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Archivio per il Tag »televisione«

→  giugno 30, 2015


Al direttore.

Per il senatore Mucchetti, in “singolar tenzone” col professore Giavazzi, sarebbe stato “il duopolio Rai-Mediaset che in Italia ha imposto di non avere la tv via cavo”. In realtà, alle prime prove, la tv via cavo venne, letteralmente, abbattuta al suolo: la legge 14 aprile 1975 numero 103 consente al solo concessionario di stato la posa di ogni e qualsiasi rete di telecomunicazione; qualche apertura ai privati doveva venire dal decreto legislativo del 22 marzo 1991 numero 73, del quale però il ministero mai redasse il regolamento attuativo. Cioè non abbiamo la rete via cavo perché poteva posarla solo la Stet: che ritenne bene non posarla. Poco prima, il presidente della commissione Attività produttive del Senato, senatore Mucchetti, aveva affermato: “La Telecom non ha fatto molto bene, l’Italia ha un’infrastruttura debole, l’azienda è molto indebitata, e fatica a andare avanti”. Dipendenti, clienti, azionisti, mercato, siete avvertiti, non dite poi che non ve l’avevan detto: autorevolmente.

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→  giugno 26, 2015


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Singolar tenzone fra l’interventista Mucchetti e il liberista Giavazzi sulla politica industriale ai tempi del governo Renzi. Dalla rivoluzione in Cdp al nuovo ruolo dello stato e del mercato

Due giorni fa, nella redazione del Foglio, si è svolto un forum con la partecipazione di Francesco Giavazzi, professore di Economia all’Università Bocconi ed editorialista del Corriere della Sera, e Massimo Mucchetti, senatore del Partito democratico. Il tema è quello della politica industriale del governo di Matteo Renzi, e in particolare dei recenti cambiamenti che stanno investendo la Cassa depositi e prestiti (Cdp). Proprio ieri il Consiglio di amministrazione della Cdp, riunitosi sotto la presidenza di Franco Bassanini, ha convocato l’assemblea in sede straordinaria e ordinaria per l’approvazione di modifiche statutarie concordate dai soci e per l’adozione di decisioni sugli amministratori. L’assemblea è stata convocata per il 10 luglio e il 14 luglio. Alla guida della cassaforte del Tesoro, secondo le indiscrezioni emerse finora, dovrebbero arrivare Claudio Costamagna (presidente) e Fabio Gallia (amministratore delegato).

Su questo e su molto altro si è ragionato a ruota libera tra Giavazzi e Mucchetti. Per il nostro giornale, a moderare, c’era Marco Valerio Lo Prete.

Il Foglio. Il senatore Massimo Mucchetti una volta, su queste colonne, ha definito la Cassa depositi e prestiti (Cdp), come quella “dotazione finanziaria che serve a reagire al Tradimento del Capitale” privato italiano. Il professor Francesco Giavazzi, sul Corriere della Sera, ha ipotizzato che, se è vero che la Cdp può investire solo in aziende sane, allora può fare quello che possono fare i privati, quindi tanto vale privatizzarla. La Cdp, nel 2015, serve ancora?

Mucchetti. La Cassa, in teoria, potrebbe essere liquidata, ma non privatizzata, perché i cinque sesti della sua raccolta sono garantiti dallo Stato. In pratica, credo che serva. Esiste anche in Francia, Germania, Spagna, Polonia, tutti paesi importanti. La Cassa dovrebbe investire, avendo il capitale necessario per farlo, nelle aziende che possono richiedere un supporto di questo genere per le ragioni più svariate.

Faccio un esempio: in Telecom, abbiamo avuto tutte le forme possibili di investimento da parte del settore privato, e il risultato è che la Telecom non ha fatto molto bene. L’Italia ha una infrastruttura debole, l’azienda è molto indebitata e fatica ad andare avanti. Il mio ragionamento non c’entra con il nazionalismo: si può immaginare pure una Telecom italiana che poi si sposa con la Orange francese e con la Deutsche Telekom tedesca, in modo da avere una stazza sufficiente a intavolare un negoziato serio con gli over-the-top; in un caso del genere, avere una presenza di rilievo, anche pubblica, dentro Telecom Italia, servirebbe a sedersi al tavolo con gli altri nelle stesse condizioni. Per dirne una. E Telecom non è un’azienda fallita, ma un’azienda in cui il capitalismo italiano ha fatto fallimento. Dall’altra parte, invece, abbiamo il caso dell’Ilva, dove c’è stato uno choc dovuto a un’emergenza ambientale e a indagini giudiziarie che hanno messo in ginocchio un’azienda altrimenti profittevole.

Senza impiccarsi alla formula del “Tradimento del Capitale italiano”, la mia impressione è che l’Italia abbia un mercato dei capitali povero, per tante ragioni. Preso atto di questo, bisogna cercare di offrire una soluzione pragmatica. Negli ultimi 6-8 anni, tutte le aziende di un qualche rilievo che hanno dovuto affrontare una transizione proprietaria, sono tutte state acquistate da investitori esteri. Non è un male che un investitore estero acquisti un’azienda italiana. Bisogna vedere caso per caso se c’è un progetto industriale, una solidità finanziaria, per dire se è bene o male. Ma se non c’è mai un soggetto italiano che si assume questo rischio, uno si domanda se l’Italia industriale, sulla grande dimensione, è capace o no di fare il suo lavoro.

Giavazzi. Io ho una preoccupazione più generale: che l’operazione del governo Renzi sulla Cassa depositi e prestiti abbia lo sguardo troppo breve e rivolto soprattutto a Ilva oppure a un’altra crisi come quella di Whirlpool, cioè che si voglia disporre di uno strumento affinchè lo Stato possa intervenire in queste situazioni. Il rischio quindi è che si faccia un passo dalla valenza istituzionale, cambiando lo statuto della Cdp, con l’obiettivo di risolvere una vicenda contingente. A mio parere bisogna invece partire da un’idea di quello che si pensa debba essere il ruolo dello Stato nell’economia.

Un economista si chiede: esistono dei “fallimenti del mercato”? Perché, se non esiste un fallimento del mercato, e il mercato funziona, allora non c’è bisogno di intervenire. Oggi, di fallimenti del mercato ne esistono molti, quindi ci sono molte occasioni per un intervento dello Stato nell’economia. Ma c’è un passo successivo: la maggior parte dei fallimenti del mercato si possono correggere con la regolamentazione, non con la proprietà pubblica. Le reti – quelle elettriche, del gas, la stessa banda larga – creano un’esternalità e devono essere ben regolate, perché c’è un problema di servizio universale e la necessità che non si trasformino in rendite monopolistiche per i privati che le posseggono. Ciò richiede autorità di regolamentazione forti. Non è richiesta la proprietà pubblica; la rete può essere tutta del Fondo sovrano di Singapore, ma se io ho una regolamentazione forte non c’è alcun problema. Quindi l’idea che lo Stato debba essere presente con la proprietà pubblica delle reti non è il modo corretto per correggere l’esternalità. E così in altri campi. Il problema italiano è che abbiamo una regolamentazione debole e oscillante. Il caso di Autostrade è illuminate; abbiamo una regolamentazione che spesso cambia in corso d’opera; poi siccome cambiare le regole “in corsa” danneggia i concessionari, lo Stato dice “è vero che vi ho danneggiato, quindi vi compenso allungando la concessione di altri dieci anni senza metterla a gara”, e così si finisce per creare una rendita inappropriata. La regolamentazione dev’essere forte e non volatile.

Esistono situazioni in cui la proprietà pubblica è giustificata? Secondo me solo in casi come quello di Chrysler nel 2008. Un’azienda che versava in una crisi gravissima, in un momento in cui non esistevano acquirenti privati; perdere quell’azienda avrebbe voluto dire perdere un capitale di conoscenze non facilmente recuperabile. Però stiamo attenti a non generalizzare. La crisi di Chrysler è avvenuta nel momento più grave della crisi finanziaria peggiore degli ultimi 80 anni, non capita tutti i giorni. In quel caso ci possono essere argomenti per un intervento pubblico temporaneo nella proprietà. Ma non tutte le crisi sono come quelle di Chrysler. Inoltre il governo americano, entrato in Chrysler nel dicembre 2008, ha cominciato a vendere azioni nel giugno 2009, e ne è completamente uscito nel 2011. Devono esserci vincoli temporali precisi su quanto può durare la presenza pubblica nel capitale, altrimenti lo Stato entra e ci resta per sempre; negli Stati Uniti non ce n’è bisogno, vista la cultura del paese, ma da noi occorre stare molto attenti. E per Ilva: c’è anche qui bisogno dell’intervento pubblico? Io ragiono così: in Italia non possediamo la materia prima, cioè il minerale di ferro, per il quale siamo dipendenti dalle importazioni. Mi chiedo: che differenza c’è tra importare minerale di ferro e importare il tondino o il laminato già fatto? L’idea che devi produrre qua la lamiera non la capisco. Non vedo il problema se il laminato viene dal Venezuela dove c’è la materia prima, e lo si trasporta direttamente in Europa . Produrlo qui non mi pare fondamentale. In giro per il mondo c’è un grande eccesso di capacità di prodotto laminato. Poi ci sono i problemi occupazionali e di altro tipo, ma queste sono questioni da affrontare nel breve periodo; se è soltanto questo il problema, allestiamo una cassintegrazione speciale e si può chiudere l’azienda.

Due precisazioni, poi. Sul fatto che una Cdp c’è anche in altri paesi, come la Germania, no per favore; se altri fanno stupidaggini, non è una buona idea copiarle. E a proposito di Telecom: noi stiamo in un mondo in cui il telefono fisso lo useremo sempre meno; a proposito dei cellulari, le privatizzazioni hanno generato un fenomeno meraviglioso, il nostro è uno dei primi paesi per utilizzo di cellulari, con grande concorrenza. Per la banda larga, il doppino di rame ha una capacità fino a 30 Mbps; davvero c’è bisogno di andare a 100 Mbps? Io non sono mica sicuro. Si dice che lo Stato in Italia ci metterà 7 miliardi di euro di fondi europei o giù di lì, ma è veramente una priorità consentire ai ragazzini di fare lo streaming delle partite di calcio? Perché tutto il resto si può fare anche con il doppino di rame, incluso l’uso che della banda fa la gran parte delle imprese. Poi ci sono anche aree del paese dove nemmeno il doppino di rame arriva, e quel problema va risolto. Ma un grande investimento in banda larga non sono sicuro sia la priorità oggi per questo paese con i problemi che ha.

Il Foglio. Per il professor Giavazzi non è un problema che non si facciano avanti capitali italiani nei momenti di transizione proprietaria di un’impresa. Nemmeno sull’Ilva il professore sostiene che si possa ipotizzare lo “scenario Chrysler”, con la giustificazione di un intervento straordinario della Cassa depositi e prestiti.

Mucchetti. Vorrei ricordare alcuni dati di storia americana. La Chrysler è stata salvata due o tre volte dal governo americano, anche quando era fallita da sola e le altre case automobilistiche andavano bene: all’inizio degli anni 90, anche la Fiat venne coinvolta in un tentativo di salvataggio che poi non andò avanti perché Washington preferì sostenere la Chrysler stand-alone. Ricordo che accanto alla Chrysler è stato salvato, con un intervento pure più invasivo, anche il gruppo General Motors che contende a Toyota e Volkswagen il posto di primo gruppo mondiale. Ricordo che a tutt’oggi nel Regno Unito lo Stato è ancora dentro le principali banche. Questo per dire non che lo Stato è bello o brutto, ma che queste cose vanno viste con grande pragmatismo. Se l’Italia è un paese non più in grado di esprimere proprietà italiane in tutte le grandi aziende che si trovano davanti a questo problema, sia che vadano bene sia che non vadano bene, credo che questo sia un fallimento del mercato italiano, cui dobbiamo cercare di dare una risposta.

Per quanto riguarda l’Ilva, il discorso che fa Giavazzi è interessante, analogo nel merito a quello che fa il Movimento 5 Stelle. I clienti dell’Ilva, che sono in buona misura le grandi manifatture italiane, dall’auto agli elettrodomestici passando per il mobilio, ritengono però che l’Ilva faccia molto comodo perché, per le sue caratteristiche specifiche, quest’azienda di Taranto, di fatto, fa il prezzo dei laminati in Europa. Inoltre non ci sono soltanto i francesi e i tedeschi che mantengono una rilevante attività siderurgica, ma anche gli inglesi, gli spagnoli e perfino gli olandesi… Cioè in tutti i paesi dove esiste una forte manifattura meccanica e affini, esiste anche una siderurgia. Anticamente la siderurgia aveva un significato strategico-militare, perché con l’acciaio si facevano le corazzate e i cannoni; oggi questo per fortuna è un elemento del tutto minore e non rilevante. Ma il tema di dire “importiamo le lamiere” è relativo; già oggi un po’ le importiamo e un po’ le esportiamo; è un’attività come un’altra, ed è un’attività che, senza lo choc ultimo, ha generato profitti ingenti, perciò non capisco perché non dovremmo continuare a farla, avendo anche questo effetto “positivo” nella formazione dei prezzi dei prodotti siderurgici in Italia.

Detto questo, io vedo oggi altre aziende multinazionali, che hanno il quartier generale in Italia e vasti siti produttivi e commerciali all’estero, con proprietà già in vendita o potenzialmente in vendita come Saipem, Prysmian, Magneti-Marelli, Pirelli. Sarebbe poco utile per noi se trasferissero il proprio quartier generale all’estero. Perché il quartier generale è il luogo in cui si formano le professionalità più raffinate e meglio pagate. L’Italia è povera di grandi imprese; queste sono grandi imprese che hanno proprietà variamente instabili: la Saipem è dell’Eni ma l’Eni vuole deconsolidarla, ecco un campo in cui il Fondo strategico potrebbe intervenire; Prysmian è in mano ai fondi di private equity che hanno lavorato bene ma, come tutti i fondi del genere, sono destinati a vendere; Magneti-Marelli fa parte del gruppo Fiat, io mi preoccuperei che, nelle grandi ristrutturazioni che Fiat andrà a fare, questo gruppo della componentistica possa continuare a svilupparsi per quello che oggi è e può diventare. Su Telecom, vorrei ricordare che la Tim la fecero due grandi boiardi di stato, uno si chiamava Ernesto Pascale e l’altro Vito Gamberale, e poi è andata avanti. Oggi constato che alcuni dei paesi più efficienti e progrediti del pianeta – il Giappone, la Corea del Sud e Singapore – già alla metà del primo decennio del secolo hanno cablato l’intero loro territorio e connesso in banda larga e ultra larga l’intera popolazione. Essendo modesto, in queste cose tengo a copiare; negli altri paesi europei, d’altra parte, la banda larga è molto più diffusa che da noi perché nel tempo, alle telecomunicazioni classiche, avevano affiancato la televisione via cavo, ed è banda anche quella, perciò hanno infrastrutture molto più potenti delle nostre grazie al fatto di non aver avuto il duopolio Rai-Mediaset che in Italia ha imposto di non avere la tv via cavo. Tv via cavo che era alla base del Piano Socrate di Pascale, bloccato in vista della privatizzazione. Per dire che non c’è il pubblico che è buono o cattivo sempre, e il privato che è buono o cattivo sempre. Volta per volta, caso per caso, bisogna essere in grado di fare gli interventi utili.

Il Foglio. Mentre il professor Giavazzi chiede di fissare dei criteri quanto più precisi per limitare il campo degli interventi, criteri così stringenti che forse nemmeno l’Ilva rientrerebbe tra questi, quali sono invece secondo Mucchetti i criteri che la Cdp dovrebbe seguire e che il governo Renzi dovrebbe fissare, visto che le risorse della stessa istituzione sono ovviamente finite?

Mucchetti. Il criterio è indicato nel decreto legge che ha costituito la Cdp Spa, cioè “le aziende di rilevanza nazionale”. Stabilire che ci sono settori “migliori di altri” è assai superficiale. Negli anni 70, si diceva che l’auto era superata, era un prodotto maturo, poi oggi le auto si producono ancora in tutto il mondo. Esistono i settori che hanno un mercato e quelli che non ce l’hanno; esistono le aziende capaci e quelle incapaci; io credo che l’emergenza del sistema industriale italiano sia che a fronte di un sistema distrettuale e di un mondo della media e medio-grande impresa ottimi, abbiamo un sistema di grande impresa debole per numero e capacità prospettiche. Il Fondo strategico dovrebbe, laddove il mercato dei capitali faccia intravvedere delle debolezze, intervenire in maniera intelligente senza aspettare i tracolli. Lei dice: con quali soldi? Allora la Cassa oggi non ha pronti i denari per fare chissà che cosa. Ricordo che ha 30 miliardi di partecipazioni e 21 miliardi di mezzi propri, già questo dà il senso di uno squilibrio. Quindi la Cassa deve essere ricapitalizzata, se vuole adempiere a una funzione nuova e più ampia.

Mucchetti. Per ricapitalizzare la Cassa depositi e prestiti (Cdp) esistono svariati modi, non necessariamente l’aumento di capitale che mi sembra improprio; per esempio, nel 2003, lo stato conferì alcune partecipazioni, ora potrebbe conferire altri asset vendibili in modo che la Cassa faccia del denaro; oppure riformulando il Testo unico della finanza, aggiornandolo alle nuove esigenze, migliorando lo strumento delle azioni a voto plurimo e quant’altro, lo stato potrebbe anche cedere buona parte delle attuali partecipazioni, continuando a esercitare la capacità di orientare l’assemblea degli azionisti.

A proposito dei tempi da rispettare negli interventi della Cdp, infine, dico che sono un criterio utile ma che non può essere granitico. Faccio un esempio. La ragione per cui l’Ilva è invendibile in questo momento, è che ha dei contenziosi con la magistratura. Fintanto che tali contenziosi non saranno risolti, non ci sarà un privato interessato. Quindi come faccio a dire “due anni e stop”? La scelta va lasciata alla forte volontà politica di riprivatizzare appena utile e possibile.

Il Foglio. Professor Giavazzi, qui ci si preoccupa addirittura di trovare altre risorse per la Cdp…

Giavazzi. Due precisazioni. A proposito del triplo salvataggio di Chrysler. Come detto prima a proposito dell’esistenza di una Cassa pure in Francia e Germania, il fatto che gli Stati Uniti facciano degli errori non vuol dire che li dobbiamo ripetere. Io credo che la vicenda Chrysler del 2008 sia un fatto abbastanza unico.

A proposito dell’Ilva: cos’è questa storia della specificità delle lamiere dell’Ilva? Se c’è un mercato mondiale dove si fanno le lamiere, i produttori che usano prodotti siderurgici li compreranno in giro per il mondo. Tanto più se riteniamo che l’impianto di Taranto generi un problema ambientale insormontabile, chiudiamolo e compriamo il laminato in Venezuela.

Sul voto plurimo. Quest’ultimo ingessa le imprese, le rende meno contendibili perché vuol dire che chi è lì da più tempo ha più diritti di voto di chi è arrivato per ultimo. La scarsa contendibilità delle nostre imprese è uno dei motivi per cui in questo paese c’è poca produttività. In un recente rapporto del Fondo monetario internazionale su quanto aumenterebbe la produttività in Italia se capitale e lavoro potessero essere riallocati lì dove sono più efficienti, e sul lavoro questo inizia a essere consentito con il Jobs Act, si calcola di quanto crescerebbe il reddito se il capitale fosse riallocato in modo più efficiente. Se ingessiamo le imprese, il capitale non si può riallocare, e spesso finiscono per essere ingessate le imprese che sono gestite male. Negli Stati Uniti, il grande boom della produttività alla metà degli anni 90 non a caso si verificò dopo che, alla fine degli anni 80, quei famosi signori che hanno ispirato “Barbarians at the gate”, hanno comprato le imprese, le hanno tagliate con le forbici a pezzettini e le hanno riorganizzate in modo più efficiente; è lì che è nato il grande boom di produttività americana; senza quella riallocazione del capitale, l’Information technology non sarebbe stata di per sé sufficiente perché le imprese non erano adatte a recepirne i benefici.

Per tornare al nostro paese: non c’è alcun teorema economico secondo il quale le imprese debbono essere grandi. Il paese deve fare quello che sa fare. Siamo un paese con la bilancia commerciale in attivo; il che vuol dire che ci sono abbastanza imprese che esportano, tipicamente quelle piccole e medie, per pagare il petrolio che importiamo e tutto il resto. Un paese può crescere con molta vitalità nelle piccole imprese. Allora – si dice – non potrà essere fatta ricerca. Ma per fare ricerca occorrono buone università, e lì bisognerà investire di più, anche qui cominciando dalle regole prima che dal denaro. Contribuisce di più alla ricerca applicata italiana l’Istituto italiano di Tecnologia (Iit) di Genova che non tutte le grandi imprese. Quanto ricerca ha fatto la Fiat negli ultimi sessant’anni?

Un’ultima cosa, a proposito delle possibilità d’intervento del Fondo strategico. Io ricordo che dieci anni fa il presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac, commissionò un rapporto a Jean-Louis Beffa, un grande manager francese, un progetto in cui Beffa faceva l’elenco dei circa 20 settori in cui lo Stato francese doveva investire. Perché il signor Beffa? E’ il mercato che deve decidere. Altrimenti succede come con i pannelli solari in Italia. Li abbiamo sussidiati, ci abbiamo riempito il paese, con alcuni risultati: una rendita che ai contribuenti costa circa 10 miliardi di euro l’anno ed è difficile da smantellare; abbiamo riempito i tetti dei capannoni di questi pannelli, senza preoccuparci di chi dovrà occuparsi dello smaltimento; mentre oggi la tecnologia è già cambiata e in America già esistono start up che utilizzano delle vernici con capacità di catturare l’energia solare e costi e impatto ambientale molto inferiori. Quindi c’è anche il rischio di fare investimenti che sono sbagliati.

La banda larga, per esempio: tra dieci anni potremmo scoprire che, con nuovi telefoni cellulari, si navigherà dieci volte più velocemente. Sarei un po’ cauto a prevedere gli sviluppi tecnologici.

Il Foglio. Un punto d’accordo mi pare ci possa essere. Entrambi ritenete che, in un momento così importante di cambiamento per la Cdp, il governo Renzi dovrebbe essere più chiaro sul mandato dei nuovi manager.

Mucchetti. In questo sono d’accordissimo con Giavazzi. Il governo deve chiarire quali sono le finalità di questo cambio della guardia, per poterne valutare la congruità. Quando si cambia a un anno dalla scadenza un vertice aziendale del quale non si dice altro che bene, chiarire il futuro è un obbligo. Aggiungo che le modalità del cambio della guardia alla Cdp non sono state le più eleganti. Si poteva procedere in maniera più rispettosa del pluralismo dell’azionariato della Cassa e della dignità professionale delle persone.

Ma sono d’accordo anche su un altro punto sollevato da Giavazzi: la questione degli incentivi. Gli incentivi al fotovoltaico sono di circa 6,7 miliardi all’anno, c’è un tetto fissato per legge, ma è un incentivo che dura 20 anni; sono altrettanto rilevanti gli incentivi alle altre fonti non fotovoltaiche; il totale, l’anno scorso, è stato di 14,7 miliardi. Moltiplicatelo nel tempo. Stiamo parlando di un sussidio che è un multiplo dei fondi di dotazione, a valore attualizzato, dati dallo stato dal 1933 (anno della fondazione dell’Iri) al 2002 (anno di liquidazione dell’Iri) non solo all’Iri ma a tutti gli enti pubblici economici: quindi l’Iri, l’Eni, l’Enel, ma anche le malfamate Egam ed Efim, la Gepi… Tutto questo complesso è costato meno dei sussidi alle rinnovabili. Questo per dire che un intervento serio, mirato, della Cdp, andando a affrontare le difficoltà dove ci sono, costa infinitamente meno di certi incentivi erga omnes, e ha ritorni sull’economia reale infinitamente superiori.

Giavazzi sostiene che un paese può vivere anche senza grandi imprese. Beh, l’Italia più o meno ci sta arrivando. Però è abbastanza un classico che dalle grandi imprese, per esempio, originino poi i piccoli imprenditori, cioè ingegneri, manager che si mettono in proprio, oltre a quelli che nascono dal nulla certo. Dalle grandi imprese c’è una importante ricaduta tecnologica. Nelle grandi imprese si crea pure lavoro manageriale, servizi a valore aggiunto, che nelle piccole imprese non ci sono. Quindi un paese, senza grandi imprese, è un paese debole, che arriva dopo. Quando l’Italia va in Cina, in prima battuta ci va con le sue grandi imprese; solo che la Germania ci va con 200 grandi imprese, noi ci andiamo con 20! Io sono contro la retorica anti-piccoli che c’è in molta accademica italiana, preferisco in questo campo l’ufficio studi di Mediobanca a quello, ottimo per tante altre cose, della Banca d’Italia. Però, allo stesso tempo, considero un valore le grandi imprese attuali, e quelle che potranno venire domani.

Il Foglio. La Cdp quali “grandi imprese” italiane ha creato o favorito finora nei suoi quasi 15 anni di vita? Esiste cioè – per parafrasare il titolo del celebre libro di Mariana Mazzucato, “Lo Stato innovatore” – una Cdp innovatrice? E se il governo ha fatto finora intendere, quantomeno, di volere una Cdp più interventista nell’economia, perché lei, senatore Mucchetti, è scontento di questa scelta?

Mucchetti. La Cdp non è lo Stato cui fa riferimento Mariana. Del resto, ha cominciato ad assumere partecipazioni dal 2003, non da molto, e non è suo compito creare imprese. E’ suo compito sostenerne lo sviluppo. Poi certo, a proposito del Fondo strategico, credo di poter fare considerazioni critiche analoghe a quelle del professor Giavazzi. Ma il punto è che la Cdp finora non ha avuto un mandato chiaro, vedi il caso delle due Ansaldo, dentro nell’Energia e fuori da Sts, ha vincoli statutari, regole Eurostat, quindi il rinnovamento in Cdp va fatto in modo ponderato e non impressionistico.

Il Foglio. Come valutate le professionalità dei nuovi manager di cui si fanno i nomi, Claudio Costamagna per la presidenza e Fabio Gallia per il ruolo di amministratore delegato?

Mucchetti. Sono entrambi banchieri di ottima reputazione. Non so cosa voglia fare Renzi della Cdp. Certo, se seguisse la linea di condotta che ho provato a descrivere, ci vorrebbero anche altre competenze. Quella finanziaria va benissimo, ma poi serve competenza giuridica per fare le cose giuste in Europa; e poi competenza industriale perché, quando si tratta di stabilire dove andare a mettere dei quattrini, bisogna essere in grado di capire i piani industriali. Un tempo c’erano l’Imi e Mediobanca. Oggi non so.

Giavazzi. Sui sussidi con il senatore Mucchetti siamo d’accordo. Io per il governo Monti stilai un rapporto nel quale suggerivo di azzerarli; ovviamente è stato dimenticato. La differenza tra di noi è che io userei le risorse liberate dai sussidi per abbassare le tasse, una cosa molto più importante che non dare allo stato la possibilità di decidere in quali progetti investire, progetti decisi da burocrati o da politici che comunque, se sbagliano, non rischiano nulla. Sull’iPhone, visto che avete citato la Mazzucato, smettiamola di dire stupidaggini. Il fatto che nel 1945 il Pentagono abbia investito in progetti che sono poi diventati Internet, mi sembra avere una relazione assai debole con quanto ha fatto Steve Jobs.

Sul perché è stato fatto questo cambio repentino in Cdp. Io penso che, dal punto di vista istituzionale, un governo che è azionista quasi totalitario della Cdp, può fare dunque quel che vuole, però deve spiegare con trasparenza quale è il suo progetto. Ho un dubbio che in particolare vorrei fosse fugato: che tutta questa operazione è stata fatta solo perché l’attuale amministratore delegato della Cdp, Giovanni Gorno Tempini, con l’appoggio delle Fondazioni, ha detto “no” all’intervento Nell’Ilva, che poi si è riusciti comunque a fare facendo i salti mortali. Spero invece ci sia un progetto generale.

Se io fossi al posto di Renzi, mi chiederei: cos’è che oggi manca più di tutto all’Italia? C’è scarsa concorrenza troppo poche liberalizzazioni. E’ difficile liberalizzare perché quando liberalizzi porti via delle rendite e giustamente il tassista che ha comprato la licenza ieri dice: perché ci devo perdere i 100 mila euro che ho speso? Quindi bisogna compensare chi perde delle rendite. Usiamo i soldi della Cdp per creare un fondo per compensare chi perde la propria rendita, e così liberalizziamo il paese. Questo avrebbe un impatto di un ordine di grandezza superiore a qualsiasi intervento nell’impresa X o Y, o dal salvataggio dell’Ilva.

Sulle competenze dei nuovi vertici, io sono un ingegnere e attorno al tavolo vorrei solo ingegneri! Però noto che molti manager italiani del settore privato, incluso Andrea Guerra, hanno sviluppato una visione per cui i privati sono sostanzialmente degli incapaci e ci vuole lo Stato. Sulla prima parte possiamo essere pure d’accordo, ma sul fatto che ci voglia lo Stato… Quindi bisogna stare attenti.

Mucchetti. Non liquiderei così la Mazzucato. L’elenco dei risultati della ricerca pubblica confluiti nell’Iphone sono veramente tanti e non tutti remoti. Ma sono d’accordo anche io sul fatto che liberalizzare sia un bene. E tuttavia le aziende di cui abbiamo parlato prima operano su mercati globali in cui tutto è già liberalizzato, cioè hanno duemila dipendenti in Italia e 30 mila all’estero. La manifattura è super liberalizzata, non esistono vincoli.

Il Foglio. Proprio a partire da una valutazione del curriculum vitae di Costamagna, è circolata anche l’ipotesi che la Cdp possa essere usata per intervenire sul dossier bad bank e puntellare in qualche modo gli istituti di credito italiani.

Mucchetti. Premesso che il governo sta adottando misure per accelerare il recupero dei pegni e per la deduzione fiscale delle sofferenze, sulla bad bank abbiamo perso un sacco di tempo. Me la cavo con una battuta: si può fare, e si può fare anche senza regalare denari ai banchieri. Come? Il veicolo che acquista i crediti deteriorati dal sistema bancario pagherà un prezzo, che sarà una frazione del valore facciale di questi crediti, ma siccome non sarà stracciato per non affondare le banche, sarà pure parzialmente assistito da una garanzia. Cos’è la garanzia? Un quid che viene messo a copertura del rischio che gli incassi del recupero dei crediti non ripaghino il prezzo. Questa garanzia la potrebbe mettere la Cassa ma dovrebbe essere pagata dalle banche che diluirebbero così nel tempo l’eventuale perdita. La Cassa potrebbe anche avere un ruolo nel veicolo che dovrebbe avere anche la presenza delle banche beneficiarie e di investitori privati specializzati. Costruire simili congegni, a ben vedere, è il mestiere di Costamagna.

Giavazzi. Anche in questo caso, a dire il vero, c’è un mercato. Ci sono investitori specializzati nell’acquistare pacchetti di crediti incagliati o a vario livello di rischio d’insolvenza, e nel rivenderli. Perché oggi le banche italiane non ne vendono a sufficienza? Perché in questo paese escutere una garanzia richiede tempi biblici; se il piccolo imprenditore ha messo la sua casa a garanzia del credito, quando diventa insolvente è come se la garanzia non ci fosse, perché quasi 10 anni per un investitore internazionale sono troppi. Occorre dunque cambiare le regole e far sì che l’escussione delle garanzie avvenga come nel resto dell’Europa, che i tempi siano 1 o 2 anni. Altrimenti metteremmo una pezza a questo problema, dopodiché con la prossima crisi saremo punto e daccapo.

C’è invece un fallimento del mercato – e lì una garanzia pubblica sarebbe importante – dovuto al fatto che abbiamo un sistema bancario vecchio che non presta senza garanzie, che non è capace o abituato a finanziare le idee; ci sono invece bravissimi imprenditori che non hanno le garanzie sufficienti, almeno dal punto di vista di queste banche, e che quindi non riescono a realizzare i loro progetti; in questo caso una garanzia pubblica servirebbe; questo è un fallimento del mercato che non si cambia nel giro di pochi giorni, perciò un intervento pubblico di questo tipo – ripeto, una garanzia, che non ha nulla a che vedere con l’ingresso di fondi strategici pubblici in queste imprese – per le piccole e medie imprese sarebbe giustificato.

→  febbraio 28, 2015


“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico”: a qualcuno, “antico” anche lui, l’Opa su RaiWay ha fatto tornare alla memoria il verso pascoliano della propria infanzia. L’antico è l’evocare il conflitto di interesse, il giaguaro, tutto l’armamentario di una “guerra dei trent’anni” che novità tecnologiche, gusti dei consumatori, preferenze degli elettori, hanno fatto deporre e seppellire: perché il conflitto non c’è più, e quanto agli interessi, nulla di meglio di un’Opa per regolarli. O almeno così si è pensato.

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→  agosto 31, 2013


“Chi devo chiamare se voglio parlare con l’Europa?” Di tempo ne è passato da quando Henry Kissinger avrebbe detto la famosa battuta. Oggi potrebbe chiamare l’Alto Commissario dell’Unione Europea per le relazioni estere, Lady Ashton: ma una volta c’è la Libia, l’altra il Mali, poi l’Egitto, oggi la Siria, e le bollette del telefono aumentano sempre. Il premier Letta ha avuto un’idea brillante: se non possiamo dargli un numero di telefono unico, diamogli un numero di canale unico. Fare la Radio Tv europea (e, ça va sans dire, pubblica), ha annunciato, sarà la proposta politica qualificante del semestre europeo a guida italiana.

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→  novembre 19, 2010


Non ci sono più le mezze stagioni, signora mia, e neppure la Bbc è più quella di una volta. A riconoscerlo è stato il Financial Times: compensi eccessivi – il direttore generale prende 800mila sterline l’anno, il doppio del suo predecessore – iniziative ambiziose, incidenti gestiti con goffaggine, ne hanno leso l’immagine.
La fondazione istituita dal governo Brown in rappresentanza dei consumatori è diventata l’arena degli scontri tra presidente e direttore generale. Il nuovo governo ha tagliato del 16% le risorse bloccandole per sei anni. Non è certo solo l’editorialista del Ft a chiedersi se, invece di inseguire l’audience con programmi popolari, la Bbc non dovrebbe essere ricondotta alla sua missione primaria, «trasmettere programmi di qualità».

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→  settembre 18, 2010

di Giovanni Valentini

Gli uomini del centrosinistra hanno commesso gravi errori che hanno agevolato l’ ascesa di Berlusconi. (da “Berlusconi e gli anticorpi” di Paolo Sylos Labini Laterza, 2003 – pag. 28) Diversi lettori hanno scritto piuttosto allarmati al Sabato del Villaggio, dopo aver letto la rubrica della settimana scorsa intitolata “Se il Cavaliere compra il Corriere della Sera”, in cui si annunciava che il 31 dicembre prossimo scadrà il divieto stabilito a suo tempo dalla legge Mammì di acquisire il controllo di quotidiani per chi possiede già tre reti televisive. E si ricordava contemporaneamente che giace in Parlamento una proposta di legge, di cui il primo firmatario è l’ ex ministro Paolo Gentiloni, per prorogare ulteriormente questa eventualità al 2015. L’ articolo non è piaciuto, invece, all’ ex senatore Franco Debenedetti che in una lettera esprime il suo “netto disaccordo”.

E l’intervento merita un chiarimento e una replica: non solo perché proviene da un personaggio che è stato parlamentare per tre legislature (1994, ‘ 96 e 2001), prima nelle liste del Pds e poi in quelle dei Ds. Ma soprattutto perché, al di là delle migliori e più rispettabili intenzioni, rivela una sconcertante disinformazione e una sostanziale indifferenza sul tema nevralgico del conflitto di interessi, entrambe diffuse purtroppo anche in una parte dell’opinione pubblica di sinistra. “Dalla Mammì – scrive Debenedetti – sono passati 20 anni, nel mondo dei media è successo di tutto. Che la Repubblica Italiana anno 2010 stabilisca per legge che il matrimonio tra televisione e giornali non s’ ha da fare, mai, in nessun caso, mi pare un’idea assai poco illuminata, proprio da non andarne fieri”. In realtà, la legge Mammì non stabiliva affatto un divieto assoluto di incrocio fra tv e giornali. Quella legge, approvata dal Caf (Craxi-Andreotti-Forlani) dopo l’occupazione selvaggia dell’ etere da parte Di Sua Emittenza, era una legge-fotografia che si limitava a ratificare l’esistente, cioè il fatto compiuto. Tuttavia, per un minimo di pudore o di decenza, all’articolo 15 introduceva un “Divieto di posizioni dominanti”, fissando appunto una griglia nell’incrocio fra tv e carta stampata: chi deteneva già il 16 per cento della tiratura complessiva dei quotidiani italiani, non poteva avere neppure una concessione televisiva nazionale; chi deteneva l’8 per cento della tiratura dei quotidiani, poteva avere una sola concessione tv; e infine chi deteneva una quota di tiratura inferiore, poteva averne al massimo due. A quell’epoca, come si ricorderà, la Fininvest possedeva già Canale 5, Italia Uno e Retequattro. Per cui, non solo non avrebbe potuto ottenere una terza concessione nazionale, come la Corte costituzionale ha più volte sancito in nome del pluralismo e della libera concorrenza: tant’è che siamo arrivati fino al cosiddetto “decreto salva-reti” nel 2004 e alla legge-vergogna che porta la firma dell’ ex ministro Gasparri. Ma, proprio in forza di quella timida normativa anti-trust, il Cavaliere non poteva mantenere la proprietà del Giornale, ceduto infatti al fratello Paolo con gli esiti che sono ormai sotto gli occhi di tutti. Sorprende e sconcerta, perciò, che un ex parlamentare del centrosinistra non conosca o non ricordi bene il testo della legge Mammì. Certo che il “matrimonio fra televisione e giornali”, come lo chiama Debenedetti, s’ha da fare: tanto più nell’ era della convergenza e della multimedialità. Il punto non è questo, bensì il livello di concentrazione che si realizza nel campo dell’informazione e della raccolta pubblicitaria, a danno di tutti gli altri media. Ma ancor più sorprende e sconcerta che un ex parlamentare del centrosinistra difenda perfino la legge Gasparri che, dietro il paravento del digitale terrestre, di fatto ha consolidato e rafforzato il duopolio di Rai e Mediaset nel settore della televisione generalista, in chiaro, quella che più fa opinione e influisce più ampiamente sulla formazione del consenso. Eppure, una recente indagine del Censis documenta che i telegiornali restano il mezzo principale per orientare il voto, soprattutto fra le casalinghe (74,1%), i meno istruiti (76%) e ancor più trai pensionati (78,7%). Per l’ex senatore Debenedetti, una concentrazione come quella che si realizzerebbe nell’ipotesi che Berlusconi comprasse il Corriere della Sera, o qualsiasi altro quotidiano, “non è neppure fantapolitica, è surreale”. E comunque sarebbe impedita dal decreto legislativo del 31 luglio 2005 (n. 177 – art. 43). Ma abbiamo già visto fin troppo in passato come si aggirano o si eludono le leggi anti-trust in questo campo. La proposta presentata dall’ex ministro Gentiloni resta perciò quantomai valida e attuale.