Regole, senza accordo c’è il caos

settembre 9, 1999


Pubblicato In: Varie


Forse perché era la mia prima, ma io ricordo bene la campagna e­lettorale del 1994: noi, i Progressisti della «gioio­sa macchina da guerra», ad accusare Berlusconi di essere «sce­so in campo» per difendere le sue aziende, e ad alzare il tiro contro il pericolo del Grande Fratello che corrompe e coarta la volontà degli elettori; e Bossi .i garantire che, al primo accen­no di scorrettezze da parte del suo alleato», gli avrebbe ficca­to dove si meritava «una bella legge antitrust». A leggere quel­lo di cui si sta discutendo in que­ste settimane, sembra che sei an­ni siano passati invano.

Già allora la televisione pro­duceva nella sinistra l’irresisti­bile impulso a prodursi in variazioni sul tema «facciamoci del male»: come quella di chie­dere voti agli elettori dandogli degli sprovveduti. pronti a cre­dere al primo dottor Dulcamara di passaggio, o quella di accusare un avversario di voler di­fendere le sue proprietà, con­fermando così quello che egli sostiene, e cioè che qualcuno  (chi?) gliele minaccia.

Da Bossi uno non si aspetta pre­cisione definitoria e proprietà les­sicale, ma non è che gli altri ab­biano fatto molto meglio: conflit­to di interessi, antitrust, posizione dominante, la vecchia e la nuova accezione della candido, un’insa­lata di termini e di concetti inter­cambiabili per significare una so­la cosa: «stu presepe nun me pia­ce». Per molti, un’affermazione incontrovertibile; per i pochi che, pur condividendola, hanno gusti un po’ più nuancé, propongo in­vece le seguenti divagazioni logi­co-terminologiche.

Conflitto dl interessi. È un con­cetto del codice civile (artt. 2373, 2391) e riguarda la posizione in cui possono venirsi a trovare am­ministratori di una società, che in tal caso devono astenersi dal vota­re in consiglio. Negli ultimi anni, con la legge Draghi e con diretti­ve Consob, si è cercato di aumen­tare la protezione degli azionisti di minoranza delle società quota­te, con particolare riguardo alle o­perazioni infragruppo.

Trasferito in ambito pubblico, il concetto di conflitto di interes­si assume un significato metaforico: la politica è per definizione me­diazione tra interessi confliggen­ti, e tutti sono in qualche misura portatori cli qualche interesse. Bi­sognerebbe invece parlare più pro­priamente di interesse privato in atto di ufficio, o di insider trading. E, se ben ricordiamo, per com­mettere questi reati, gli «interessi» non è necessario averli ere tati o esserseli costruiti in anni lavoro. Al contrario, in un Paese con una società articolata e un’informazione indipendente, quanto grandi e visibili sono gli interessi di cui una personalità politica è titolare, tanto più impossibile venta il favorirli. Se l’Avvocato Agnelli fosse mai stato ministro dell’Industria, mai avrebbe poti proporre una legge sulla rottamazione, neppure nel caso in essa — come è stato  — fosse vantaggiosa per il Paese. Così Berlusconi non potrebbe mai vendere al 100% le reti Rai, neppure se fosse — come è — salutare per il Paese. Anzi, quanto più estesi sono gli interessi, dalle televisioni alle assicurazioni, dall’editoria alla finanza, tanto maggiori sono i gli ostacoli che limitano il campo d’azione di un politico che quegli interessi rappresentasse: questo è vero conflitto di interessi, di cui però nessuno parla.

Posizione dominante. Anche qui c’è un uso proprio e uno traslato. A quello proprio fa riferimento la legislazione antitrust, quello traslato lo estende ad indicare il sommarsi di potere politico e di potere economico. Ri­ferito all’esercizio del potere po­litico, non sembra un problema: l’esecutivo ha già troppi poteri (e il capo dell’esecutivo troppo po­chi) non si capisce bene che cosa cambierebbe nel bilanciamento dei poteri se l’inquilino di Palaz­zo Chigi fosse anche proprietario di un’acciaieria o di un’azienda di telefoni, o di una banca Il pro­blema invece esiste, ed è di asso­luta e inquietante rilevanza, nella fase precedente, cioè nella lotta per l’accesso al potere, nella com­petizione elettorale. Il finanzia­mento della politica è un tema ir­risolto, ma la direzione verso cui si vorrebbe andare, invece di quel­la del massiccio sostegno pubbli­co preferita dai partiti, è quella di un finanziamento da parte di pri­vati fatto in modo trasparente: e allora che differenza fa se i soldi provengono dalla tasca del can­didato o da quella di persone e di imprese di cui gode la fiducia? Noi restiamo giustamente sconcertati nel constatare come negli Usa le primarie vere hanno come prota­gonisti i finanziatori dei candidati, e che le possibilità di successo dei ciascuno di loro dipendono dal numero di miliardi di dollari con cui entrano in campagna e­lettorale. Ma al contempo bisogna chiedersi: fino a quando e in che misura leggi limitative ci daranno campagne «relativamente” pau­periste, visto che si tratta di oltre cento miliardi a tornata che son tornati a gravare sulla generalità dei contribuenti italiani, fallito l’e­sperimento di chiedere agli ita­liani in dichiarazione dei redditi di sostenere le forze politiche? Si dirà che senza le risorse di cui ha potuto disporre, Forza Italia non sarebbe neppure decollata. Ma vanno ricordati gli anni in cui i fabbisogni finanziari dei partiti si misuravano a punti di Pil del Pae­se, non a percentuali dell’utile di un’azienda…

Incompatibilità e ineleggibi­lità. Tutto quanto fin qui si è detto presuppone che esistano mezzi di informazione di massa indipendenti, anzi pregiudizialmente sospettosi e diffidenti verso il po­tere politico. E bene quindi che il proprietario di mezzi di informa­zione di massa non svolga attività politica diretta, e anch’io vorrei vivere in un Paese dove i cittadini non mandano al governo il pro­prietario di mezzi di comunica­zione di massa. Sono anche con­vinto che questa sia un’opinione condivisa dalla maggioranza de­gli italiani: il che non impedisce però al 50% circa di loro di vota­re per la coalizione che, per con­vinzione o per realismo, vuoi man­dare Berlusconi al governo. E que­sti italiani vanno rispettati: non si può trattarli da dementi come tan­te volte sembra fare il centrosini­stra. A me non piacciono i divie­ti, ma comunque per vietare una cosa ci vuole una legge, e le leggi come si approvano così si possono abrogare. Una cosa però è si­cura: una legge sulla incompati­bilità non si vota a colpi di mag­gioranza ma deve essere concordata con l’opposizione; altrimen­ti, ammesso che la maggioranza riesca ad approvarla, diventa un formidabile argomento regalato all’opposizione per gridare con­tro la sinistra liberticida, vincere le elezioni e subito dopo abroga­re la legge.

La somma delle iniziative re­centemente assunte e i toni di scon­tro che le hanno accompagnate sembrano esattamente prefigura­re questo scenario per le prossi­me elezioni: e a me non sembra granché né come idea in sé, né come prospettiva di vittoria elet­torale. Anzi…

Personalmente, sono di un’al­tra idea rispetto a quella corren­te. Per eliminare l’anomalia del padrone di tre reti televisive che è oggi capo dell’opposizione e po­trebbe domani essere capo del go­verno, bisogna eliminare l’ano­malia originaria, quella per cui delle altre tre reti sono proprie­tari i partiti. Per evitare che Me­diaset possa fiancheggiare la po­litica, bisogna che la politica (col governo che fa la parte del leone) smetta di utilizzare Viale Mazzini. Ma siccome solo chi crede ai mi­racoli può pensare che la Rai di­venti la Bbc, la sola soluzione è vendere la Rai: non con la burletta prevista dalla proposta di legge 1138 in esame al Senato, ma ven­dere il 100% della proprietà del­le reti commerciali.

Non accadrà mai? Può essere. Ma allora vorrà dire che la dege­nerazione della degenerazione com­merciale in contrapposizione al­la politica è un fenomeno irre­versibile: per colpa però di en­trambi gli schieramenti. Perché se il Polo non può, la sinistra non vuole, in quel caso non di con­flitto di interessi converrà parla­re, ma di un conflitto politico. An­zi di uno scontro muro contro mu­ro, da cui non so quanto il Paese abbia da guadagnare. Perché è naturale che quando si va al mu­ro contro muro il conflitto tende a rappresentarsi come quello tra due mondi, tra la «propria» civiltà e l’incultura dell’avversario, tra nobiltà dello spirito e volgarità del consumo, tra chi educa e chi corrompe, tra la qualità del ser­vizio pubblico e la corruzione del­l’intrattenimento.

Può un confronto politico per il governo del Paese ridursi al rim­pianto di Carosello e del Convegno dei cinque della Rai? Personalmen­te, da un siffatto scontro di civiltà» mi dichiaro volentieri disertore.

Invia questo articolo:
  • email
  • LinkedIn



Stampa questo articolo: