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→  novembre 1, 2008

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Interventi e repliche

«Il caso Volkswagen, scrive Massimo Mucchetti, ha messo gli hedge funds addirittura in ridicolo» (Corriere, 31 ottobre). Avevano venduto titoli VW contando che la recessione colpisse tutti i titoli ciclici. Ma nel frattempo Porsche, che ufficialmente aveva il 35% della VW, aveva aumentato il suo controllo fino al 74,1%, usando strumenti che in Germania consentono di non rivelare al mercato l’incremento della partecipazione. Così il circolante si era ridotto al 5,8%: la necessità di ricoprirsi a qualsiasi prezzo ha fatto schizzare il titolo da 210 euro a 1.005 euro, facendo di VW la prima società al mondo per capitalizzazione, e facendo perdere ai fondi hedge da 20 a 30 miliardi di euro.

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→  ottobre 31, 2008

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L’allarme della Banca d’Inghilterra

di Massimo Mucchetti

Il McKinsey Global Institute li aveva eletti nell’ottobre 2007 tra i nuovi power brokers del capitalismo, assieme ai fondi sovrani, alle banche centrali dei Paesi orientali e ai fondi di private equity.
Adesso, per la Banca d’Inghilterra gli hedge funds rappresentano la mina che insidia il sistema finanziario nonostante la rete di protezione distesa dai governi attorno alle banche. Questi fondi si sono proposti per anni come i più raffinati investitori, capaci di scommettere al rialzo e al ribasso per premiare i meritevoli incompresi e punire i palloni gonfiati.
Assicuravano, si diceva, l’igiene dei mercati, con la puntuale contestazione dei giochi di potere dei top manager e degli azionisti di controllo. Eppure, anch’essi avevano un limite serio – il ricorso eccessivo al debito – e gravi vizi costituzionali – l’opacità dei comportamenti, l’allergia alla regolazione che consentiva loro anche la collusione con i gerenti delle imprese nelle fasi di rialzo. E così, proprio pochi giorni fa, i supponenti hedge devono incassare l’allarme della banca centrale inglese che, nel suo Financial Stability Report di ottobre, scrive: «Mentre i primi segnali di stabilizzazione nella raccolta bancaria sono incoraggianti, restano ancora rischi nel più ampio sistema finanziario.
Uno di questi è che gli investitori indebitati, come gli hedge funds, possano essere costretti a liquidare i propri attivi a causa delle condizioni più restrittive del credito». Del resto, il caso Volkswagen li ha messi addirittura in ridicolo. Convinti di poter guadagnare facilmente vendendo allo scoperto e a termine i titoli della casa di Wolfsburg sull’onda lunga dei ribassi nel settore automobilistico, gli hedge hanno avuto la sorpresa di non trovarne più al momento delle ricoperture: nel frattempo, infatti, la Porsche aveva rastrellato in silenzio ben più solide opzioni per salire al 75% del capitale, una quota che, sommata alla partecipazione del Land della Bassa Sassonia, riduceva al lumicino i titoli disponibili per la compravendita.

Al dunque, per onorare i contratti, gli hedge hanno dovuto comprare a prezzi irreali perdendo, stima il Financial Times, 20-30 miliardi di euro. Wendelin Wiedeking, il leader della Porsche, era stato censurato due anni fa dal quotidiano britannico. Facendo propria l’opinione degli hedge funds della City, la Lex column avrebbe preferito la redistribuzione della liquidità agli azionisti anziché il reinvestimento in Volkswagen inseguendo le ambizioni manifatturiere degli storici azionisti di riferimento Porsche e Piëch. Alla prova dei fatti Wiedeking e i suoi soci si sono rivelati industriali forti e finanzieri assai più brillanti dei rapaci cercatori del ritorno a breve termine, se è vero che, servendo gli hedge con una frazione dei titoli rastrellati, la Porsche ha già guadagnato oltre 5 miliardi.
Ironia della storia. La liquidazione degli hedge funds – non di tutti, ovviamente, ma di molti – è resa impellente dalle richieste di riscatto dei sottoscrittori: persone molto ricche, banche, fondi pensione, gestori di patrimoni, fondazioni, fondi sovrani che, di questi tempi, intendono riprendere il controllo diretto sul loro denaro. Una tendenza, questa, incoraggiata dalle performance negative se è vero che, secondo l’Hedge Fund Research, la perdita media sfiora il 20% negli ultimi 12 mesi e, secondo l’Eurekahedge Hedge Fund Index, attivo dal 2000, nessun mese ha deluso come l’ultimo settembre nel quale il settore ha lasciato sul campo 90 miliardi di dollari. D’altra parte, come segnalava McKinsey, le nuove sottoscrizioni nel primo trimestre 2008 si erano già ridotte a soli 16 miliardi su scala mondiale contro i 60 dello stesso periodo del 2007. Poiché dagli hedge non si può uscire a piacimento come dai fondi comuni d’investimento ma solo nei periodi prestabiliti di redemption, per lo più concentrati a fine d’anno, ecco spiegata la valanga di vendite che, aggravata dalla rivalutazione dello yen, ha determinato l’autunno nero delle Borse mondiali.
Annota la Banca d’Inghilterra: «Il bisogno di liquidità degli hedge funds può aiutare a spiegare le vendite dei titoli più liquidi come le azioni dei Paesi sviluppati ed emergenti, le cui quotazioni sono drasticamente cadute in settembre e ottobre». I valori in gioco sono ormai imponenti.
L’«industria» degli hedge funds mosse il primo passo, con una dotazione di 100 mila dollari, nel 1949 a opera di un sociologo americano di origine australiana, Alfred Winsolw Jones, che aveva avuto anche esperienze nella diplomazia e nel giornalismo. Riuniti 99 investitori in un fondo con quote non trasferibili come quelle dei fondi comuni, e dunque libero dalle limitazioni dell’Investment Company Act del 1940, Jones comincia a comprare a debito i titoli giudicati buoni e a vendere allo scoperto quelli cattivi così da compensare i rischi impliciti nelle due pratiche. Nei primi 10 anni fa meglio, in ragione dell’87%, del miglior fondo comune dell’epoca, il Dreyfus Fund. Il suo modello ispira campioni della finanza come Warren Buffett e George Soros.

Ma dovranno passare quarant’anni prima che gli hedge funds possano dilagare, favoriti dalla deregulation e dai bassi tassi d’interesse. A fine 2007, secondo McKinsey, ne risultano all’opera ben 7 mila con un capitale aggregato di 1.875 miliardi di dollari, una somma cinquanta volte più grande di quella amministrata nel 1990. È la base sulla quale, stressando la lezione di Jones, si costruisce un castello di debiti che eleva a 5 mila miliardi la potenza di fuoco dei nuovi arbitri della finanza mondiale, pronti a scommettere su tutto: indici, azioni, bond, reddito fisso, derivati, operazioni finanziarie di ogni genere. Formano, questi arbitri, una élite piuttosto ristretta se si pensa che il 71% dei capitali gestiti è concentrato nei primi 100 fondi, alcuni dei quali sono controllati da grandi banche, come Highbridge Capital Management che fa capo a JP Morgan.
Questo rapporto è cruciale al di là delle cointeressenze nel capitale: sono le banche a finanziare la leva degli hedge e le investment banks, le americane in particolare, a curarne le operazioni dietro congrue commissioni. In questo modo, gli hedge funds, spesso basati in paradisi fiscali, diventano banche d’investimento surrettizie, che si sottraggono deliberatamente ai controlli riservati alle banche vere e proprie, ai fondi pensione e agli stessi fondi comuni. E lo fanno con arroganza se ancora alla fine di settembre il Renaissance Technologies, l’hedge newyorkese guidato da James Simons, cerca di indurre la Securities Exchange Commission a rivedere la direttiva che consente al pubblico di conoscere le posizioni allo scoperto, posizioni che i fondi normali non possono prendere, con la seguente minaccia: «Gli investitori istituzionali potrebbero alterare il loro trading per evitare di dare notizie al pubblico».
La fratellanza siamese con le banche ora si ritorce contro. Ormai le garanzie che gli hedge funds devono fornire per ottenere credito dalle banche, gelose della propria residua liquidità, per reinvestire nel reddito fisso sono raddoppiate dall’inizio della crisi e addirittura quintuplicate se l’investimento si orienta verso le asset-backed-securities, le obbligazioni strutturate, rappresentative di altri titoli, mutui o prestiti.
E per i Cdo (Collateralizated debt obligation) i rubinetti sono chiusi del tutto. Ray Dalio, che guida il Bridgewater Associates, un hedge del Connecticut con attivi per 150 miliardi di dollari, ha ammesso davanti ai suoi clienti che il mondo sta entrando in una lunga depressione per rientrare dal debito che non potrà essere assai poco mitigata dalla riduzione al minimo dei tassi d’interesse: «Siamo dentro un ciclo di sofferenza pluriennale e il grado della sofferenza dipenderà dalle decisioni della politica». Sia pure con 10 anni di ritardo, la lezione del fallimento del Long Term Capital Management, l’hedge dei premi Nobel il cui improvviso fallimento mise per qualche settimana in pericolo la finanza mondiale, comincia a generare il suo effetto più importante: un bagno d’umiltà.

ARTICOLI CORRELATI
Gli hedge funds e il caso Volkswagen
di Franco Debenedetti – Il Corriere della Sera, 01 novembre 2008

In Italia scoppia la guerra culturale sugli hedge fund
di Stefano Feltri – Il Riformista, 02 novembre 2008

→  marzo 26, 2008

corrieredellasera_logoCosa insegna il caso AUDI

di Massimo Mucchetti

Da sei mesi in qua accadono fatti curiosi. A Londra, la Bank of England nazionalizza la Northern Rock dopo averle prestato risorse ingenti senza le usuali garanzie. A New York, la Federal Reserve assicura con risorse pubbliche il salvataggio della banca d’investimento Bear Stearns a opera della JP Morgan per evitare che la sua insolvenza mandi a picco altre banche sue controparti. A Detroit, la General Motors e la Ford licenziano operai e impiegati con salari alti e protezioni pensionistiche e sanitarie per sostituirli con giovani pagati la metà e senza corporate welfare. In Germania, l’Audi dà un bonus di 5.700 euro ai dipendenti, e non è la sola grande impresa a farlo. Sono episodi legati a circostanze specifiche, ma riletti in sequenza sembrano declinare la crisi dell’arciliberismo. Nel suo «Supercapitalism», che l’editore Fazi sta traducendo per l’Italia, Robert Reich, già ministro del Lavoro nella prima presidenza Clinton, sostiene che la supremazia del consumatore finisce per mettere in crisi il cittadino. La concorrenza senza vincoli determina la ritirata del diritto, figlio della politica, a favore di una contrattazione sempre più parcellizzata, nella quale prevale il più forte e la rappresentanza del lavoro dipendente viene sopportata come un cartello residuale. Nella pubblica amministrazione e nei monopoli, in effetti, gli insiders costituiscono spesso corporazioni di fatto. Ma nei settori esposti alla concorrenza gli interessi delle persone si manifestano diversamente. La ristrutturazione dell’industria automobilistica americana è l’esempio classico di quanto costi l’ aumento della concorrenza derivante dalla globalizzazione. E di come questo prezzo venga caricato sulle spalle di lavoratori che credevano di far parte della classe media, architrave delle democrazie. Detroit fa emergere le schizofrenie del cittadino lavoratore. Come produttore, questo cittadino cerca il salario migliore. Come sottoscrittore del fondo pensione, può aver interesse al licenziamento di altri produttori se così salgono le quotazioni dei titoli nei quali il fondo investe per pagargli la pensione domani. Come consumatore, desidera merci e servizi ai prezzi più convenienti, ma non avrà nessuna soddisfazione a vedere scaffali pieni e auto coreane a buon mercato se non ce la fa più a star dietro alle offerte perché, come scrive Reich, al netto dell’inflazione prende la stessa paga oraria di trent’anni prima, ha già rinunciato a 15 giorni di vacanza per arrotondare, la moglie lavora, ha il mutuo, la casa in pegno alla banca, e magari teme pure di perdere il posto. La nuova popolarità del protezionismo non deriva da un errore della storia, ma dai limiti di quello che Giulio Tremonti chiama mercatismo.

Può essere che anche in Italia i dazi, ancorché calibrati, difendano la manifattura di 5 anni fa e non quella attuale che ha imparato a fare i conti con la Cina. Può essere che l’invocazione di un governo sovranazionale della globalizzazione suoni meglio se fatta da un euroentusiasta anziché da un euroscettico. Può essere tutto. Ma può bastare la pedagogia liberista o non serve invece una politica che ricomponga l’Io diviso del cittadino nell’ età della globalizzazione? Chi è sensibile alle sofferenze del mondo può accettare sacrifici, meglio se provvisori, quando l’ apertura dei mercati e le nuove tecnologie offrano occasioni di riscatto a centinaia di milioni di persone. Ma è difficile imporre un prezzo se non è ben ripartito. Negli Usa dove la religione del Pil si è celebrata anche sull’ altare dei subprime, la disuguaglianza è a livelli record. Nell’ Italia della crescita stenta, come la definisce Draghi, i salari restano al palo, mentre i guadagni di top manager e capitalisti volano. Si dice sia il mercato dei migliori, ma forse è soltanto il circolo collusivo al vertice della piramide sociale. E’ in tale contesto che si scopre il vero volto della più globalizzata delle attività economiche, quella bancario-finanziaria: non è la più concorrenziale, e nemmeno la meglio organizzata come si è raccontato fin qui per giustificare i fasti della sua gerenza, ma la più protetta perché non corre il rischio di fallire. E perché a pagare il conto sono i contribuenti, i dipendenti e i soci (fra cui i fondi pensione), assai meno il vertice che conserva retribuzioni, vecchie stock options, consulenze e commissioni fondate su gestioni di cui ora pagano il fio soprattutto gli altri. Se l’ economia in generale rischia una selezione rovesciata con il protezionismo, lasciar fare al capitalismo finanziario e abbandonare a se stesso il lavoro minaccia la coesione della società. Le soluzioni non sono facili per nessuno. Ma, in fondo, il caso Audi qualcosa insegna. La società tedesca paga un premio ai dipendenti per due buone ragioni. La prima è perché guadagna bene grazie ad automobili eccellenti prodotte in modo efficiente, segno di un sistema che sa rinnovare la propria vocazione industriale anche per effetto delle politiche pubbliche. La seconda è perché nel consiglio di sorveglianza dell’ Audi siedono i rappresentanti dei lavoratori: non perché abbiano investito nelle azioni della ditta, ma perché lo stabilisce la legge. Quando Nicolas Sarkozy auspica l’ equa tripartizione del valore aggiunto tra capitale, lavoro e fisco dimostra che anche per un francese di destra la sfida della cittadinanza passa attraverso un’ inversione di tendenza nella redistribuzione. L’ Audi aggiunge che la redistribuzione è tanto più solida quanto più potere e responsabilità sono condivisi per decisione democratica dei cittadini.

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La memoria corta di chi invoca barriere
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2008

→  novembre 16, 2006


di Massimo Mucchetti

La storia dei giornali s’intreccia da sempre con quella dei potentati dell’economia. Lo si è visto anche nella calda estate del 2005 con la scalata al “Corriere della Sera”. Ma proprio gli esiti di quel resistibile assalto e, poi, la crisi al vertice di Telecom Italia, il rastrellamento di azioni Fiat fatto dagli Agnelli e i contrasti tra Capitalia e Capitalia portano in superficie tutti i limiti della coalizione economico-finanziaria che sta a capo del primo gruppo editoriale italiano. E inducono Massimo Mucchetti – vicedirettore del “Corriere” spiato assieme all’amministratore delegato di Rcs fin dal 2004 – a chiedersi se e come possa cambiare il vecchio modello che assegna la proprietà del primo gruppo editoriale italiano a un “patto di sindacato” formato da banche e industriali, i cui interessi di fondo confliggono con quelli della libera informazione.

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→  maggio 9, 2005

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L’eredità di Alberto Beneduce, il fondatore dell’IRI

Gli anniversari sono occasioni per fare un bilancio del passato, confrontarlo con il presente, e trarne argomenti per indicare un futuro: é quello che fa anche Massimo Mucchetti ( Lo Stato , da imprenditore a cassettista, Corriere Economia del 25 Aprile) ricorrendo il 61esimo anniversario della morte di Alberto Beneduce.

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