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→  aprile 17, 2010


TOGLIERE LA MENSA SCOLASTICA A UN BAMBINO E’ SEMPRE UN’INGIUSTIZIA, PERCHE’ NON SI PUO’ FAR CARICO A LUI DEI COMPORTAMENTI DEI SUOI GENITORI, PER QUANTO SCORRETTI – MA IN MOLTI ALTRI CASI IL RISCHIO DI DIFENDERE INDEBITAMENTE POSIZIONI DI RENDITA PARASSITARIA DEVE ESSERE ATTENTAMENTE CONSIDERATO E LA SOLUZIONE DEL PROBLEMA ETICO-POLITICO NON E’ ALTRETTANTO FACILE

Editoriale di Andrea Ichino su La Stampa del 17 aprile 2010

Di fronte a bambini messi alla berlina in mezzo ai loro compagni solo perché i loro genitori non hanno pagato la retta della mensa o dello scuola-bus, è naturale gridare all’ingiustizia. E il motivo è che quei bambini non sono certo responsabili di questa situazione. Ma proprio questo motivo ci invita ad una riflessione su quali siano le situazioni in cui è opportuno che la collettività si faccia carico dello stato di indigenza e povertà dei suoi membri e quali invece quelle in cui l’assicurazione sociale può diventare uno strumento che finisce per proteggere rendite parassitarie.

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→  novembre 13, 2009


di Luca Ricolfi

Non so se il mondo sia di destra, nè se stia diventando più di destra di prima: a occhio e croce direi che il mondo ha altri problemi, e se ne infischia delle dicotomie che piacciono tanto a filosofi e politologi. Quanto a “noi” io non sono affatto nato di sinistra, ma lo sono diventato a un certo punto, alcuni anni dopo essere diventato juventino (l’unica identità che considero, purtroppo, irreversibile).

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→  febbraio 24, 2009

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di Alberto Bisin

In questi giorni si parla sempre più con insistenza di nazionalizzare le banche. Negli Stati Uniti hanno preso posizione a favore di una qualche forma di nazionalizzazione una gran parte degli economisti, sia keynesiani che liberisti, da Paul Krugman ad Alan Greenspan. Ma anche in Italia grande eco è stata data alle parole del presidente del Consiglio, che sembravano voler preparare il Paese a una discussione sulla questione. Purtroppo la parola «nazionalizzazione » genera reazioni emotive violente: evoca il sol dell’avvenire in alcuni e la collettivizzazione forzata e i kulaki in altri.

Per comprendere di cosa si stia discutendo è necessario tornare alla razionalità economica. Negli Stati Uniti quando si parla oggi di nazionalizzazione delle banche si intende la seguente operazione finanziaria.

Il Tesoro acquista una quota di maggioranza del capitale di alcune grosse banche in difficoltà, scorpora le attività tossiche dai loro bilanci, e infine favorisce l’immissione nelle banche stesse di capitale fresco privato, a nuovi prezzi di mercato. La nazionalizzazione è in effetti un controllo temporaneo delle banche, per favorirne la ricapitalizzazione privata: una pura operazione di mercato che si può concludere brevissimamente, nel giro settimane o mesi, non anni. Se il prezzo a cui il Tesoro acquista le partecipazioni nelle banche è inferiore al prezzo a cui le vende alla fine dell’operazione, i contribuenti ne ricevono un profitto. Coloro che si oppongono a questa operazione, come ad esempio Francesco Giavazzi sul Corriere della sera di ieri l’altro, argomentano che i prezzi di mercato cui il Tesoro acquisterebbe oggi sono troppo bassi, inferiori al «valore reale» delle banche stesse. E che quindi il governo dovrebbe sì acquistare, ma a un prezzo sopra mercato. Ma è sempre pericoloso in economia distinguere il «valore» dal prezzo di mercato: le banche sono quotate in Borsa; se gli azionisti pensano che esse siano sottovalutate non hanno che da comprare nuove azioni, invece di vendere quelle che già possiedono come stanno facendo. Nessuno gli vieta di farlo. Perché invece costringere i contribuenti a pagare un prezzo superiore al mercato e così sussidiare gli azionisti delle banche?

Su queste colonne ho preso posizione contro le politiche di stimolo fiscale keynesiane, contro la sindacalizzazione della scuola e dell’università, contro la «nazionalizzazione » di Alitalia (questa sì una nazionalizzazione, anche se presentata come una privatizzazione). Non sono certo uno di quelli che pensano che questa crisi segni la fine del capitalismo e che sia finalmente giunto il momento eroico del socialismo. Ma l’operazione finanziaria che i detrattori chiamano «nazionalizzazione » è l’intervento che mi pare più desiderabile oggi dal punto di vista della razionalità economica.

Ciononostante, la «nazionalizzazione» delle banche comporta un problema fondamentale: manca la garanzia che il controllo del Tesoro sia davvero temporaneo. Questo è un problema perché lo Stato è pessimo banchiere, perché la politica fatica a rilasciare il potere, e perché poche attività economiche concedono più potere che non il controllo dei mercati finanziari. Nel caso degli Stati Uniti, Paese con un sistema politico aperto, un’economia di mercato ben sviluppata, e una larga parte dell’opinione pubblica dalle provate preferenze anti-stataliste, non c’è molto da preoccuparsi. Non è così per l’Italia, purtroppo. A differenza di quella americana, infatti, l’economia italiana è caratterizzata da poco mercato e molte rendite. E l’opinione pubblica e la classe politica del nostro Paese si distinguono in una sinistra statalista e una destra corporativista.

L’Italia ha anche una lunga tradizione di controllo politico dei mercati finanziari e un diretto precedente storico: la nazionalizzazione «temporanea» delle banche negli Anni 30, che ci ha portato l’Iri e l’Imi fino agli Anni 90. Proprio a questo precedente storico si può ricondurre tanta parte dell’arretratezza economica italiana prima e dopo la guerra. Ma l’esperienza fallimentare del ruolo dello Stato nello sviluppo industriale in Italia, attraverso anche il controllo delle banche, non pare aver generato sufficienti anticorpi nell’opinione pubblica e nella classe politica, nemmeno in quella «liberale». Venerdì scorso ad esempio sono apparsi su Libero due articoli fortemente elogiativi dell’esperienza delle nazionalizzazioni delle banche degli Anni 30, con annesso accostamento di Berlusconi a Mussolini.

Non oso nemmeno pensare che sia l’esperienza di Beneduce e dell’Iri che il presidente del Consiglio ha in mente quando parla di nazionalizzare le banche.Ascanso di equivoci, poiché «a pensar male si fa peccato, ma…», sarebbe bene che ogni operazione finanziaria di questo tipo, in Italia, fosse accompagnata da chiare garanzie contrattuali sulla temporaneità del controllo di Stato. Dormiremmo meglio la notte.

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→  febbraio 4, 2009

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di Gian Carlo Caselli

Molto si è scritto sul tema delle intercettazioni. In particolare sugli emendamenti del governo al progetto di legge ancora in discussione. Si sa, quindi, che mentre per mafia e terrorismo le intercettazioni richiederanno «sufficienti indizi di reato», per tutti gli altri delitti (dalla rapina all’omicidio, dal traffico di droga allo stupro, dalla corruzione all’aggiotaggio) occorreranno «gravi indizi di colpevolezza»: si potranno disporre intercettazioni solo se saranno già accertati i colpevoli. Ma se si conoscono i colpevoli, manca l’altro requisito richiesto dagli emendamenti (l’intercettazione è data «quando è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini»), per cui l’intercettazione non sarà mai data. Escluso il perimetro mafia-terrorismo, bloccando le intercettazioni in tutti gli altri casi, si sacrifica la sicurezza dei cittadini, la possibilità stessa di difenderli efficacemente dalle aggressioni d’ogni sorta di pericolosa delinquenza. Conviene?

Ma c’è un altro punto degli emendamenti governativi di cui meno si è parlato, mentre presenta anch’esso profili d’incongruenza: la disposizione relativa ai procedimenti contro ignoti, per i quali l’intercettazione dev’essere richiesta «dalla persona offesa, sulle utenze o nei luoghi nella disponibilità della stessa, al solo fine di identificare l’autore del reato». Prendiamo un caso tipico, il sequestro di persona a scopo di estorsione. Il sequestrato non potrà chiedere l’intercettazione del suo telefono; semmai lo potranno fare i familiari. Ma questi, per tutelare l’integrità del loro caro, potrebbero avere interesse a vedersela direttamente coi sequestratori con una trattativa privata, baipassando la polizia e la magistratura (soprattutto nei casi «di sequestri mordi e fuggi»). In tal modo sarebbe rimessa alla discrezionalità di un privato, scosso dal delitto che ha colpito la famiglia, la difficile scelta se mettere o no sotto controllo i suoi telefoni, che all’inizio dell’indagine sono di solito l’unica strada per non brancolare nel buio.

Anche le estorsioni danno quasi sempre vita, all’inizio, a procedimenti contro ignoti (pensiamo all’incendio doloso d’un negozio o cantiere, presumibile opera di un racket, che spesso non è mafia). La vittima, specie quella (statisticamente frequente) che fa di tutto per escludere ogni riferibilità a estorsioni, si guarderà bene dal chiedere che il suo telefono sia messo sotto controllo. Magari perché bloccato dalla paura degli estortori (che conosce o intuisce chi possano essere). Di nuovo: una scelta difficile, che potrebbe aprire l’unica via possibile all’accertamento della verità, rimessa a un privato. Mentre ci sono in giro gruppi di balordi o bande che praticano estorsioni e sequestri, delinquenti che occorre neutralizzare nell’interesse della sicurezza generale, oltre che dei singoli soggetti coinvolti (facilmente ricattabili dai delinquenti con minacce di ritorsioni in caso di collaborazione con le autorità). Può poi accadere che si sospetti qualcosa che porta all’ambiente di lavoro del sequestrato o dell’estorto (tipico il caso del dipendente infedele «basista»), ma senza la richiesta della vittima niente intercettazioni «nei luoghi di sua disponibilità». Non credo di esagerare dicendo che tanti gravi delitti potranno essere di fatto agevolati. Muovere in questa direzione, con il tanto parlare che si fa di sicurezza e tolleranza zero, mi sembra a dir poco paradossale.

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Caro Direttore,

per trovare basi razionali alla discussione sui limiti da porre alle intercettazione per evitarne gli abusi, Luca Ricolfi, sulla Stampa di sabato, riconduce il problema a quello di trovare una soluzione ottimale che tuteli “le tre libertà che ci stanno a cuore, non essere spiati, venire informati, essere sicuri”. Soluzione ottimale e dunque non assoluta, tra esigenze tutte legittime.

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→  febbraio 1, 2009

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Intervista a Saverio Borrelli

Almeno a Milano i numeri gli danno ragione. In tre anni le intercettazioni telefoniche sono diminuite quasi della metà, nel 2006 ne erano state fatte quasi seimila, l’anno scorso sono scese a poco più di tremila. Tra i tanti soddisfatti, a sorpresa c’è pure Francesco Saverio Borrelli, l’ex capo della procura oggi in pensione, l’ex magistrato a capo del pool di Mani pulite che pure ieri non ha voluto mancare all’inaugurazione dell’anno giudiziario: «Non si può fare a meno delle intercettazioni telefoniche, ma la magistratura deve fare un’esame di coscienza e avrebbe dovuto autolimitarsi».

Dottor Borrelli, non teme di diventare impopolare tra i suoi colleghi di un tempo? Molti di loro temono di essere imbavagliati a non poter più mettere telefoni sotto controllo…

«Io mi considero ancora appartenente alla magistratura e seguo le vicende giudiziarie con lo stesso spirito e rigore autocritico che avevo quando esercitavo la professione. Può darsi che la mia posizione sia impopolare. Ma bisogna essere autocritici. Non bisogna privare magistrati e forze di polizia di questo strumento di indagine ma probabilmente una riforma era inevitabile. Era necessario autolimitarsi».

Detto da lei sembra una critica ai suoi ex colleghi, accusati molto spesso di essere troppo appiattiti sui risultati che possono venire dalle intercettazioni telefoniche. E’ così?

«Assolutamente no. Non penso che i magistrati abbiano delegato la loro capacità di indagine alle sole intercettazioni. Ma è vero che qualche volta, con la speranza di di riuscire a trovare elementi a supporto delle indagini, si sono protratte a tempo indeterminato delle intercettazioni che invece andavano sospese molto prima. Magari dopo dopo tre o quattro settimane, visto che non portavano a nulla di concreto per le inchieste».

Secondo lei sono stati compiuti degli abusi?

«Non voglio parlare di abuso. Preferisco dire che c’è stato un eccesso. Un’eccessiva facilità in buona fede, nel protrarre a tempo indeterminato le intercettazioni».

Concede la buona fede anche al vicequestore Gioacchino Genchi e ai suoi dossier?

«Il suo è un archivio fatto per proprio conto. Non c’entra nulla con le intercettazioni. E’ un’altra cosa, fatta da un libero professionista, sfuggita ad ogni controllo».

Ma come si fa a concedere sei mesi per di più prorogabili per condurre le indagini e limitare ad appena sessanta giorni la possibilità di tenere sotto controllo i telefoni?

«Sessanta giorni sono un tempo intermedio che è stato trovato tenendo conto di tutte le esigenze. Nella limitazione dei tempi per le intercettazioni vanno ovviamente salvaguardati due principi».

Uno è quello che le indagini in corso non possono essere vanificate…
«Ovviamente deve essere salvaguardato il principio dell’efficacia delle indagini. Lo strumento delle intercettazioni è fondamentale per la magistratura e le forze di polizia. Va limitato ma non si può prescindere dal suo utilizzo in molte indagini. Ma c’è un altro principio fondamentale che deve essere salvaguardato allo stesso modo: è la tutela della privacy del cittadino, il rispetto della sua riservatezza. E’ chiaro che ci sono delle eccezioni a questo discorso».

A cosa si riferisce?

«Nel caso di un sequestro di persona in corso, è giusto andare avanti: non ha senso limitare l’utilizzo di uno strumento fondamentale a quel tipo di indagini, come sono le intercettazioni telefoniche».

All’origine delle polemiche degli ultimi tempi, ci sono i verbali di alcune intercettazioni non proprio utilissime alle indagini finiti sui giornali…

«Non ho mai avuto il gusto di buttare la colpa sugli altri ma il mondo dell’informazione in questo caso qualche responsabilità ce l’ha. Se i magistrati devono autolimitarsi come ho detto, forse anche i giornalisti devono porsi qualche limite».

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