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→  gennaio 31, 2009

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di Luca Ricolfi

Sulle intercettazioni gli altolà al governo si sprecano. Ieri, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, sono intervenuti nientemeno che il Procuratore generale della Cassazione (Vitaliano Esposito), il primo presidente della Cassazione (Vincenzo Carbone), il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura (Nicola Mancino), il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Luca Palamara). Nei giorni scorsi era già intervenuto il presidente della Corte Costituzionale (Giovanni Maria Flick). Tutti, in un modo o nell’altro, hanno espresso preoccupazioni per le possibili conseguenze del disegno di legge governativo. Sono fondate tutte queste preoccupazioni? Dipende dal bene che si intende tutelare.

Se il bene è il diritto alla privacy, le preoccupazioni sono ovviamente infondate, perché il disegno di legge – limitando i casi in cui si può intercettare e pubblicare – ha precisamente lo scopo di aumentare le garanzie dei cittadini in materia di privacy e segretezza delle comunicazioni, garanzie esplicitamente previste dalla Costituzione (art. 15) ma di fatto sospese ogni qual volta il superiore interesse delle indagini autorizza i magistrati a usare l’arma impropria delle intercettazioni.

Se il bene da tutelare è il diritto all’informazione le cose si fanno più complicate. Indubbiamente le norme di cui si discute limitano gravemente il diritto dei cittadini a essere informati tempestivamente sul corso delle indagini, anche se si potrebbe obiettare che attualmente, quando scoppia uno scandalo, quella che viene fornita dai mezzi di comunicazione di massa è tutto tranne che un’informazione accurata, imparziale, completa. Detto altrimenti: la scelta effettiva non è fra sapere e non sapere, ma fra sapere solo dopo l’inizio del processo (come vorrebbe il governo), o avere fin da subito dei frammenti arbitrari di informazione – talora utili, talora fuorvianti – come oggi accade.

Se infine il bene da tutelare è il diritto alla sicurezza dei cittadini le preoccupazioni espresse dalle maggiori cariche dell’ordine giudiziario mi paiono pienamente giustificate. Non v’è dubbio, infatti, che la drastica riduzione delle possibilità di intercettare prevista dal disegno di legge governativo in molti casi diminuirà la possibilità di scoprire e punire i colpevoli di reati.

È inutile pensare che ci sia una posizione giusta, o una soluzione ottimale. Le tre libertà che ci stanno a cuore – non essere spiati, venire informati, essere sicuri – non possono essere tutelate tutte e tre contemporaneamente e nella stessa misura. La drastica limitazione delle intercettazioni che si profila all’orizzonte rafforzerà la nostra privacy, ridurrà le nostre informazioni (non necessariamente vere, ma pur sempre informazioni), diminuirà la nostra sicurezza. Se teniamo più alla privacy che alla sicurezza possiamo anche rallegrarci con il governo, se teniamo più alla sicurezza che alla privacy non possiamo che condividere le preoccupazioni dei vertici della magistratura.

Personalmente mi sento più in sintonia con le preoccupazioni dei magistrati che con gli improvvisi aneliti libertari del governo. Vorrei aggiungere un’osservazione, però. Le obiezioni dei magistrati sarebbero più convincenti se essi, oltre a ripetere a iosa la verità – e cioè che senza intercettazioni moltissimi colpevoli non verrebbero individuati -, mostrassero di rendersi conto che gli abusi ci sono stati, ci sono, e un qualche mezzo per limitarli andrà comunque trovato. I dati sulle intercettazioni non sono molti e non sono di grande qualità, ma quei pochi di cui disponiamo ci permettono di dire alcune cose.

Nei due periodi per cui esistono dati relativamente omogenei, ossia il quinquennio 1992-1996 e il settennio 2001-2007, il numero di intercettazioni è esploso: nel primo periodo sono più che raddoppiate, nel secondo sono più che quintuplicate. Una parte di questo aumento si può giustificare con l’aumento dei delitti, un’altra parte con la crescita del numero di utenze a persona, ma siamo sicuri che una parte non sia dovuta al fatto che l’intercettazione è semplicemente il mezzo più comodo (e anche più economico, checché ne dicano i suoi detrattori) per raccogliere prove?

Le intercettazioni possono sembrare poche se commisurate al numero totale dei procedimenti (una statistica spesso astutamente usata dai magistrati per minimizzare il problema) ma non sono affatto poche se le commisuriamo al numero di procedimenti penali, e peggio ancora se le commisuriamo ai procedimenti per reati che le autorizzano (non tutti i reati sono intercettabili).

Infine, la distribuzione territoriale. Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2007, mostrano che nei 29 distretti di corte d’Appello in cui è diviso il territorio italiano la propensione a intercettare ha una variabilità enorme: il distretto che intercetta di più lo fa 13-14 volte di più di quello che intercetta di meno. E anche all’interno delle grandi zone geopolitiche le differenze sono enormi, con distretti meridionali che intercettano 10 volte di più di altri situati nella medesima area geografica.

Insomma i magistrati hanno ragione, ma sembrano vedere solo una faccia della Luna. Quanto alle forze politiche principali, la mia impressione è che nessuna di esse abbia intenzione di trovare un compromesso ragionevole. Con un singolare scambio di ruoli, il centro-destra si fa paladino della privacy, e in questo improvviso afflato libertario si trascina dietro il drappello dei radicali; mentre il Pd, con Veltroni, ribadisce una linea già espressa nel programma elettorale: «La nostra posizione è per la massima libertà di intercettare, evitando però che il contenuto delle telefonate finisca impropriamente sui giornali, e questa è una posizione del Pd e anche, vorrei ricordarlo, dell’Italia dei valori».

Così il governo cerca di nascondere che le sue proposte produrranno più criminalità, il Partito democratico sembra non comprendere il grave vulnus alla libertà che l’esistenza stessa delle intercettazioni comporta. Il primo vincerà perché ha i numeri, il secondo si salverà l’anima votando contro. A noi spettatori resterà solo un dubbio: perché il Partito democratico non confluisce nell’Italia dei valori?

ARTICOLI CORRELATI
Le tre libertà. Chi paga di più il compromesso
di Franco Debenedetti – La Stampa, 03 febbraio 2009

Se si conosce il colpevole a che serve intercettare?
di Gian Carlo Caselli – La Stampa, 04 febbraio 2009

Le Intercettazioni?
Intervista a Saverio Borrelli – La Stampa, 01 febbraio 2009

→  dicembre 5, 2008

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Lettera

Caro direttore,
va da sé che sarei favorevolissimo se Torino, come ho letto, «vendesse i suoi gioielli». Il Regio, lo vedo dal balcone di casa; il Politecnico l’ho fatto quando era ancora al Valentino; forse un mio antenato avrà contribuito a raggranellare i soldi per Alessandro Antonelli: non bastarono a terminare il Tempio Israelitico, ma servirono di base per innalzare la Mole fino alla sua stella.

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→  novembre 30, 2008


di Emanuele Macaluso
In democrazia c’è sempre la rivincita

Non so se si nasce di sinistra. Tanti che di sinistra erano ora sono di destra. E non so se negli anni in cui il fascismo trionfava, Matteotti, Gramsci, Pertini, Ernesto Rossi, Vittorio Foa, Giancarlo Pajetta e molti altri, si ponevano la domanda che retoricamente si pone Edmondo Berselli. Non credo. Eppure per le loro idee di sinistra furono uccisi o passarono tanti anni in carcere.

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→  novembre 13, 2008


di Luigi La Spina

Nei Sinistrati di Berselli la sconfitta di una fede

In Italia, se perde la destra, si tratta di un disguido. Un piccolo errore della storia o un grande broglio dell’urna. Se perde la sinistra, è la maledizione di un truce destino e la catastrofe di un’esistenza. Perchè nei pensieri di un conservatore, la rivincita è dietro l’angolo, in quelli di un progressista, la sconfitta è la naturale condizione di un errore genetico: quello di essere nato dalla parte sbagliata della vita. Questo sentimento profondo dell’elettore di sinistra, nel nostro paese, sembra essere esploso in un urlo di vera disperazione dopo l’ultimo verdetto elettorale.
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→  ottobre 31, 2008


di Telmo Pievani
Con o senza Dio tutto è permesso, ma sembra proprio che la mente di Homo sapiens sia “nata per credere” in entità intenzionali sovrannaturali e in recondite finalità nascoste dietro i fenomeni naturali. Dati convergenti provenienti dalla psicologia dello sviluppo, dall’antropologia cognitiva e dalle neuroscienze suggeriscono l’esistenza di una programmazione biologica delle nostre menti per distinguere naturalmente le entità inerti (come gli oggetti fisici) da quelle di natura psicologica (come gli agenti animati) e per l’attribuzione o, in alcuni casi, l’eccessiva attribuzione di scopi e di intenzioni agli oggetti animati e inanimati.

Non è azzardato ipotizzare che queste nostre specializzazioni adattative possano essere alla base delle perplessità ingiustificate che molti nutrono nei confronti della teoria dell’evoluzione e più in generale delle spiegazioni scientifiche. Lo stesso Charles Darwin era rimasto colpito dall’efficacia comunicativa delle descrizioni finalistiche della natura che aveva letto in gioventù. Quando capì di avere scoperto un meccanismo, la selezione naturale, che rendeva superfluo il ricorso a qualsiasi “progetto” intenzionale per spiegare la nascita e l’evoluzione delle specie – compresa quella umana – fu subito consapevole che in questo modo stava contraddicendo non soltanto le credenze religiose creazioniste dell’epoca, ma anche modi molto comuni di pensare.

Gli esseri umani amano le spiegazioni basate sulle intenzioni, come se avessero un sensore sempre acceso per captare la presenza di propri simili o per prevedere le mosse di nemici esterni. Il disegno intelligente attrae perchè fa leva sulla docilità con cui siamo portati a fare inferenze riguardanti gli effetti dell’azione nascosta di un agente animato e intelligente. Questi sistemi cognitivi si sono evoluti successivamente per assolvere funzioni nuove, legate al nostro bisogno di spiegare attraverso storie e agenti invisibili i fenomeni incomprensibili o molto dolorosi che ci sovrastano, come la morte di un familiare o di un compagno.

Per affrontare tali fenomeni abbiamo ingaggiato le competenze cognitive che avevamo a disposizione, le abbiamo sfruttate e potenziate, divenendo autentiche “macchine di credenze”. La soddisfazione di bisogni psicologici, sociali e di comprensione del mondo è stata così forte da tramutarsi oggi in quel senso comune che la scienza talvolta si trova a dover scalfire, magari senza successo. Darwin lo scrive amaramente in una lettera all’amico Thomas Henry Huxley del 21 settembre 1871: “Sarà una lunga battaglia, anche dopo che saremo morti e sepolti… grande è il potere del fraintendimento”.

Le ragioni del successo popolare del disegno intelligente non sarebbero quindi legate soltanto alle patologie del credere, ma anche a una propensione al credere in “progettisti del mondo” che un pò tutti possediamo fin da bambini e che forse recuperiamo da vecchi. Attraverso le nostre inferenze intuitive circa l’esistenza di un progetto sottostante, cerchiamo di dare un senso alla realtà ripercorrendo a ritroso catene causali e finalità nascoste, indietro fino alla causa prima e al sommo progettista.

Il creazionismo risponde evidentemente a esigenze profonde, oltre che a interessi sociali e politici. I sondaggi statunitensi confermano che la dottrina del disegno intelligente gode di ottima salute e che continua a fare proseliti, anche nei campus universitari. La battaglia per promuovere l’insegnamento delle due “scuole di pensiero” alternative come se fossero sullo stesso piano – attraverso petizioni di genitori, campagne di stampa e altre iniziative di controinformazione e di pressione – può persuadere un governatore a legiferare favorevolmente, come è capitato ancora nel luglio del 2008 in Louisiana. Ciò che impressiona è che si tratta in questo caso di un politico molto giovane, di origine indiana, convertito al cattolicesimo. Come per Sarah Palin, candidata repubblicana alla vicepresidenza degli Stati Uniti dalle rocciose convinzioni filocreazioniste, siamo piuttosto lontani dal profilo antropologico del vecchio integralista evangelico della “cintura della Bibbia”.

Come scrisse Richard Dawkins in L’orologiaio cieco, “è quasi come se il cervello umano fosse stato specificatamente progettato per fraintendere il darwinismo e per giudicarlo difficile da credere”. Viceversa, comprendere che il processo evolutivo è frutto della casualità delle mutazioni, delle pressioni selettive di ambienti in continua trasformazione, di eventi contingenti che hanno deviato il corso della storia verso esiti imprevedibili richiede un investimento cognitivo molto più costoso.

Capire che un comportamento è il frutto (seppure indiretto) dell’evoluzione della nostra specie non significa che sia, per questo, giusto di per sè, nè che sia scolpito una volta per tutte nella pietra. Affermare che siamo nati per credere non significa offrire alcun alibi per manifestazioni di credenze irrazionali. Non significa che avere una fede religiosa sia più naturale che non averla, nè rassegnarsi all’idea che l’educazione scientifica debba per forza incontrare ostacoli cognitivi insormontabili. I fatti smentiscono queste conclusioni: i limiti di ragionamento e di giudizio non sono per nulla insuperabili solo perchè naturali.

Alcune ricerche comparative recenti fra studenti australiani, inglesi e statunitensi hanno mostrato infatti quanto possa essere determinante un’educazione scientifica precoce, coinvolgente e interattiva – possibilmente immersa in un contesto culturale favorevole – nel marcare le differenze di comprensione di nozioni scientifiche, in cosmologia come in biologia, fra studenti di paesi culturalmente simili. Ogni riferimento al caso italiano, dove al contrario si è deciso di abbattere la scure dei tagli proprio sull’unica scuola pubblica che non ci faceva sfigurare nelle classifiche internazionali, cioè la scuola primaria, è puramente casuale.

→  ottobre 22, 2008


di Nicla Panciera
“Dio è arrabbiato con l’America. È per questo che ci ha mandato una lunga serie di uragani. Sta cercando di punire il nostro Paese”. Parole dal sapore biblico, pronunciate dal sindaco di New Orleans, commentando le devastazioni dell’uragano Katrina e che scatenarono molte reazioni. A due anni di distanza, il dibattito sulle origini del pensiero religioso e sovrannaturale non si arresta. Anzi, sono sempre più numerosi i contributi della ricerca e delle neuroscienze. Infatti, sebbene esperienza religiosa e spiritualità siano profondamente soggettive e difficilmente definibili, rimangono fenomeni cerebrali con correlati fisiologici e strutturali e, quindi, indagabili sperimentalmente.

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