Banda larga: i 12 miliardi che frenano il super web

febbraio 15, 2010


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Gli alti costi hanno sinora impedito gli investimenti su Internet La via d’uscita? Un’iniziativa mista tra privati e soggetti pubblici

di Massimo Mucchetti

L’Autorità delle Comunicazioni preme su Telecom Italia affinché si impegni a costruire una rete di nuova generazione in banda larga che via via sostituisca la fibra ottica al vecchio cavo di rame. Ma l’ex monopolio guidato da Franco Bernabè fa orecchie da mercante, perché l’investimento non darebbe adeguati ritorni in tempi adatti a una società quotata e gravata da un debito rilevante, lascito di passate gestioni. Le tariffe A marzo, il collegio presieduto da Corrado Calabrò deve rivedere le tariffe che i concorrenti, privi di rete propria, pagano a Telecom per l’accesso all’infrastruttura fissa. Potrebbe essere questa l’occasione per ridefinire la remunerazione del capitale investito, oggi pari al 10,2%, che sta alla base della tariffa per l’accesso, qualora Bernabè continui a resistere.

Un taglio sarebbe un intervento maschio, capace di ricordare il Benito Mussolini che, davanti alla richiesta di una dote di 700 milioni di lire (correva l’anno 1933) avanzata dagli Agnelli e dai Pirelli per prendere la Sip, l’antesignana di Telecom, disse ad Alberto Beneduce: «Non diamogli niente; non se la meritano: sono solo dei gran coglioni».

Ma allora la spada del governo fascista difendeva un monopolio in grado di generare subito ingenti profitti, una volta depurato dalle precedenti speculazioni private. Oggi la situazione è diversa. Quale prospettiva industriale reale difenderebbe la spada del regolatore? Le condizioni La domanda può trovare risposta solo rispondendo a un’altra domanda: a quali condizioni diventa conveniente un massiccio investimento nella banda larga? In Giappone, Corea e Singapore, paesi con un’antica tradizione interventista, il governo ha molto aiutato. Ma anche in Australia lo Stato è entrato in partita. In origine, il governo di Canberra aveva proposto un finanziamento pubblico di 4,7 miliardi di dollari australiani (2,5 miliardi di euro) al soggetto privato che si fosse impegnato ad allacciare il 98% delle abitazioni e delle imprese alla banda larga ad almeno 12 Mbit al secondo. L’ex monopolio nazionale, Telstra, nicchiava e nessun altro presentava piani attendibili. E così, nell’aprile 2009, il governo prende in mano la situazione. Destina il finanziamento a una nuova società che avvia un programma di investimenti di 43 miliardi di dollari australiani (23 miliardi di euro) per posare banda da 100Mbit ovunque in 8 anni. La nuova società della rete è aperta ai capitali privati ma resterà a controllo pubblico fino al quinto anno dopo il termine dell’opera che sarà fatta usando anche l’infrastruttura civile di Telstra. Il caso italiano Il governo italiano invece si riempie la bocca di reti di nuova generazione, ma non ha ancora assegnato nemmeno la prima tranche degli 800 milioni di sussidi stanziati per i prossimi 5 anni, peraltro dedicati alle zone di digital divide.

Molti pensano che un pesante impegno del governo avrebbe un effetto keynesiano di stimolo dell’economia nell’immediato e migliorerebbe la competitività del Paese a più lunga gittata. Ma, con le tensioni in atto sul debito pubblico greco e spagnolo, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, non allenta la morsa del rigore. E Calabrò rischia così di dover tenere nel fodero il suo spadone. Le convenienza Dimostrare la convenienza di un’iniziativa interamente privata è arduo, specialmente in un paese dove il duopolio Rai-Mediaset, che usa le frequenze radio, ha impedito l’avvento della tv via cavo, che ora può fare anche servizi telefonici e, nei paesi dove c’è come la Germania, costringe l’ex monopolio a muoversi un po’, certo anche con una regolazione favorevole. L’equazione è complicata. Si tratta, in primo luogo, di ipotizzare quanto costi allacciare uffici, scuole e abitazioni a una rete di nuova generazione in fibra ottica. Più ci si allontana dalle concentrazioni urbane e più il costo sale. Per raggiungere la metà meno onerosa della popolazione, ad ascoltare gli operatori ed esperti come Sandro Frova, dell’Università Bocconi, si devono investire 12-13 miliardi, ma solo a patto di poter acquisire mano a mano la rete Telecom a prezzi frutto di contrattazioni e tali da assorbire gran parte dell’investimento. Ma così la rete nuova verrebbe posata senza troppe opere civili e andrebbe a sostituire la rete in rame, evitando che il vecchio, ancora sufficiente per molti, faccia concorrenza al nuovo, che serve alle parti più avanzate della società. In pratica, si copierebbe la tv che passa dall’analogico al digitale. Il peso pubblico Ora, remunerando al 6% il capitale investito, nell’ipotesi che sia per metà capitale di rischio e per metà debito, e considerando una vita utile della rete di 20 anni, la società della rete dovrebbe far pagare agli operatori un canone di circa 18 euro al mese per linea, più o meno il doppio delle attuali tariffe di unbundling , come in gergo si chiama l’affitto della rete.

L’operatore potrebbe pagare questo canone e avere un ritorno del 7-8% sul proprio capitale investito a patto di avere ricavi di una trentina di euro al mese per linea. Naturalmente, variando le assunzioni varia l’equazione. Ma basta osservare quanto oggi ricava dalla clientela Telecom Italia per linea in banda larga, circa 18 euro, per capire come il progetto non si possa sostenere da solo: combinazione, 18 euro sarebbero il mero canone per l’accesso dell’operatore alla banda larga. Vorrebbe dire che tutto quanto l’operatore ricava dalla gente lo gira alla rete. L’Australia ha superato la difficoltà con l’intervento pubblico, che si accontenta di un ritorno economico ancora più basso, nel presupposto che la banda larga, per quanto poco utile a una società di telecomunicazioni, possa esserlo, e molto, all’economia del Paese. L’Italia parla, ma è senza soldi.

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