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→  giugno 30, 2008

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Dopo lo scandalo delle intercettazioni

Non uno, osserva sarcastico Massimo Gramellini (Porcelli e Porcelle di domenica), che, osservando lo spaccato di società che vien fuori dalle intercettazioni “ne abbia tratto l’ovvia conseguenza di chiedere la privatizzazione della Rai, per sottrarla agli appetiti dei funzionari di partito e lasciarli a quelli dei proprietari, che se non altro sono meno numerosi.” Con una cinquantina di articoli, con interventi in Parlamento e convegni di cui ho perso il conto, in cui ho perorato la causa della privatizzazione della Rai e ne ho esposto ragioni e convenienze, mi sento direttamente chiamato in causa.

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→  febbraio 18, 2008

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di Luca Ricolfi

Veltroni ha presentato sabato le promesse del Partito democratico (Pd), fra una settimana circa Berlusconi presenterà quelle del Popolo della libertà (Pdl). È probabile che, al netto delle parole in cui saranno avvolte, le promesse finiscano per rivelarsi affini. Più sicurezza, meno tasse, sostegno ai redditi bassi, aiuti alla famiglia, contenimento della spesa pubblica, misure per la competitività, alleggerimenti fiscali sugli straordinari: chi avrà il coraggio di non ripetere le solite promesse?

Il punto dunque non è che cosa Pd e Pdl ci promettono, ma che garanzie offrono di mantenere le promesse. Di solito chi solleva questo problema aggiunge che ogni promessa costosa (come la soppressione dell’Ici sulla prima casa, o il bonus per i nuovi nati) dovrebbe essere accompagnata da un’indicazione precisa delle relative «coperture», ossia dei soggetti su cui verrebbe fatto gravare il peso finanziario della promessa. Giustissimo, ma da sempre i politici hanno escogitato un modo sicuro per aggirare la domanda. Alla richiesta di indicare le coperture rispondono: a) recupero di evasione fiscale; b) riduzione degli sprechi nella pubblica amministrazione; c) maggiore crescita. E il discorso finisce lì.

Andrà così anche in questa campagna elettorale, e quindi non proviamo nemmeno a scongiurare i politici di rivelarci «dove prenderanno i soldi» per fare le meravigliose cose che ci promettono. Non ce l’hanno mai detto, non ce lo diranno mai. Perciò siamo e resteremo indifesi di fronte al fiume in piena delle promesse. C’è una cosa, tuttavia, che può aiutarci a capire se un programma è credibile oppure non lo è: la sincerità con cui ci racconta il nostro passato e il nostro presente.

Non possiamo sapere che cosa Veltroni o Berlusconi ci riservano per il futuro, ma possiamo capire se ci trattano come bambini ingenui o come persone mature. Se si prendono gioco di noi oppure ci rispettano. Come ha scritto recentemente sul Sole – 24 Ore Franco Debenedetti, il punto di partenza di una stagione politica finalmente costruttiva è la condivisione dei «giudizi che si danno sul passato». Probabilmente non riusciremo a metterci d’accordo sul futuro, ma almeno mettiamoci d’accordo sul passato.

Prendiamo Berlusconi. Nei giorni scorsi gli abbiamo sentito dire in tv che il suo governo aveva realizzato l’85% del programma del 2001 – il famoso contratto con gli italiani – e che il «pezzettino» non realizzato (appena il 15%) era rimasto sulla carta per colpa degli alleati. Bene, allora è forse il caso di ricordargli che le due promesse principali del suo programma sono state clamorosamente disattese: l’aliquota Irpef massima non è stata ridotta al 33%, i delitti anziché diminuire sono aumentati. Per non parlare delle grandi opere, anch’esse realizzate in misura ben inferiore alle promesse. Perché raccontarci di aver onorato il «contratto» all’85% se non è vero? Gli italiani non sono ciechi, e se nel 2006 hanno tolto la fiducia a Berlusconi è anche perché si sono accorti che il contratto non era stato rispettato.

Per Veltroni il passato da indorare è quello di Prodi. Ma un conto è sorvolare signorilmente su qualche scivolone o su qualche punto marginale, un conto è capovolgere la trama della storia economico-sociale recente. Veltroni dice: ridurre le tasse e aumentare i salari si può, e si può proprio perché il governo Prodi ha condotto una lotta vittoriosa contro l’evasione fiscale (almeno 20 miliardi di gettito recuperati, secondo il governo uscente). Peccato che questa ricostruzione del nostro passato recente non sia compatibile con quel che si sa dell’andamento dell’economia negli ultimi due anni. Vediamo perché.

Lotta all’evasione. La cifra di (almeno) 20 miliardi recuperati è altamente controversa, ed è stata messa in dubbio da vari analisti e centri di studio indipendenti. Per il 2006, unico anno per il quale si dispone già di dati completi, non è nemmeno certo che esista un effetto-Visco (la mia miglior stima fornisce un recupero di evasione di appena 1,7 miliardi). Quel che in compenso è certo è che il governo Prodi ha sempre tenuto basse le previsioni sulle entrate fiscali, e proprio grazie a questo artificio contabile ha fatto emergere i vari «tesoretti».

Uso dell’extragettito. Quale che sia l’origine del cosiddetto extragettito (gettito non previsto dal governo), è incontrovertibile che i contribuenti non hanno visto sgravi fiscali per 20 miliardi di euro (la lotta all’evasione fiscale non doveva servire a ridurre le tasse ai contribuenti onesti?). Essi hanno invece assistito, nel corso del 2007, a una sistematica opera di dissipazione del gettito non previsto. Visco metteva i soldini nel salvadanaio, i «ministri di spesa» lo rompevano tutte le volte che si accorgevano che era pieno (Dl 81, Dl 159, Finanziaria 2008).

Situazione attuale. Nessuno, nemmeno il ministro dell’Economia, sa dire ancora con certezza se esiste un ulteriore gettito non previsto del 2007 (gli ultimi dati ufficiali dell’Agenzia delle entrate sono fermi al 30 novembre scorso). Quel che si può dire con certezza, invece, è che ci sono 7-8 miliardi di spese prevedibili ma non messe a bilancio, che l’andamento del gettito delle imposte dirette (il più sensibile all’andamento dell’economia) è in costante calo dal gennaio del 2007, e che a partire dallo scorso ottobre il gettito cresce meno del reddito nominale. In concreto questo vuol dire che, se l’economia dovesse continuare ad andare male, il gettito 2008 potrebbe risultare minore del previsto, anziché maggiore come è stato negli ultimi due anni.

Morale. Il governo Prodi consegna all’Italia una situazione nella quale non c’è più alcun extragettito da spendere e, se anche qualche risorsa dovesse mai spuntar fuori, verrebbe immediatamente bruciata per coprire i 7-8 miliardi di spese non messi a bilancio dalla Finanziaria 2008. Capisco che Veltroni sia così gentile da non voler vedere questa triste eredità, ma se si vuol essere nuovi bisogna esserlo anche sulle cose che contano: non basta mettere i giovani in lista, occorre anche cominciare a dire la verità.

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Walter Veltroni ha dato il via a un’autentica rivoluzione
di Francesco Verderami – Il Corriere della Sera, 15 febbraio 2008

→  febbraio 15, 2007


di Mattia Feltri

Nel nuovo libro di Andrea Romano la parabola di tre ex ragazzi tra divisioni e ripensamenti. Come quello di Veltroni che da giovane criticava il kennedismo e inneggiava a Mao
Ognuno col suo viaggio, ognuno diverso», scrive Andrea Romano a proposito di Massimo D’Alema, Piero Fassino e Walter Veltroni, e citando il poeta – cioè Vasco Rossi – che per il cognome, da un certo punto in poi, è l’elemento più ortodosso rimasto in campo. Nella sua ribalderia, Romano ha perlomeno la grazia di omettere il verso successivo: «Ognuno in fondo perso dentro i c… suoi».

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→  gennaio 14, 2007

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di Barbara Spinelli

Come usare la parola riformista e quando: è tra i compiti più importanti che abbiamo di fronte, se si vuol riportar ordine nel linguaggio e salvare l’idea stessa di un miglioramento delle nostre democrazie. La parola in questione è adoperata in economia e nelle questioni etiche, in politica internazionale e nelle scelte di pace e guerra. Il suo uso è divenuto a tal punto smodato, dilagante, che un dubbio è lecito: forse il riformismo attraversa una crisi grave, che i sedicenti riformisti occultano con le loro grida. Forse è divenuto l’alibi di chi non sa più pensare in profondità le trasformazioni. Forse nasconde tentazioni utopistiche che ieri contrassegnavano i rivoluzionari. Ci sono parole che sono come governate dalle Erinni, divinità della vendetta: riappaiono e dilagano quando il loro significato si snatura, o s’ingarbuglia sino a svanire. Hanno un’esistenza simile a quella delle persone, fluttuante e fragile: non a caso i greci antichi personalizzavano concetti e cupe passioni, aggiungendo nuovi dèi agli abitanti dell’Olimpo. Un destino analogo è capitato a parole come identità, liberazione, diritti umani, memoria. Sono vocaboli che andrebbero usati con parsimonia estrema, per proteggerli. In attesa della loro resurrezione si potrebbe ricorrere a termini supplenti. La pulizia della politica e della mente comincia sempre con una pulizia delle parole più sciupate dall’uso.
L’Italia non è l’unica a esser affetta da questa sindrome, e l’economia non è l’unico terreno che vede ingarbugliarsi il concetto di riforma. Falsi riformisti son presenti ovunque, con personalità forti.
Son presenti in Germania, dove il riformismo s’accumula spesso senza costrutto e produce una malattia chiamata Reformitis. Hanno dominato per anni la politica americana, influenzando la sua politica estera e l’offensiva contro lo Stato sociale annunciata dalla Rivoluzione repubblicana. In Italia si son moltiplicati da quando Prodi ha formato la sua coalizione e vinto le elezioni. Chi è riformista si sente sperduto e inerme, di fronte alle difficoltà del centro-sinistra. Ha l’impressione di non esser ascoltato e ama descrivere se stesso come solitario errante, sempre sull’orlo di divenire un perdente, anche quando una vasta maggioranza di giornali lo sostiene. Ogni mossa governativa viene esaminata alla luce di questa battaglia fraseologica (il riformista dice raramente le riforme concretamente fattibili) e perderla è un sottile motivo di gloria se non di piacere. Perché chi perde è vittima, e chi è vittima non ha responsabilità: è come se avesse una fedina penale assolutamente pulita, e gli fossero dovuti un risarcimento o una caparra o un monumento.
Il riformista italiano non ha quasi nessuna caratteristica che lo apparenti al riformatore autentico. Non possiede la pazienza di quest’ultimo, né la sua umiltà. Ha fretta di giungere allo scopo che si prefigge, come Orfeo che nella poesia di Rilke vorrebbe salvare Euridice ma guarda innanzi a sé colmo d’impazienza, e «divora la strada col suo passo a grandi morsi, senza masticarla». Masticare la strada è fare sul serio riforme, pagarne il prezzo, divenire vulnerabile, mettersi in gioco e non tenersi in riserva per fantasticate missioni di salvataggio. Il falso riformista non si sporca le mani e se possibile resta fuori dal gioco; consiglia riforme impopolari ma teme in realtà l’impopolarità come la peste. Il più delle volte sceglie lo scranno del commentatore: i giornali sono ghiotti di esporlo in vetrina perché in tal modo diventano essi stessi attori della politica. Ma ci sono anche le volte in cui il riformista opera dal di dentro, condividendo col riformista esterno il fato di vittima. Luigi La Spina lo ha descritto bene su questo giornale, dopo Caserta: «I riformisti di Margherita e Ds non possono far finta di aver perso quando non hanno mai combattuto, se non tra di loro». E la guerra non è stata tra estremisti e moderati ma tra Ds e Margherita attorno a chi, liberalizzando per primo, possa definirsi più riformista dell’altro.
I riformisti frettolosi godono di alcuni vantaggi considerevoli. Come commentatori godono dell’impunità, perché non son costretti a fare e nemmeno a rispondere di quel che scrivono. Non devono dare dimostrazioni pratiche della propria presunta superiorità, perché molti di loro sono in riserva e non giocano ancora. Non pagano prezzi, perché la loro influenza non è costruita sulle servitù dell’azione. Essendo sempre potenzialmente perdenti possono denunciare gli impedimenti che nascono da continui complotti radical-conservatori, di Rifondazione o Diliberto. Se solo potessero governare loro, tutto sarebbe più facile: di questo son sicuri. Ma non possono (forse non vogliono) provarlo, e proprio quest’impossibilità li rende invulnerabili. Possono contraddirsi senza timori, possono difendere il bipolarismo e al tempo stesso auspicare governi centristi di volenterosi, che escludano i radicalismi. Usano l’estrema sinistra come alibi della propria inconsistenza. In Italia sono oggi assai numerosi e spesso si comportano come se la sconfitta di Berlusconi fosse una sciagura. Nei dettagli delle riforme non entrano, perché la loro vera natura è rivoluzionaria. Solo i rivoluzionari danno priorità allo scopo finale, rispetto alla strada che deve esser pazientemente battuta. I falsi riformisti hanno qualcosa di giacobino, di utopistico, decretano presto la morte di una leadership, e in questo somigliano non poco ai falchi della rivoluzione liberista americana e della guerra in Iraq.
In un articolo su Foreign Policy, l’economista-psicologo Daniel Kahneman (premio Nobel 2002) e il politologo Jonathan Renshon si domandano come mai, nella storia politica e umana, i falchi finiscano quasi sempre col prevalere sulle colombe. Hanno la meglio perché posseggono pregiudizi più forti, opinioni inflessibili, e soprattutto illusioni più semplificatrici. Si nutrono di preconcetti non dimostrati e tanto più persuasivi. Primo, il preconcetto a proposito dell’avversario, giudicato fondamentalmente ostile. Secondo, il preconcetto che nasce da un ottimismo sconfinato, cui Kahneman e Renshon danno il nome di «illusione di controllo»: i falchi son convinti di essere più bravi, più brillanti, più attraenti della media. A volte lo sono, come avvenne nella guerra contro Hitler. Ma spesso il loro primato è un vizio: il vizio di chi sopravvaluta i propri successi, esagera il controllo che può avere sugli eventi, nasconde le debolezze dell’avversario o rivale. Il falco è convinto di vincere la guerra in Iraq allo stesso modo in cui il falso riformista in Italia è convinto che – se solo comandasse lui – le riforme si realizzerebbero tutte e subito.
Per capire la natura del vero riformista conviene risalire il tempo, e ricostruire il dibattito che divise la socialdemocrazia tedesca tra la fine dell’800 e il ’900. Eduard Bernstein ruppe con Karl Kautsky e Rosa Luxemburg su questi temi, preferendo la via riformista e revisionista. Disse che per lui il fine era meno importate del movimento che portava al fine: «Il movimento è tutto, il traguardo finale mi interessa di meno». Tra riforme e rivoluzione scelse le riforme, e ne precisò la natura. Nello sviluppo legislativo lento, elastico, egli vedeva operare l’intelletto, mentre nella rivoluzione vedeva il sentimento. La riforma era un metodo graduale di trasformazione, mentre il metodo rivoluzionario era rapido, sbrigativo, condensato. È quel che indignò la Luxemburg, che accusò Bernstein di scartare l’«atto politico creatore» della violenza rivoluzionaria e di privilegiare il miglioramento delle condizioni vigenti, il mero «vegetare della società». Se si guarda agli argomenti dei nostri riformisti, l’impressione è che essi siano più vicini alla Luxemburg che a Bernstein. L’unica cosa che non possiedono, dei rivoluzionari, è lo slancio o l’abnegazione. Il falso riformista è un rivoluzionario cool, che nel frattempo ha gustato il trasformismo o la celebrità.
Chi riforma davvero non divora il cammino a grandi morsi, ma lo percorre piano e lo mastica. Sa che la via più dritta che conduce allo scopo è spesso quella più serpentina. Sa che l’umanità è un legno storto, che si riforma con lentezza, negoziando patti sempre nuovi. In fondo son più riformatrici le sinistre radicali, oggi, che i riformisti. Rifondazione e i suoi ministri si dibattono, promettono di ostacolare, ma fanno anche grandi sforzi per correggersi e correggere le storture italiane. Hanno accettato l’intervento militare in Libano, hanno consentito a sacrifici non indifferenti in economia. Il cammino che compiono con Prodi è unico in Europa.
Torniamo a Orfeo. Nella poesia i suoi sensi appaiono come divisi in due: mentre l’occhio corre in avanti come un cane, tornando indietro sui suoi passi e poi rimettendosi a correre lontano per attenderlo alla prossima svolta, «l’udito restava, come un odore, indietro». Riconnettere lo sguardo all’udito – la visione del traguardo all’esperienza del cammino – è uno dei primi passi, se si vuol restituire al riformismo il significato sciupato.

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Riformisti: nodo politico non semantico
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→  gennaio 11, 2007

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Con le sue “Osservazioni critiche” (Corriere della Sera, 8 Gennaio), Nicola Rossi risponde agli interrogativi suscitati dalla sua decisione di uscire dai DS: perché attacca Fassino se il suo bersaglio è il Governo? rimpiange la stagione del primo governo D’Alema o prefigura quella dei “volenterosi”? non si rende conto che la prima vittima della sua uscita è il Partito Democratico?

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→  settembre 17, 2006

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di Tito Boeri

Dopo aver seguito in questi giorni le animate conferenze stampa della nostra fitta delegazione, i cinesi si stanno probabilmente chiedendo che razza di Paese sia l’Italia. Loro se ne intendono sia di affari che di intervento dello Stato in economia. E hanno ascoltato una sequenza di notizie alquanto sorprendenti. Primo, il manager del più grande gruppo italiano (anche per numero di consulenti ed advisors) rimane in sella per cinque anni pur a fronte di risultati deludenti, se non addirittura disastrosi come nei media, e di un indebitamento al di sopra della media del settore.
Secondo, questo numero uno rinnega, con l’approvazione unanime del consiglio di amministrazione, la promessa fatta agli azionisti sul prospetto informativo depositato solo un anno e mezzo fa. I risparmiatori, tra cui forse anche qualche cinese emigrato in Italia, hanno mestamente assistito negli ultimi 5 anni al dimezzamento del valore del titolo in Borsa credendo nelle «sinergie» e nella «creazione di valore» associata all’integrazione fra fisso, mobile, Internet e media. Apprendono ora, tutto d’un colpo, che il valore si crea invece solo spaccando in due, anzi in tre, l’azienda.
Terzo, il nostro governo, impegnato a convincere uomini d’affari cinesi a investire in Italia e le autorità di Guangdong a fidarsi di noi, divulga nei minimi particolari i contenuti di trattative riservate in corso tra Telecom e altre aziende.
Quarto, il nostro premier confessa di essere del tutto all’oscuro della vicenda, nonostante vi sia, tra i suoi consiglieri, chi ha preparato piani di riassetto dell’azienda in puro stile banca di investimento (termine tradotto in italiano perché, come è noto, nella merchant bank di Palazzo Chigi non si parla l’inglese).
Quinto, il numero uno di cui sopra si dimette, motivando la sua scelta non tanto in base ai pessimi risultati dell’azienda quanto alle interferenze del governo, e il consiglio sempre all’unanimità chiama l’uomo della provvidenza, attualmente alla guida della Federcalcio. In effetti, i cinesi hanno potuto in questi giorni toccare con mano la Coppa del Mondo esibita negli stand dell’Ice a Canton. Ma non c’era bisogno di questo per convincerli che il rosso, declinato al plurale, è sinonimo di successo.
Probabilmente i cinesi, nelle prossime settimane, avranno altro di cui occuparsi. Non potranno dunque acquisire quelle ulteriori informazioni, che forse potrebbero dare un senso a vicende apparentemente incomprensibili. Siamo il Paese in cui si lasciano sempre trapelare i segreti, basta che siano quelli degli altri. Quindi tranquillizziamoci: prima o poi, sapremo tutto. Ma una cosa è chiara sin d’ora, anche ai cinesi che sono maestri nel fare e disfare scatole e nello stare in mezzo al guado, fra Stato e mercato.
Se avessimo un capitalismo maturo e una classe politica che ha una cultura economica (prima ancora che di mercato) adeguata, probabilmente nulla di tutto ciò sarebbe avvenuto. Non avremmo catene di controllo bizantine, per cui gli utili di un’azienda che continua a macinare profitti nella telefonia mobile grazie alla scarsa (altro che eccessiva!) regolazione del settore, non vanno ad abbattere l’indebitamento, ma affluiscono ai piani alti della catena. Non avremmo neanche manager-padroni che possono sopravvivere, nonostante i loro palesi errori, ai posti di comando per quelli che nei mercati finanziari sono tempi biblici. Avremmo invece più concorrenza nelle telecomunicazioni e prezzi più bassi per gli utenti, il vero interesse nazionale, mentre il maggior gruppo italiano sarebbe un conglomerato con azionariato diffuso, controllato da un manager con una piccola quota. Non avremmo neanche personale nella cabina di regia con smanie di protagonismo, che vogliono intervenire in prima persona nella vita di un’impresa privata, anziché limitarsi a regolare e far leggi che assicurino che i piccoli azionisti abbiano voce in capitolo. Non avremmo progetti, comunque maturati non lontano dalle stanze dei bottoni, in cui torna in auge una creatura, assai popolare nella scorsa legislatura, come la Cassa Depositi e Prestiti, per rinazionalizzare la rete telefonica. Non vi sarebbe neanche chi al governo, per fortuna non tra i ministeri economici, chiede l’utilizzo della golden share, come se fossero in gioco gli «interessi vitali» del Paese. Di vitale per il Paese c’è in questa vicenda solo la credibilità internazionale. Bene salvaguardarla, a tutti i livelli.

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