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→  maggio 14, 2010


di Massimo Mucchetti

Il piano salva debiti dell’ Eurozona, che consoliderà gli interventi immediati delle banche centrali e della Bce, sarà probabilmente gestito da un nuovo veicolo speciale finanziato dagli Stati, che garantiranno le sue obbligazioni fino a 440 miliardi e che già oggi alimentano la Commissione Ue e il Fondo monetario internazionale impegnati per gli altri 310 miliardi. Si tratta di una gigantesca operazione in larga parte fuori bilancio per scoraggiare la speculazione contro l’ euro, a partire dai suoi anelli deboli. Stiamo assistendo alla copertura di debito pubblico cattivo a mezzo di debito pubblico migliore. Funzionerà?

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→  maggio 1, 2010


di Massimo Mucchetti

Il ritratto I nuovi criteri per la composizione del consiglio di gestione

La candidatura Beltratti, la lente del Tesoro e l’ ipotesi Salza-bis La quota del 10% Il confronto fra le Fondazioni, i requisiti e il 10% di Torino in un colosso dove gli investitori istituzionali hanno il 28%

Il giorno dopo il ritiro di Domenico Siniscalco, mentre l’ assemblea di Intesa Sanpaolo riunita a Torino nomina il nuovo consiglio di sorveglianza, emerge in tutta la sua debolezza la posizione della Compagnia di San Paolo: non basta avere il 10% dei voti per determinare le sorti di un colosso bancario dove gli altri soci eccellenti mettono assieme il 28% e gli investitori istituzionali un 10% abbondante.

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→  febbraio 15, 2010

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Gli alti costi hanno sinora impedito gli investimenti su Internet La via d’uscita? Un’iniziativa mista tra privati e soggetti pubblici

di Massimo Mucchetti

L’Autorità delle Comunicazioni preme su Telecom Italia affinché si impegni a costruire una rete di nuova generazione in banda larga che via via sostituisca la fibra ottica al vecchio cavo di rame. Ma l’ex monopolio guidato da Franco Bernabè fa orecchie da mercante, perché l’investimento non darebbe adeguati ritorni in tempi adatti a una società quotata e gravata da un debito rilevante, lascito di passate gestioni. Le tariffe A marzo, il collegio presieduto da Corrado Calabrò deve rivedere le tariffe che i concorrenti, privi di rete propria, pagano a Telecom per l’accesso all’infrastruttura fissa. Potrebbe essere questa l’occasione per ridefinire la remunerazione del capitale investito, oggi pari al 10,2%, che sta alla base della tariffa per l’accesso, qualora Bernabè continui a resistere.

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→  novembre 29, 2009

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di Massimo Mucchetti

Il Tribunale di Milano si prepara a emettere una sentenza che potrebbe costituire una pietra miliare nel diritto di Internet e costringere il re della rete, Google, a correggere il suo modello di business aperto e, oggi, irresponsabile. Mercoledì 25 novembre i pm Francesco Cajani e Alfredo Robledo hanno pronunciato la requisitoria. Il processo ha origine dalla querela depositata il 9 novembre 2006 dall’Associazione Vivi Down in merito a un video che riprendeva le umilianti angherie di alcuni ragazzi contro un compagno di scuola handicappato.

Il filmino è apparso sul sito htpp://video.google.it nella sezione «video divertenti». Le immagini sono rimaste online abbastanza a lungo da essere visualizzate 5.500 volte ed entrare così nella classifica dei 100 video più scaricati, al 29esimo posto, prima di essere rimosse. La censura è stata fatta da Google, ma solo su ordine della polizia avvisata dall’ Associazione a sua volta mobilitata da un cittadino, Alessandro D’ Amato, che prima aveva invano segnalato la cosa allo stesso Google e poi ne aveva scritto sul suo blog. Questa clamorosa violazione della privacy fa emergere l’ ambiguità di una multinazionale che reagisce raccontandosi in modi diversi a seconda dell’ interlocutore. Al popolo degli internauti Google si mostra come il campione del mondo free, dove tutto è libero e gratuito. Alla stampa e alla Borsa come un motore di ricerca attrezzato per contrastare gli abusi, nel rispetto delle leggi di ogni Paese.

Agli inserzionisti come un editore innovativo che, con il programma AdWords, consente di raggiungere il cliente potenziale con costi legati alla performance. Ma di fronte alla magistratura Google nega l’ interesse economico di Google Video per non doversi riconoscere editore con le conseguenti responsabilità, salvo dover ammettere il fine del lucro davanti alle evidenze. E cerca di disconoscere la giurisdizione italiana a carico dei legali rappresentanti di Google Italy. Fanno tutto a Mountain View, ripete: ci si informi per rogatoria e magari ci si giudichi in base alla legge californiana. Quattro verità sono troppe per essere tutte buone.

A naso la più credibile è quella legata al quattrino. Le altre sembrano di comodo. E allora non si capisce perché in un giornale, in una tv o anche in un sito registrato debbano rispondere sul piano penale e civile delle violazioni della legge sia l’ autore del servizio che il direttore responsabile coperti dall’ editore, mentre su Google Video, piattaforma editoriale di autori vari e un padrone solo adattata ai diversi Paesi, non debba rispondere nessuno. Certo, controllare costa. Non basta la persona a ciò preposta a Dublino. Google spende molto in uomini e mezzi per scannerizzare i libri e fare la Biblioteca universale dai cui si attende adeguati ricavi.
Potrebbe farlo anche per evitare che gli imbecilli o i malvagi usino i suoi servizi per colpire i più deboli. Guadagnerà meno? Pazienza. Il Tribunale di Milano può porre un vincolo che aiuterà Google a diventare migliore. Come tanti anni fa la legge sulla giornata di lavoro di 8 ore costrinse le industrie a reinventarsi per recuperare quanto avevano dovuto sacrificare alla civiltà.
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→  novembre 22, 2009

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Bene essenziale, ma non conviene farne una guerra di religione

di Massimo Mucchetti

La privatizzazione dell’acqua, avviata dal decreto Ronchi, divide l’Italia. La questione scotta: si può vivere senza petrolio, non senza acqua. E non ci si può nascondere dietro un dito dicendo che la proprietà di quanto immesso nel tubo resta pubblica se il servizio non lo sarà più. Ma ha senso spaccarsi sul piano del principio? La risposta è: no.
Che il gerente dei servizi idrici sia pubblico o privato significa fino a un certo punto. La Germania ha i consumi più virtuosi, le minori dispersioni, Berlino ha l’acqua più cara e la gestione è diffusa in mano ai comuni. La Francia, invece, ha tre colossi quotati in Borsa ma influenzati dal governo. Il Regno Unito ha privatizzato. Negli Usa prevalgono le public authority, enti pubblici senza capitale, e ci sono i consumi più alti del mondo.

Meglio, allora, entrare nel merito. In Italia i servizi idrici appartengono agli enti locali con rare eccezioni: i francesi ad Arezzo, gli spagnoli in Sicilia. Nei 36 comuni di Federutility, avverte la fondazione Civicum, l’acqua costa un euro al metro cubo contro i 2 della media mondiale. Diversamente dal trasporto pubblico locale, in genere la gestione ordinaria degli acquedotti non è sussidiata. Perché allora si vuol privatizzare? Perché molto spesso regnano inefficienza e clientele, gli investimenti scarseggiano, gli acquedotti perdono più dell’accettabile.
Ci vuole una scossa. Ma perché imporre la privatizzazione laddove il servizio idrico funziona? Se non si rischiasse la demagogia, verrebbe voglia di referendum locali. I comuni azionisti di ex municipalizzate quotate in Borsa (A2A, Acea, Hera, Iride) dovrebbero mettere a gara le concessioni idriche e le «loro» società potrebbero partecipare. Bene. Ma si prevede una strana alternativa per i comuni renitenti a gare che potrebbero ridurre i margini sull’acqua: scendere al 30% della società quotata e conservare l’attuale, comoda concessione fino alla scadenza. Che senso ha? Il 30% in mano a un soggetto che non può salire è una quota inutile di fronte a un’ Opa.

L’acqua può attirare grandi operatori esteri come Generale des Eaux o Veolia ma anche speculatori che comprano a debito e poi trovano il modo di non investire. Il ministro Ronchi pensa di cavarsela con protezioni statutarie? A parte la debolezza della soluzione, se così fosse, i comuni continuerebbero a comandare e allora che senso avrebbe costringerli a (s)vendere di questi tempi? Poi ci sono le lacune. Saranno ammessi alle gare anche i pretendenti in conflitto d’interessi? Sarà consentito al gerente di affidare i lavori a proprie imprese quando poi i costi vengono addebitati in tariffa? Silenzio anche sui criteri delle tariffe: su quanto verrà remunerato il capitale investito; su come sarà il price cap, che limita la rivalutazione per l’inflazione delle tariffe, e l’azzeramento periodico delle rendite di monopolio attraverso il meccanismo di claw back. Visti gli «errori» dei governi (di ogni colore) sulle autostrade, è lecito dubitare che i comuni abbiano le competenze per fare meglio sull’acqua. Chi li aiuterà: un’Autorità, la Goldman Sachs o l’amico del sindaco?

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→  febbraio 15, 2009

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Torna il progetto di evoluzione in fibra ottica e si apre l’ incognita dei soci

di Massimo Mucchetti

Nell’autunno del 2006, il progetto di staccare da Telecom Italia l’infrastruttura di rete per attribuirla a una nuova società partecipata dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp) venne accolto con critiche sdegnate da parte dell’opposizione di centro-destra, dell’intellettualità liberista e dei vertici della Confindustria. Il progetto, che Angelo Rovati, consigliere economico di Prodi, aveva inviato in via confidenziale all’allora presidente di Telecom, Marco Tronchetti Provera, fu eletto a simbolo del ricatto statalista contro la libertà dell’impresa. Nella primavera del 2009, la stessa idea viene riproposta con incalzante pubblicità dal responsabile economico di Forza Italia, Pierluigi Borghini, senza che i censori di ieri elevino analoghe proteste. Eppure, anche adesso, Telecom è una società privata guidata da un amministratore delegato, Franco Bernabé, contrario al piano Rovati comunque riverniciato. Potremmo finirla qui sottolineando come, per l’ennesima volta, l’Italia si riveli un Paese senza memoria votato alla polemica strumentale. Ma oggi c’è dell’altro. L’Italia ha interesse a far evolvere la rete telefonica in rame in una nuova e assai più potente rete in fibra ottica. Prima si fa e meglio è: per modernizzare il Paese e sostenere keynesianamente l’economia.

A Telecom, invece, conviene diluire nel tempo l’investimento per poter via via intercettare la nuova domanda di banda larghissima e non appesantire troppo il debito ereditato dalle vecchie gestioni. Paese e azienda potrebbero avvicinarsi riducendo l’onere dell’investimento grazie all’utilizzo delle frequenze radio che, con il passaggio dall’analogico al digitale, non saranno più necessarie alle tv, e dunque dovrebbero tornare nella disponibilità del Tesoro. In Europa e Usa questo è il dividendo digitale che i governi reinvestono a favore dell’intera economia. Nell’Italia, dove Mediaset considera le frequenze proprietà privata, non avviene. Vogliamo parlarne? L’attribuzione della rete a una nuova società può migliorare la concorrenza? Bene. Non abbiamo mai pensato che bastasse evocare il fantasma dell’Iri per bocciare un’idea. La svolta pro-concorrenziale di Forza Italia non può far che piacere. Purché non celi il diavolo nei dettagli. L’azionariato ideale della nuova società, riferisce il Sole 24 Ore, comprenderebbe Telecom, la Cdp, il fondo F2i, Mediaset, Fastweb e i fornitori. In un simile schema i conflitti d’interesse sono evidenti: i fornitori che, da soci, concorrerebbero a fare il prezzo delle forniture; il supercliente, la tv del premier, che, forse deluso dalla sperimentazione sarda sul digitale terrestre, guadagnerebbe con poca spesa l’accesso privilegiato alla Ip television.

Il cavo Telecom che porta Internet consentirà, in prospettiva, di personalizzare gli spot con un sensibile miglioramento dei ricavi pubblicitari. Un conto è se Mediaset accede a questa piattaforma in regime di par condicio con i concorrenti attuali e potenziali. Un altro conto è se lo fa da azionista comunque più influente della società della rete, visto che Berlusconi presiede un governo che ha il 70% della Cdp e detta le regole per Mediobanca, Intesa, Generali e Autostrade, azionisti eccellenti della stessa Telecom.

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