellabili in giudizio. Il giudice Green nel 1982 spezzò il monopolio di AT&T in un modo che fu anche oggetto di critiche (per la cronaca, non separò la proprietà dalla rete); fu anche perché nessuno poté accusarlo di essere stato «catturato» dalla politica, che la sua decisione promosse grandi sviluppi. L’epico processo contro Ibm non vide la fine, fu superato da nuove tecnologie e nuovi concorrenti. Per esempi più recenti, chiedere a Mario Monti sulle sue battaglie vinte e su quelle perse.
MG&FT invece non hanno dubbi. Loro “sanno” che il settore delle Tv deve essere organizzato dando una rete a ogni operatore. Dimenticato Rawls, ignorato Hayek, chiedono alla politica di imporlo per legge. E perché? Perché così è in Europa? Prima di tutto non è neppure vero, né per i pubblici, né per i privati. E poi, che vuol dire? Forse che le storie politiche ed economiche dei 25 paesi dell’Unione sono tutte uguali? Forse che qualche autorità europea l’ha proposto con norma cogente? Eppure di mercati ne ha liberalizzati: l’ha mai fatto imponendo di dividere e smembrare aziende, di sequestrare e requisire?
E’ esattamente il contrario di quello che vogliono MG&FD: la proprietà delle reti non va deconcentrata con atto politico. La politica deve dire che cosa vuole: mercati concorrenziali. Deve dire chi ha il compito di individuare i mercati di riferimento, in base a quali criteri deve giudicare, e conferire adeguati poteri esecutivi.
L’impostazione logica della Gasparri, e il suo merito principale, è quello di aver tolto il problema dall’ambito improprio in cui era stato tenuto finora (tra l’altro inutilmente, come MG&FT sono i primi a riconoscere). Si può discutere sul Sic, sulla opportunità di imporre il must offer oltre al must carry, sul limite del 40%, su che fare delle frequenze che si renderanno libere. Si possono anche volere Autorità diverse dalle attuali per criteri di nomina, composizione e durata (oggetto del primo intervento programmatico di Prodi sul Sole dell’agosto 2005): ma sempre stando dalla parte di chi le vuole più indipendenti, non da quella di chi (come sorprendentemente pare faccia Michele Grillo, che pur ne è stato membro) ne diffida perché non abbastanza dipendenti.
C’è una linea che non si può superare: quella della presunzione fatale di volere intervenire direttamente nei mercati e nel loro modo di organizzarsi. Questa linea che una volta divideva liberali e socialisti, ha sedotto anche menti illustri, e governanti in buona fede, e chi ancora ama coltivare illusioni di onnipotenza. Una cosa è certa: oggi, al di là di quella linea non può starci una forza che voglia guidare un paese ad economia capitalista, certamente nessuna forza riformista. MG&FT – e Fausto Bertinotti puntualmente il giorno dopo – hanno il merito di averlo messo in luce proprio alla vigilia della formazione del nuovo governo.
C’è un’altra ragione, più contingente, per cui attraversare quella linea rappresenterebbe un pericolo per l’attuale maggioranza: il rischio di cadere in conflitto di interesse. Siamo abituati a considerarne la forma classica, quella per cui chi ha vinto le elezioni usa il potere politico a vantaggio del proprio potere economico. Ma del conflitto si dà anche una forma speculare, quando chi ha vinto usa il potere che ha conquistato a danno dell’interesse economico del proprio avversario politico. E’ certo che quanti hanno impegnato la propria autorità e dottrina per condannare la forma canonica, non mancherebbero di trasporre i propri argomenti contro quella simmetrica, della prima forse persin più odiosa.
A ben vedere la Gasparri, levando alla politica il compito di regolare il mercato, e di farlo con i suoi strumenti, il sequestro e l’esproprio, ha offerto alla sinistra il più grande dei favori: evitare di farsi del male.
P.S.: Per trarre le conseguenze politiche dalla replica di MG&FT ho dovuto rinunciare a toccare molti interessanti argomenti tecnici. All’“accusa” di non aver parlato di servizio pubblico replicherò invece in un prossimo articolo.
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