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Archivio per il Tag »Massimo Mucchetti«

→  aprile 2, 2016


Sir, According to Massimo Mucchetti’s “proposal for Telecom Italia’s network” (Letters, March 29), all the “interested parties”, ie Telecom Italia, Enel and Metroweb, should “contribute their fixed networks” to a “New Company (NC) to be floated on an exchange”. Senator Mucchetti is keen to stress that his proposal is not to nationalise the network. However, he fails to provide further details: the terms and conditions at which the networks will be transferred to the NC and what the NC will charge for the use of network by the “interested parties”.

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→  giugno 30, 2015


Al direttore.

Per il senatore Mucchetti, in “singolar tenzone” col professore Giavazzi, sarebbe stato “il duopolio Rai-Mediaset che in Italia ha imposto di non avere la tv via cavo”. In realtà, alle prime prove, la tv via cavo venne, letteralmente, abbattuta al suolo: la legge 14 aprile 1975 numero 103 consente al solo concessionario di stato la posa di ogni e qualsiasi rete di telecomunicazione; qualche apertura ai privati doveva venire dal decreto legislativo del 22 marzo 1991 numero 73, del quale però il ministero mai redasse il regolamento attuativo. Cioè non abbiamo la rete via cavo perché poteva posarla solo la Stet: che ritenne bene non posarla. Poco prima, il presidente della commissione Attività produttive del Senato, senatore Mucchetti, aveva affermato: “La Telecom non ha fatto molto bene, l’Italia ha un’infrastruttura debole, l’azienda è molto indebitata, e fatica a andare avanti”. Dipendenti, clienti, azionisti, mercato, siete avvertiti, non dite poi che non ve l’avevan detto: autorevolmente.

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→  giugno 26, 2015


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Singolar tenzone fra l’interventista Mucchetti e il liberista Giavazzi sulla politica industriale ai tempi del governo Renzi. Dalla rivoluzione in Cdp al nuovo ruolo dello stato e del mercato

Due giorni fa, nella redazione del Foglio, si è svolto un forum con la partecipazione di Francesco Giavazzi, professore di Economia all’Università Bocconi ed editorialista del Corriere della Sera, e Massimo Mucchetti, senatore del Partito democratico. Il tema è quello della politica industriale del governo di Matteo Renzi, e in particolare dei recenti cambiamenti che stanno investendo la Cassa depositi e prestiti (Cdp). Proprio ieri il Consiglio di amministrazione della Cdp, riunitosi sotto la presidenza di Franco Bassanini, ha convocato l’assemblea in sede straordinaria e ordinaria per l’approvazione di modifiche statutarie concordate dai soci e per l’adozione di decisioni sugli amministratori. L’assemblea è stata convocata per il 10 luglio e il 14 luglio. Alla guida della cassaforte del Tesoro, secondo le indiscrezioni emerse finora, dovrebbero arrivare Claudio Costamagna (presidente) e Fabio Gallia (amministratore delegato).

Su questo e su molto altro si è ragionato a ruota libera tra Giavazzi e Mucchetti. Per il nostro giornale, a moderare, c’era Marco Valerio Lo Prete.

Il Foglio. Il senatore Massimo Mucchetti una volta, su queste colonne, ha definito la Cassa depositi e prestiti (Cdp), come quella “dotazione finanziaria che serve a reagire al Tradimento del Capitale” privato italiano. Il professor Francesco Giavazzi, sul Corriere della Sera, ha ipotizzato che, se è vero che la Cdp può investire solo in aziende sane, allora può fare quello che possono fare i privati, quindi tanto vale privatizzarla. La Cdp, nel 2015, serve ancora?

Mucchetti. La Cassa, in teoria, potrebbe essere liquidata, ma non privatizzata, perché i cinque sesti della sua raccolta sono garantiti dallo Stato. In pratica, credo che serva. Esiste anche in Francia, Germania, Spagna, Polonia, tutti paesi importanti. La Cassa dovrebbe investire, avendo il capitale necessario per farlo, nelle aziende che possono richiedere un supporto di questo genere per le ragioni più svariate.

Faccio un esempio: in Telecom, abbiamo avuto tutte le forme possibili di investimento da parte del settore privato, e il risultato è che la Telecom non ha fatto molto bene. L’Italia ha una infrastruttura debole, l’azienda è molto indebitata e fatica ad andare avanti. Il mio ragionamento non c’entra con il nazionalismo: si può immaginare pure una Telecom italiana che poi si sposa con la Orange francese e con la Deutsche Telekom tedesca, in modo da avere una stazza sufficiente a intavolare un negoziato serio con gli over-the-top; in un caso del genere, avere una presenza di rilievo, anche pubblica, dentro Telecom Italia, servirebbe a sedersi al tavolo con gli altri nelle stesse condizioni. Per dirne una. E Telecom non è un’azienda fallita, ma un’azienda in cui il capitalismo italiano ha fatto fallimento. Dall’altra parte, invece, abbiamo il caso dell’Ilva, dove c’è stato uno choc dovuto a un’emergenza ambientale e a indagini giudiziarie che hanno messo in ginocchio un’azienda altrimenti profittevole.

Senza impiccarsi alla formula del “Tradimento del Capitale italiano”, la mia impressione è che l’Italia abbia un mercato dei capitali povero, per tante ragioni. Preso atto di questo, bisogna cercare di offrire una soluzione pragmatica. Negli ultimi 6-8 anni, tutte le aziende di un qualche rilievo che hanno dovuto affrontare una transizione proprietaria, sono tutte state acquistate da investitori esteri. Non è un male che un investitore estero acquisti un’azienda italiana. Bisogna vedere caso per caso se c’è un progetto industriale, una solidità finanziaria, per dire se è bene o male. Ma se non c’è mai un soggetto italiano che si assume questo rischio, uno si domanda se l’Italia industriale, sulla grande dimensione, è capace o no di fare il suo lavoro.

Giavazzi. Io ho una preoccupazione più generale: che l’operazione del governo Renzi sulla Cassa depositi e prestiti abbia lo sguardo troppo breve e rivolto soprattutto a Ilva oppure a un’altra crisi come quella di Whirlpool, cioè che si voglia disporre di uno strumento affinchè lo Stato possa intervenire in queste situazioni. Il rischio quindi è che si faccia un passo dalla valenza istituzionale, cambiando lo statuto della Cdp, con l’obiettivo di risolvere una vicenda contingente. A mio parere bisogna invece partire da un’idea di quello che si pensa debba essere il ruolo dello Stato nell’economia.

Un economista si chiede: esistono dei “fallimenti del mercato”? Perché, se non esiste un fallimento del mercato, e il mercato funziona, allora non c’è bisogno di intervenire. Oggi, di fallimenti del mercato ne esistono molti, quindi ci sono molte occasioni per un intervento dello Stato nell’economia. Ma c’è un passo successivo: la maggior parte dei fallimenti del mercato si possono correggere con la regolamentazione, non con la proprietà pubblica. Le reti – quelle elettriche, del gas, la stessa banda larga – creano un’esternalità e devono essere ben regolate, perché c’è un problema di servizio universale e la necessità che non si trasformino in rendite monopolistiche per i privati che le posseggono. Ciò richiede autorità di regolamentazione forti. Non è richiesta la proprietà pubblica; la rete può essere tutta del Fondo sovrano di Singapore, ma se io ho una regolamentazione forte non c’è alcun problema. Quindi l’idea che lo Stato debba essere presente con la proprietà pubblica delle reti non è il modo corretto per correggere l’esternalità. E così in altri campi. Il problema italiano è che abbiamo una regolamentazione debole e oscillante. Il caso di Autostrade è illuminate; abbiamo una regolamentazione che spesso cambia in corso d’opera; poi siccome cambiare le regole “in corsa” danneggia i concessionari, lo Stato dice “è vero che vi ho danneggiato, quindi vi compenso allungando la concessione di altri dieci anni senza metterla a gara”, e così si finisce per creare una rendita inappropriata. La regolamentazione dev’essere forte e non volatile.

Esistono situazioni in cui la proprietà pubblica è giustificata? Secondo me solo in casi come quello di Chrysler nel 2008. Un’azienda che versava in una crisi gravissima, in un momento in cui non esistevano acquirenti privati; perdere quell’azienda avrebbe voluto dire perdere un capitale di conoscenze non facilmente recuperabile. Però stiamo attenti a non generalizzare. La crisi di Chrysler è avvenuta nel momento più grave della crisi finanziaria peggiore degli ultimi 80 anni, non capita tutti i giorni. In quel caso ci possono essere argomenti per un intervento pubblico temporaneo nella proprietà. Ma non tutte le crisi sono come quelle di Chrysler. Inoltre il governo americano, entrato in Chrysler nel dicembre 2008, ha cominciato a vendere azioni nel giugno 2009, e ne è completamente uscito nel 2011. Devono esserci vincoli temporali precisi su quanto può durare la presenza pubblica nel capitale, altrimenti lo Stato entra e ci resta per sempre; negli Stati Uniti non ce n’è bisogno, vista la cultura del paese, ma da noi occorre stare molto attenti. E per Ilva: c’è anche qui bisogno dell’intervento pubblico? Io ragiono così: in Italia non possediamo la materia prima, cioè il minerale di ferro, per il quale siamo dipendenti dalle importazioni. Mi chiedo: che differenza c’è tra importare minerale di ferro e importare il tondino o il laminato già fatto? L’idea che devi produrre qua la lamiera non la capisco. Non vedo il problema se il laminato viene dal Venezuela dove c’è la materia prima, e lo si trasporta direttamente in Europa . Produrlo qui non mi pare fondamentale. In giro per il mondo c’è un grande eccesso di capacità di prodotto laminato. Poi ci sono i problemi occupazionali e di altro tipo, ma queste sono questioni da affrontare nel breve periodo; se è soltanto questo il problema, allestiamo una cassintegrazione speciale e si può chiudere l’azienda.

Due precisazioni, poi. Sul fatto che una Cdp c’è anche in altri paesi, come la Germania, no per favore; se altri fanno stupidaggini, non è una buona idea copiarle. E a proposito di Telecom: noi stiamo in un mondo in cui il telefono fisso lo useremo sempre meno; a proposito dei cellulari, le privatizzazioni hanno generato un fenomeno meraviglioso, il nostro è uno dei primi paesi per utilizzo di cellulari, con grande concorrenza. Per la banda larga, il doppino di rame ha una capacità fino a 30 Mbps; davvero c’è bisogno di andare a 100 Mbps? Io non sono mica sicuro. Si dice che lo Stato in Italia ci metterà 7 miliardi di euro di fondi europei o giù di lì, ma è veramente una priorità consentire ai ragazzini di fare lo streaming delle partite di calcio? Perché tutto il resto si può fare anche con il doppino di rame, incluso l’uso che della banda fa la gran parte delle imprese. Poi ci sono anche aree del paese dove nemmeno il doppino di rame arriva, e quel problema va risolto. Ma un grande investimento in banda larga non sono sicuro sia la priorità oggi per questo paese con i problemi che ha.

Il Foglio. Per il professor Giavazzi non è un problema che non si facciano avanti capitali italiani nei momenti di transizione proprietaria di un’impresa. Nemmeno sull’Ilva il professore sostiene che si possa ipotizzare lo “scenario Chrysler”, con la giustificazione di un intervento straordinario della Cassa depositi e prestiti.

Mucchetti. Vorrei ricordare alcuni dati di storia americana. La Chrysler è stata salvata due o tre volte dal governo americano, anche quando era fallita da sola e le altre case automobilistiche andavano bene: all’inizio degli anni 90, anche la Fiat venne coinvolta in un tentativo di salvataggio che poi non andò avanti perché Washington preferì sostenere la Chrysler stand-alone. Ricordo che accanto alla Chrysler è stato salvato, con un intervento pure più invasivo, anche il gruppo General Motors che contende a Toyota e Volkswagen il posto di primo gruppo mondiale. Ricordo che a tutt’oggi nel Regno Unito lo Stato è ancora dentro le principali banche. Questo per dire non che lo Stato è bello o brutto, ma che queste cose vanno viste con grande pragmatismo. Se l’Italia è un paese non più in grado di esprimere proprietà italiane in tutte le grandi aziende che si trovano davanti a questo problema, sia che vadano bene sia che non vadano bene, credo che questo sia un fallimento del mercato italiano, cui dobbiamo cercare di dare una risposta.

Per quanto riguarda l’Ilva, il discorso che fa Giavazzi è interessante, analogo nel merito a quello che fa il Movimento 5 Stelle. I clienti dell’Ilva, che sono in buona misura le grandi manifatture italiane, dall’auto agli elettrodomestici passando per il mobilio, ritengono però che l’Ilva faccia molto comodo perché, per le sue caratteristiche specifiche, quest’azienda di Taranto, di fatto, fa il prezzo dei laminati in Europa. Inoltre non ci sono soltanto i francesi e i tedeschi che mantengono una rilevante attività siderurgica, ma anche gli inglesi, gli spagnoli e perfino gli olandesi… Cioè in tutti i paesi dove esiste una forte manifattura meccanica e affini, esiste anche una siderurgia. Anticamente la siderurgia aveva un significato strategico-militare, perché con l’acciaio si facevano le corazzate e i cannoni; oggi questo per fortuna è un elemento del tutto minore e non rilevante. Ma il tema di dire “importiamo le lamiere” è relativo; già oggi un po’ le importiamo e un po’ le esportiamo; è un’attività come un’altra, ed è un’attività che, senza lo choc ultimo, ha generato profitti ingenti, perciò non capisco perché non dovremmo continuare a farla, avendo anche questo effetto “positivo” nella formazione dei prezzi dei prodotti siderurgici in Italia.

Detto questo, io vedo oggi altre aziende multinazionali, che hanno il quartier generale in Italia e vasti siti produttivi e commerciali all’estero, con proprietà già in vendita o potenzialmente in vendita come Saipem, Prysmian, Magneti-Marelli, Pirelli. Sarebbe poco utile per noi se trasferissero il proprio quartier generale all’estero. Perché il quartier generale è il luogo in cui si formano le professionalità più raffinate e meglio pagate. L’Italia è povera di grandi imprese; queste sono grandi imprese che hanno proprietà variamente instabili: la Saipem è dell’Eni ma l’Eni vuole deconsolidarla, ecco un campo in cui il Fondo strategico potrebbe intervenire; Prysmian è in mano ai fondi di private equity che hanno lavorato bene ma, come tutti i fondi del genere, sono destinati a vendere; Magneti-Marelli fa parte del gruppo Fiat, io mi preoccuperei che, nelle grandi ristrutturazioni che Fiat andrà a fare, questo gruppo della componentistica possa continuare a svilupparsi per quello che oggi è e può diventare. Su Telecom, vorrei ricordare che la Tim la fecero due grandi boiardi di stato, uno si chiamava Ernesto Pascale e l’altro Vito Gamberale, e poi è andata avanti. Oggi constato che alcuni dei paesi più efficienti e progrediti del pianeta – il Giappone, la Corea del Sud e Singapore – già alla metà del primo decennio del secolo hanno cablato l’intero loro territorio e connesso in banda larga e ultra larga l’intera popolazione. Essendo modesto, in queste cose tengo a copiare; negli altri paesi europei, d’altra parte, la banda larga è molto più diffusa che da noi perché nel tempo, alle telecomunicazioni classiche, avevano affiancato la televisione via cavo, ed è banda anche quella, perciò hanno infrastrutture molto più potenti delle nostre grazie al fatto di non aver avuto il duopolio Rai-Mediaset che in Italia ha imposto di non avere la tv via cavo. Tv via cavo che era alla base del Piano Socrate di Pascale, bloccato in vista della privatizzazione. Per dire che non c’è il pubblico che è buono o cattivo sempre, e il privato che è buono o cattivo sempre. Volta per volta, caso per caso, bisogna essere in grado di fare gli interventi utili.

Il Foglio. Mentre il professor Giavazzi chiede di fissare dei criteri quanto più precisi per limitare il campo degli interventi, criteri così stringenti che forse nemmeno l’Ilva rientrerebbe tra questi, quali sono invece secondo Mucchetti i criteri che la Cdp dovrebbe seguire e che il governo Renzi dovrebbe fissare, visto che le risorse della stessa istituzione sono ovviamente finite?

Mucchetti. Il criterio è indicato nel decreto legge che ha costituito la Cdp Spa, cioè “le aziende di rilevanza nazionale”. Stabilire che ci sono settori “migliori di altri” è assai superficiale. Negli anni 70, si diceva che l’auto era superata, era un prodotto maturo, poi oggi le auto si producono ancora in tutto il mondo. Esistono i settori che hanno un mercato e quelli che non ce l’hanno; esistono le aziende capaci e quelle incapaci; io credo che l’emergenza del sistema industriale italiano sia che a fronte di un sistema distrettuale e di un mondo della media e medio-grande impresa ottimi, abbiamo un sistema di grande impresa debole per numero e capacità prospettiche. Il Fondo strategico dovrebbe, laddove il mercato dei capitali faccia intravvedere delle debolezze, intervenire in maniera intelligente senza aspettare i tracolli. Lei dice: con quali soldi? Allora la Cassa oggi non ha pronti i denari per fare chissà che cosa. Ricordo che ha 30 miliardi di partecipazioni e 21 miliardi di mezzi propri, già questo dà il senso di uno squilibrio. Quindi la Cassa deve essere ricapitalizzata, se vuole adempiere a una funzione nuova e più ampia.

Mucchetti. Per ricapitalizzare la Cassa depositi e prestiti (Cdp) esistono svariati modi, non necessariamente l’aumento di capitale che mi sembra improprio; per esempio, nel 2003, lo stato conferì alcune partecipazioni, ora potrebbe conferire altri asset vendibili in modo che la Cassa faccia del denaro; oppure riformulando il Testo unico della finanza, aggiornandolo alle nuove esigenze, migliorando lo strumento delle azioni a voto plurimo e quant’altro, lo stato potrebbe anche cedere buona parte delle attuali partecipazioni, continuando a esercitare la capacità di orientare l’assemblea degli azionisti.

A proposito dei tempi da rispettare negli interventi della Cdp, infine, dico che sono un criterio utile ma che non può essere granitico. Faccio un esempio. La ragione per cui l’Ilva è invendibile in questo momento, è che ha dei contenziosi con la magistratura. Fintanto che tali contenziosi non saranno risolti, non ci sarà un privato interessato. Quindi come faccio a dire “due anni e stop”? La scelta va lasciata alla forte volontà politica di riprivatizzare appena utile e possibile.

Il Foglio. Professor Giavazzi, qui ci si preoccupa addirittura di trovare altre risorse per la Cdp…

Giavazzi. Due precisazioni. A proposito del triplo salvataggio di Chrysler. Come detto prima a proposito dell’esistenza di una Cassa pure in Francia e Germania, il fatto che gli Stati Uniti facciano degli errori non vuol dire che li dobbiamo ripetere. Io credo che la vicenda Chrysler del 2008 sia un fatto abbastanza unico.

A proposito dell’Ilva: cos’è questa storia della specificità delle lamiere dell’Ilva? Se c’è un mercato mondiale dove si fanno le lamiere, i produttori che usano prodotti siderurgici li compreranno in giro per il mondo. Tanto più se riteniamo che l’impianto di Taranto generi un problema ambientale insormontabile, chiudiamolo e compriamo il laminato in Venezuela.

Sul voto plurimo. Quest’ultimo ingessa le imprese, le rende meno contendibili perché vuol dire che chi è lì da più tempo ha più diritti di voto di chi è arrivato per ultimo. La scarsa contendibilità delle nostre imprese è uno dei motivi per cui in questo paese c’è poca produttività. In un recente rapporto del Fondo monetario internazionale su quanto aumenterebbe la produttività in Italia se capitale e lavoro potessero essere riallocati lì dove sono più efficienti, e sul lavoro questo inizia a essere consentito con il Jobs Act, si calcola di quanto crescerebbe il reddito se il capitale fosse riallocato in modo più efficiente. Se ingessiamo le imprese, il capitale non si può riallocare, e spesso finiscono per essere ingessate le imprese che sono gestite male. Negli Stati Uniti, il grande boom della produttività alla metà degli anni 90 non a caso si verificò dopo che, alla fine degli anni 80, quei famosi signori che hanno ispirato “Barbarians at the gate”, hanno comprato le imprese, le hanno tagliate con le forbici a pezzettini e le hanno riorganizzate in modo più efficiente; è lì che è nato il grande boom di produttività americana; senza quella riallocazione del capitale, l’Information technology non sarebbe stata di per sé sufficiente perché le imprese non erano adatte a recepirne i benefici.

Per tornare al nostro paese: non c’è alcun teorema economico secondo il quale le imprese debbono essere grandi. Il paese deve fare quello che sa fare. Siamo un paese con la bilancia commerciale in attivo; il che vuol dire che ci sono abbastanza imprese che esportano, tipicamente quelle piccole e medie, per pagare il petrolio che importiamo e tutto il resto. Un paese può crescere con molta vitalità nelle piccole imprese. Allora – si dice – non potrà essere fatta ricerca. Ma per fare ricerca occorrono buone università, e lì bisognerà investire di più, anche qui cominciando dalle regole prima che dal denaro. Contribuisce di più alla ricerca applicata italiana l’Istituto italiano di Tecnologia (Iit) di Genova che non tutte le grandi imprese. Quanto ricerca ha fatto la Fiat negli ultimi sessant’anni?

Un’ultima cosa, a proposito delle possibilità d’intervento del Fondo strategico. Io ricordo che dieci anni fa il presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac, commissionò un rapporto a Jean-Louis Beffa, un grande manager francese, un progetto in cui Beffa faceva l’elenco dei circa 20 settori in cui lo Stato francese doveva investire. Perché il signor Beffa? E’ il mercato che deve decidere. Altrimenti succede come con i pannelli solari in Italia. Li abbiamo sussidiati, ci abbiamo riempito il paese, con alcuni risultati: una rendita che ai contribuenti costa circa 10 miliardi di euro l’anno ed è difficile da smantellare; abbiamo riempito i tetti dei capannoni di questi pannelli, senza preoccuparci di chi dovrà occuparsi dello smaltimento; mentre oggi la tecnologia è già cambiata e in America già esistono start up che utilizzano delle vernici con capacità di catturare l’energia solare e costi e impatto ambientale molto inferiori. Quindi c’è anche il rischio di fare investimenti che sono sbagliati.

La banda larga, per esempio: tra dieci anni potremmo scoprire che, con nuovi telefoni cellulari, si navigherà dieci volte più velocemente. Sarei un po’ cauto a prevedere gli sviluppi tecnologici.

Il Foglio. Un punto d’accordo mi pare ci possa essere. Entrambi ritenete che, in un momento così importante di cambiamento per la Cdp, il governo Renzi dovrebbe essere più chiaro sul mandato dei nuovi manager.

Mucchetti. In questo sono d’accordissimo con Giavazzi. Il governo deve chiarire quali sono le finalità di questo cambio della guardia, per poterne valutare la congruità. Quando si cambia a un anno dalla scadenza un vertice aziendale del quale non si dice altro che bene, chiarire il futuro è un obbligo. Aggiungo che le modalità del cambio della guardia alla Cdp non sono state le più eleganti. Si poteva procedere in maniera più rispettosa del pluralismo dell’azionariato della Cassa e della dignità professionale delle persone.

Ma sono d’accordo anche su un altro punto sollevato da Giavazzi: la questione degli incentivi. Gli incentivi al fotovoltaico sono di circa 6,7 miliardi all’anno, c’è un tetto fissato per legge, ma è un incentivo che dura 20 anni; sono altrettanto rilevanti gli incentivi alle altre fonti non fotovoltaiche; il totale, l’anno scorso, è stato di 14,7 miliardi. Moltiplicatelo nel tempo. Stiamo parlando di un sussidio che è un multiplo dei fondi di dotazione, a valore attualizzato, dati dallo stato dal 1933 (anno della fondazione dell’Iri) al 2002 (anno di liquidazione dell’Iri) non solo all’Iri ma a tutti gli enti pubblici economici: quindi l’Iri, l’Eni, l’Enel, ma anche le malfamate Egam ed Efim, la Gepi… Tutto questo complesso è costato meno dei sussidi alle rinnovabili. Questo per dire che un intervento serio, mirato, della Cdp, andando a affrontare le difficoltà dove ci sono, costa infinitamente meno di certi incentivi erga omnes, e ha ritorni sull’economia reale infinitamente superiori.

Giavazzi sostiene che un paese può vivere anche senza grandi imprese. Beh, l’Italia più o meno ci sta arrivando. Però è abbastanza un classico che dalle grandi imprese, per esempio, originino poi i piccoli imprenditori, cioè ingegneri, manager che si mettono in proprio, oltre a quelli che nascono dal nulla certo. Dalle grandi imprese c’è una importante ricaduta tecnologica. Nelle grandi imprese si crea pure lavoro manageriale, servizi a valore aggiunto, che nelle piccole imprese non ci sono. Quindi un paese, senza grandi imprese, è un paese debole, che arriva dopo. Quando l’Italia va in Cina, in prima battuta ci va con le sue grandi imprese; solo che la Germania ci va con 200 grandi imprese, noi ci andiamo con 20! Io sono contro la retorica anti-piccoli che c’è in molta accademica italiana, preferisco in questo campo l’ufficio studi di Mediobanca a quello, ottimo per tante altre cose, della Banca d’Italia. Però, allo stesso tempo, considero un valore le grandi imprese attuali, e quelle che potranno venire domani.

Il Foglio. La Cdp quali “grandi imprese” italiane ha creato o favorito finora nei suoi quasi 15 anni di vita? Esiste cioè – per parafrasare il titolo del celebre libro di Mariana Mazzucato, “Lo Stato innovatore” – una Cdp innovatrice? E se il governo ha fatto finora intendere, quantomeno, di volere una Cdp più interventista nell’economia, perché lei, senatore Mucchetti, è scontento di questa scelta?

Mucchetti. La Cdp non è lo Stato cui fa riferimento Mariana. Del resto, ha cominciato ad assumere partecipazioni dal 2003, non da molto, e non è suo compito creare imprese. E’ suo compito sostenerne lo sviluppo. Poi certo, a proposito del Fondo strategico, credo di poter fare considerazioni critiche analoghe a quelle del professor Giavazzi. Ma il punto è che la Cdp finora non ha avuto un mandato chiaro, vedi il caso delle due Ansaldo, dentro nell’Energia e fuori da Sts, ha vincoli statutari, regole Eurostat, quindi il rinnovamento in Cdp va fatto in modo ponderato e non impressionistico.

Il Foglio. Come valutate le professionalità dei nuovi manager di cui si fanno i nomi, Claudio Costamagna per la presidenza e Fabio Gallia per il ruolo di amministratore delegato?

Mucchetti. Sono entrambi banchieri di ottima reputazione. Non so cosa voglia fare Renzi della Cdp. Certo, se seguisse la linea di condotta che ho provato a descrivere, ci vorrebbero anche altre competenze. Quella finanziaria va benissimo, ma poi serve competenza giuridica per fare le cose giuste in Europa; e poi competenza industriale perché, quando si tratta di stabilire dove andare a mettere dei quattrini, bisogna essere in grado di capire i piani industriali. Un tempo c’erano l’Imi e Mediobanca. Oggi non so.

Giavazzi. Sui sussidi con il senatore Mucchetti siamo d’accordo. Io per il governo Monti stilai un rapporto nel quale suggerivo di azzerarli; ovviamente è stato dimenticato. La differenza tra di noi è che io userei le risorse liberate dai sussidi per abbassare le tasse, una cosa molto più importante che non dare allo stato la possibilità di decidere in quali progetti investire, progetti decisi da burocrati o da politici che comunque, se sbagliano, non rischiano nulla. Sull’iPhone, visto che avete citato la Mazzucato, smettiamola di dire stupidaggini. Il fatto che nel 1945 il Pentagono abbia investito in progetti che sono poi diventati Internet, mi sembra avere una relazione assai debole con quanto ha fatto Steve Jobs.

Sul perché è stato fatto questo cambio repentino in Cdp. Io penso che, dal punto di vista istituzionale, un governo che è azionista quasi totalitario della Cdp, può fare dunque quel che vuole, però deve spiegare con trasparenza quale è il suo progetto. Ho un dubbio che in particolare vorrei fosse fugato: che tutta questa operazione è stata fatta solo perché l’attuale amministratore delegato della Cdp, Giovanni Gorno Tempini, con l’appoggio delle Fondazioni, ha detto “no” all’intervento Nell’Ilva, che poi si è riusciti comunque a fare facendo i salti mortali. Spero invece ci sia un progetto generale.

Se io fossi al posto di Renzi, mi chiederei: cos’è che oggi manca più di tutto all’Italia? C’è scarsa concorrenza troppo poche liberalizzazioni. E’ difficile liberalizzare perché quando liberalizzi porti via delle rendite e giustamente il tassista che ha comprato la licenza ieri dice: perché ci devo perdere i 100 mila euro che ho speso? Quindi bisogna compensare chi perde delle rendite. Usiamo i soldi della Cdp per creare un fondo per compensare chi perde la propria rendita, e così liberalizziamo il paese. Questo avrebbe un impatto di un ordine di grandezza superiore a qualsiasi intervento nell’impresa X o Y, o dal salvataggio dell’Ilva.

Sulle competenze dei nuovi vertici, io sono un ingegnere e attorno al tavolo vorrei solo ingegneri! Però noto che molti manager italiani del settore privato, incluso Andrea Guerra, hanno sviluppato una visione per cui i privati sono sostanzialmente degli incapaci e ci vuole lo Stato. Sulla prima parte possiamo essere pure d’accordo, ma sul fatto che ci voglia lo Stato… Quindi bisogna stare attenti.

Mucchetti. Non liquiderei così la Mazzucato. L’elenco dei risultati della ricerca pubblica confluiti nell’Iphone sono veramente tanti e non tutti remoti. Ma sono d’accordo anche io sul fatto che liberalizzare sia un bene. E tuttavia le aziende di cui abbiamo parlato prima operano su mercati globali in cui tutto è già liberalizzato, cioè hanno duemila dipendenti in Italia e 30 mila all’estero. La manifattura è super liberalizzata, non esistono vincoli.

Il Foglio. Proprio a partire da una valutazione del curriculum vitae di Costamagna, è circolata anche l’ipotesi che la Cdp possa essere usata per intervenire sul dossier bad bank e puntellare in qualche modo gli istituti di credito italiani.

Mucchetti. Premesso che il governo sta adottando misure per accelerare il recupero dei pegni e per la deduzione fiscale delle sofferenze, sulla bad bank abbiamo perso un sacco di tempo. Me la cavo con una battuta: si può fare, e si può fare anche senza regalare denari ai banchieri. Come? Il veicolo che acquista i crediti deteriorati dal sistema bancario pagherà un prezzo, che sarà una frazione del valore facciale di questi crediti, ma siccome non sarà stracciato per non affondare le banche, sarà pure parzialmente assistito da una garanzia. Cos’è la garanzia? Un quid che viene messo a copertura del rischio che gli incassi del recupero dei crediti non ripaghino il prezzo. Questa garanzia la potrebbe mettere la Cassa ma dovrebbe essere pagata dalle banche che diluirebbero così nel tempo l’eventuale perdita. La Cassa potrebbe anche avere un ruolo nel veicolo che dovrebbe avere anche la presenza delle banche beneficiarie e di investitori privati specializzati. Costruire simili congegni, a ben vedere, è il mestiere di Costamagna.

Giavazzi. Anche in questo caso, a dire il vero, c’è un mercato. Ci sono investitori specializzati nell’acquistare pacchetti di crediti incagliati o a vario livello di rischio d’insolvenza, e nel rivenderli. Perché oggi le banche italiane non ne vendono a sufficienza? Perché in questo paese escutere una garanzia richiede tempi biblici; se il piccolo imprenditore ha messo la sua casa a garanzia del credito, quando diventa insolvente è come se la garanzia non ci fosse, perché quasi 10 anni per un investitore internazionale sono troppi. Occorre dunque cambiare le regole e far sì che l’escussione delle garanzie avvenga come nel resto dell’Europa, che i tempi siano 1 o 2 anni. Altrimenti metteremmo una pezza a questo problema, dopodiché con la prossima crisi saremo punto e daccapo.

C’è invece un fallimento del mercato – e lì una garanzia pubblica sarebbe importante – dovuto al fatto che abbiamo un sistema bancario vecchio che non presta senza garanzie, che non è capace o abituato a finanziare le idee; ci sono invece bravissimi imprenditori che non hanno le garanzie sufficienti, almeno dal punto di vista di queste banche, e che quindi non riescono a realizzare i loro progetti; in questo caso una garanzia pubblica servirebbe; questo è un fallimento del mercato che non si cambia nel giro di pochi giorni, perciò un intervento pubblico di questo tipo – ripeto, una garanzia, che non ha nulla a che vedere con l’ingresso di fondi strategici pubblici in queste imprese – per le piccole e medie imprese sarebbe giustificato.

→  marzo 31, 2015


di Massimo Mucchetti

Il caso Pirelli ci dice che i vincoli di finanza pubblica soffocano l’idea di un vero capitalismo di stato. Idee per controllare le imprese strategiche, contro le inutili retoriche anti mercatistiche e neo liberiste.

Lunedì 23 marzo 2015, mentre il governatore Ignazio Visco teneva la relazione d’apertura al convegno sulla storia dell’Iri promosso dalla Banca d’Italia, ospite l’Accademia dei Lincei, il presidente della Pirelli, Marco Tronchetti Provera, spiegava al Corriere della Sera ragioni e modalità dell’ingresso in posizione maggioritaria di Chem-China nel capitale della “sua” azienda, la più antica e importante multinazionale italiana.
Una coincidenza assai curiosa, una novità intrigante. Eppure, la politica italiana ha reagito come sempre, oscillando tra lo sdegno urlato quanto generico per “l’Italia in svendita” e il liberismo rigido ma libresco del “questo è il mercato, bellezza!”. E invece quella coincidenza, ove se ne ascoltassero gli echi, la direbbe assai lunga sul fenomeno più importante che segna il sistema delle grandi imprese italiane nell’ultimo quarto di secolo: il Tradimento del Capitale, del capitale più che dei capitalisti. La fuga. La resa. Della funzione più che degli uomini. La Pirelli era scalabile ed è stata scalata.
Tre le ragioni principali. La prima deriva dal venir meno del patto di sindacato, orchestrato da Mediobanca a conservazione degli assetti di controllo. La seconda ragione origina dalle nuove regole prudenziali per le banche e le assicurazioni, principali alleate dell’azionista di riferimento ai tempi del patto e dopo; in seguito agli accordi di Basilea e a Solvency 2, le partecipazioni azionarie rilevanti assorbono capitale in misura equivalente al loro ammontare: troppo nell’epoca in cui l’Eba (European banking authority) e l’Eiopa (European insurance and occupational pension authority) richiedono a banche e assicurazioni mezzi propri sempre più consistenti a copertura dei rischi. La terza ma non ultima ragione proviene dai conti. Secondo Mediobanca, nel 2015 il debito consolidato della Pirelli, al netto della liquidità, scende verso i 760 milioni e l’utile prima delle imposte è atteso di uguale stazza; nel 2016 il debito diminuirà ancora a mezzo miliardo e l’utile lordo, invece, sfiorerà il miliardo. Secondo Datastream, i multipli borsistici dell’azione Pirelli sono in linea con la media dei concorrenti. Dunque, una Pirelli con simili fondamentali poteva essere scalata con profitto per lo scalatore ove l’acquisizione fosse fatta a leva, e cioè finanziandola in buona parte a debito. La cosa è puntualmente avvenuta. Seguendo la logica dei leveraged buyout. Un classico.
I soci della holding di controllo, la Camfin, da Marco Tronchetti in giù, hanno bruciato i tempi e trovato un nuovo padrone con cui condividere l’operazione: 7,4 miliardi l’offerta per l’intero capitale, coperta per 4,2 miliardi da debiti; mano a mano che la cassa generata dalla gestione consentirà di rimborsare i creditori, aumenterà in proporzione il peso della componente azionaria del valore d’impresa e dunque il prezzo dell’azione.
A termine, gli attuali soci Camfin potranno vendere a ChemChina o ad altri le loro azioni Pirelli con un guadagno nettamente superiore a quello già buono implicito nell’attuale transazione, ma solo in parte realizzato.
I leveraged buyout possono essere non sempre auspicabili da chi ritenga la crescita dell’azienda prioritaria rispetto all’interesse più immediato degli azionisti. E tuttavia restano perfettamente legittimi, tanto più quando aiutino a risolvere problemi di successione.
Come nel caso di Tronchetti, che ha 67 anni e tre figli fuori dal business Pirelli. Un Tronchetti che, peraltro, ha posto le premesse per un ampio accesso della multinazionale di Milano al mercato cinese e per evitare, se la fortuna assiste, altre scalate con l’obiettivo di rivendere a pezzi un gruppo Pirelli all’uopo depotenziato. Naturalmente, ci possiamo chiedere se un altro destino – un destino così detto stand alone – sarebbe stato possibile, incrementando molto gli investimenti, da finanziare con più debito o con aumenti di capitale, come suggerisce su Repubblica Francesco Gori, ex top manager pirelliano. In questo caso, la Pirelli si sarebbe trasformata in una public company destinata tuttavia, aggiungo io, a restare tale, e cioè indipendente, fino a quando qualcuno abbastanza ricco non la scalasse comunque.
Ma per porci seriamente una simile domanda dovremmo prima rispondere a un’altra domanda: chi ha titolo per pretendere da un’impresa privata come Pirelli, che opera in un settore a concorrenza globale e non in regime di concessione, un piano diverso da quello approvato dal consiglio di amministrazione, per quanto questo consiglio possa dirsi condizionato dalla volontà del suo leader di conservare a tutti i costi il controllo della società? La risposta è semplice: un azionista più forte di Tronchetti.
Il genovese Malacalza ci ha provato. Ma non è riuscito a conquistare la Bicocca. In teoria, avrebbe potuto contattare il Fondo strategico della Cassa depositi eprestiti. Ma il Fondo avrebbe arrischiato un intervento di rottura in un’azienda che andava bene?
Domanda retorica, non essendo la questione mai stata posta all’ordine del giorno in termini cosi radicali. Ciò non toglie che un domani, se i patti parasociali negoziati da Tronchetti e Ren Jianxin, il manager comunista che guida ChemChina, lasciassero lo spazio e i conti fossero propizi, un investimento amichevole del Fondo, a ulteriore protezione dell’headquarter e dei centri di ricerca italiani nel quadro dello sviluppo internazionale del gruppo, non sarebbe certo un fuor d’opera. In fondo, un’intesa del genere è già stata raggiunta tra il Fondo strategico e un’altra impresa cinese, la Shangai Electric, per Ansaldo Energia, azienda importante ma mai quanto Pirelli. E qui arriviamo alla questione cruciale che il governatore Visco ha posto al convegno sull’Iri parlando del presente: “Ci si può chiedere se in questa difficile fase di cambiamento della nostra economia e della nostra società non sia auspicabile una presenza pubblica, in forma diretta e indiretta, maggiore di quella che si osserva oggi”.
Ignazio Visco considera sepolto dalla storia il “sistema Beneduce” e insiste sul contesto giuridico, politico e amministrativo quale elemento decisivo per lo sviluppo delle imprese. A titolo di concessione gentile alla Nostalgia dell’Iri (copyright by Guido Rey) che aleggiava nella sala dei Lincei, il governatore ha citato lo “Stato innovatore” laddove l’autrice, Mariana Mazzucato, sottolinea il ruolo del procurement della difesa americana nella ricerca di base delle università dalla quale sono derivate tutte le principali componenti dello smartphone. Ma la storia ormai conclusa dell’Iri e quella tuttora in atto della Pirelli suggeriscono che alla domanda di Visco si risponda in modo più diretto di come abbia fatto Visco medesimo.
Presenza pubblica in forma diretta e indiretta significa, a mio parere, presenza diretta o indiretta dello stato nel capitale delle imprese se e quando sia conveniente per l’interesse generale. Sbaglierò ma, così servita, la pietanza risulta più saporita, dato che lo stato azionista esiste e non ascolta i vibranti inviti di Alesina e Giavazzi all’autodafé. Lo stato italiano conserva partecipazioni di controllo in un certo numero di grandi società per azioni: Cassa depositi e prestiti, Eni, Enel, Finmeccanica, Snam Terna, Sace, Fintecna, Fincantieri, Poste, StM, Fs, Anas. E intende assumerne altre nelle imprese sull’orlo del fallimento ma meritevoli di essere salvate in assenza di salvatori privati. Vedi l’Ilva.
Del resto, il capitalismo di stato nel mondo ha un peso crescente: secondo l’Economist, il 60 per cento della Borsa cinese è in mani pubbliche, il 40 per cento in Russia e Brasile, e non parliamo delle società statali non quotate come la Saudi Aramco, che vale più del pil italiano; secondo Morgan Stanley, le imprese pubbliche quotate, le cosiddette SOEs (State Owened Enterprises), hanno battuto gli indici tra il 2001 e il 2012; secondo il McKinsey Global Institute, i fondi sovrani sono i più potenti tra i nuovi power broker.
La storia dell’Iri aiuta a capire l’oggi ove si abbia la bontà intellettuale di andare oltre la critica al molto che c’è da criticare sulle indebite pressioni della politica e, talvolta, del malaffare nelle imprese statali e parastatali: a questo punto, possiamo anche darle per acquisite, tali censure. Meno scontato è verificare l’editto europeo del 1993 in base al quale l’Iri non poteva essere ricapitalizzato perché un’iniezione di denaro da parte del Tesoro sarebbe stata considerata da Bruxelles un aiuto di stato a una holding fallita, come tale distorsivo della concorrenza.
L’Iri come holding e come gruppo era davvero fallito? La risposta è no. Si poteva e si può contestare l’attualità e l’utilità dell’Iri.
Ma come si può considerare fallita, e per questa ragione immeritevole di ricapitalizzazione, una una holding la cui liquidazione ha comportato un saldo positivo di 20 miliardi di euro che diventano 24 ove si consideri il valore della Rai stimato in vista della possibile quotazione in Borsa immaginata dall’allora direttore generale, Flavio Cattaneo? E come si può invece bollare come totalmente privatistico il salvataggio della Ferruzzi-Montedison, avvenuto anche a spese di anche pubbliche nello stesso periodo, posto che il saldo conclusivo è stato uno stiracchiato pareggio, raggiunto con la “droga” dell’Opa di Fiat su giro Bonaparte, che aprì le porte della privatissima Edison alla Electricité de France, monopolio statale francese per eccellenza?
Questi numeri – assieme ai bilanci assai migliorati di Poste e Fs, bollati per decenni come carrozzoni clientelari senza speranza – ci dicono che lo Stato azionista sa guadagnare al pari di un privato, se si dà’ il vincolo del profitto anziché prefiggersi l’obiettivo di redistribuire i margini a dipendenti e fornitori.
E’ curioso che oggi si sfidi il fantasma del Gepi, la “gallina che covava uova di pietra”, avviando una società statale dei turn around e si tema ancora il fantasma dell’Iri. Forse è anche una questione di uomini.
Nel suo intervento al convegno dei Lincei, Romano Prodi ha riferito il racconto delle origini dell’Iri che gli fece un testimone del tempo, Pasquale Saraceno: “Il Duce ci convocò e ci chiese di fare qualcosa per le imprese, non ci disse molto di più”. Nel 1933, le imprese maggiori erano in pancia alle banche fallite e rischiavano di fallire anch’esse in quanto azioniste indebitate delle banche medesime. In realtà, a Palazzo Venezia era già arrivato nel 1931 un appunto firmato dal banchiere Toeplitz, ma scritto da Raffaele Mattioli. che prospettava l’attribuzione della proprietà di queste imprese a una holding pubblica e la nazionalizzazione delle banche, che diventavano solo commerciali lasciando a istituti specializzati il credito finanziario. E sopra Mattioli stava Beneduce, l’inventore dell’Ina, del Crediop e dell’Icipu. Un gigante. Ma l’aneddoto di Prodi, che voleva riproporre con understatement bolognese l’eterna rincorsa tra il caso e la necessità, tra l’improvvisazione e la strategia, segnala anche la qualità del rapporto fiduciario tra il capo del governo e i grand commis, ai quali chiedeva la competenza dei capitani d’impresa e non la fedeltà delle camicie nere, del resto improbabile in un socialista riformista e nazionalista come Beneduce e in un liberale anarchico come Mattioli che, alla Comit, dava ufficio agli antifascisti laici. L’aneddoto di Prodi voleva certo riproporre per l’Iri, con understatement bolognese, l’eterna rincorsa tra il caso e la necessità, tra l’improvvisazione e la strategia. Come tutti i politici, Mussolini andava a spanne.
E però a chi si rivolgeva il Duce? A un manipolo di grand commis di altissima levatura, ai quali chiedeva competenza da capitani d’impresa e non fedeltà da camicia nera, del resto improbabile in un socialista nazionalista e riformista come Beneduce e in un liberale anarchico come Mattioli che, alla Comit, dava ufficio e stipendio agli antifascisti laici.
Visco ha ricordato che l’”opzione di restituire ai privati tutte le imprese rimase sul tavolo fino al 1937”. Aggiungo che, nei primi anni, avvennero numerose privatizzazioni.
Ma poi la vendita si fermò per mancanza di acquirenti all’altezza. E’ toccato a chi scrive ricevere copia di tre lettere di Beneduce a Mussolini che Enrico Cuccia conservava nel cassetto della sua scrivania in Mediobanca e talvolta sventolava davanti ai suoi interlocutori.
Documenti che mancano al fondo Iri presso l’Archivio di stato e che, suppongo, costituiscano un regalo di Pasquale Saraceno al banchiere. Queste lettere danno conto delle riunioni dei vertici dell’Iri con Agnelli, Valletta, Pirelli, Motta e Cini sui destini della Sip, la Società idroelettrica piemontese.
L’Iri l’aveva posta in vendita. I privati chiesero una dote di 700 milioni di lire e Agnelli, a parte, pretendeva pure la Gazzetta del popolo per realizzare, avendo già avuto dal fascismo La Stampa, il monopolio dell’informazione torinese.
Beneduce, che sapeva far di conto, consiglio’ a Mussolini di lasciar perdere e questi – me lo raccontò Francesco Cossiga attribuendo la cosa al suo amico Cuccia, che l’avrebbe appresa da Saraceno – concluse con uno stentoreo: “Non diamogli niente; questi grandi industriali non se la meritano: sono solo dei gran coglioni!”. Sono passati 72 anni da quell’episodio, eppure la storia si ripete. Negli anni Novanta, un numero troppo alto di imprese privatizzate è finito a industriali italiani che, in tal modo, volevano diversificare i propri investimenti distogliendo risorse monetarie e intellettuali dal core business e non di rado esagerando con la leva del debito. Buona parte, poi, degli imprenditori che meritoriamente hanno comprato imprese pubbliche per crescere nel loro settore – è il caso della siderurgia – hanno fallito. E da ormai un lustro ogni volta che viene posta sul mercato dei diritti di proprietà una grande impresa italiana nessun investitore italiano si fa avanti. Per carità di patria, risparmio l’elenco. E però non vorrei sentire citare, come strepitoso contraltare nazionale, la vicenda Fiat-Chrysler, storia di grande successo per gli azionisti, assai meno, finora, per il paese, basti guardare alle case automobilistiche americane e tedesche.
Il fatto è che le famiglie imprenditoriali descrivono tutte una loro parabola la quale, presto o tardi, si conclude con la cessione dell’azienda o della partecipazione di controllo.
In questa fase storica, il testimone non può venire rilevato da altre famiglie se la dimensione è davvero grande. Ma nemmeno da banche e assicurazioni, perché il Testo unico bancario del 1993, che aveva anche questo tra i suoi obiettivi, è stato via via svuotato dagli accordi di Basilea. E Solvency 2 ha terminato l’opera con le compagnie. Si tratta di accordi multinazionali ed extraparlamentari, fatti da burocrazie autoreferenziali, senza volto e senza responsabilità né politiche né patrimoniali, le stesse che, pur essendo preposte alla sorveglianza dei mercati, non avevano intercettato la crisi finanziaria del 2007-2008. E gli investitori istituzionali? I fondi comuni sono ormai un sono ormai un equivoco che non porta veri denari alle imprese ma, in compenso, dà luogo a un centro di potere opaco com’è Assogestioni. (Grazie al record day, una follia dei nostri tempi, i fondi votano anche senza avere le azioni depositate in assemblea; Assogestioni, pur rappresentando niente in termini di capitale investito in azioni italiane, orienta il voto dei fondi esteri e rischia di vincere le assemblee…).
La Borsa estrae risorse dalle società quotate più di quante ve ne faccia confluire.
Ecco perché parlo di Tradimento del Capitale più che insistere nella polemica, ormai stucchevole e datata, sul tradimento dei capitalisti.
Sulla carta, dunque, all’Italia resterebbe lo stato azionista. Ma lo stato italiano presenta oggi tre deficit drammatici.
Primo, i governi non hanno mai elaborato il lutto dell’Iri e non possiedono la cultura dello stato azionista moderno che, invece, ha dimostrato di possedere perfino la Casa Bianca di fronte agli effetti della crisi di Wall Street sull’industria automobilistica americana. Tirano per la giacca ogni giorno la Cassa depositi e prestiti senza capirne granché. Secondo, i governi hanno smantellato le tecnostrutture in grado di svolgere il lavoro sofisticato di holding di partecipazioni. Il servizio Partecipazioni del ministero dell’Economia e’ debole.
La Cassa depositi e prestiti non ha mandato. Peggio, l’idea di togliere al ministero dell’Economia la competenza sulle nomine per attribuirla a Palazzo Chigi rivela che di una seria tecnostruttura non si sente nemmeno l’urgenza. Ai vertici delle aziende pubbliche non mancano bravi manager, ma dove sono i Beneduce, i Menichella, gli Oscar Sinigaglia, gli Agostino Rocca, i Reiss Romoli, i Di Veroli, i ministri come Jung, che avevano anche un’idea di paese e allora portarono la rivoluzione manageriale nelle imprese riempiendo di contenuto gli indirizzi fatalmente generici del Duce? Il terzo deficit è il più visibile perché riguarda il capitale. I vincoli di finanza pubblica soffocano l’idea stessa di uno stato azionista. A meno che, avendo fatto le scelte culturali del caso, non si tentino strade nuove. Con il voto maggiorato nelle assemblee sociali, la soglia dell’Opa obbligatoria al 25 per cento e, magari, una sana controriforma del record day, lo stato potrebbe conservare il controllo delle imprese dove lo ritiene necessario ma, al tempo stesso, smobilizzare una parte cospicua delle sue partecipazioni.
In tal modo, costituirebbe una dotazione finanziaria di alcune decine di miliardi con la quale reagire in questa fase storica, domani si vedrà, al Tradimento del Capitale.
Non mancherà la reazione ragionieristica dove non bastesse l’arroccamento veteroliberista che, peraltro, chiude gli occhi sulla nazionalizzazione di Edison e Pirelli a opera di stati esteri: ma i dividendi che oggi Eni, Enel e compagnia pagano al Tesoro?
Certo, in prima battuta verrebbero in parte meno. Ma lo stato che torna a fare il Salvatore di imprese malmesse da restituire poi al mercato, mi pare guardi al futuro. E allora più coerenza intellettuale e più respiro strategico: perché vendere il 5 per cento dell’Enel per fare cassa anziché venderne il 15-18 per cento per un grande progetto?

→  dicembre 29, 2013

Botta e risposta tra Massimo Mucchetti e Franco Debenedetti sul tema dell’OPA

Caro direttore, Franco Debenedetti insiste a prendersela con il sottoscritto erigendolo a promotore unico della riforma dell’Opa obbligatoria e si compiace che la proposta sia stata respinta. Rattrista doverlo correggere, ma si deve: a beneficio dei lettori. La riforma non è mai stata votata, dunque non può essere stata respinta. Era stata accantonata in un primo tempo perché il governo aveva preso l’impegno di provvedere in tempi brevissimi e poi è stata dichiarata non ammissibile per estraneità di materia quando, di fronte all’inerzia, e dunque alla mancanza di parola del governo, la riforma è stata riproposta sotto forma di emendamento al decreto enti locali: quel capolavoro di decreto che ha fatto la fine che sappiamo.

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→  dicembre 24, 2013


Una delle ragioni della bassa crescita, italiana ed europea, è che troppi lavoratori sono impiegati e troppi capitali investiti nei settori diventati meno dinamici dell’economia. E’ il tema di uno dei dossier preparati per il semestre europeo a presidenza italiana, per essere proposti a Enrico Letta. Spostare capitali e persone in settori trainanti richiede cambiamenti radicali: può non bastare il cambiamento del management, servono culture diverse, può essere necessario l’innesto di outsider, fino al trasferimento del controllo.

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