La verità sullo Stato Azionista

marzo 31, 2015


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di Massimo Mucchetti

Il caso Pirelli ci dice che i vincoli di finanza pubblica soffocano l’idea di un vero capitalismo di stato. Idee per controllare le imprese strategiche, contro le inutili retoriche anti mercatistiche e neo liberiste.

Lunedì 23 marzo 2015, mentre il governatore Ignazio Visco teneva la relazione d’apertura al convegno sulla storia dell’Iri promosso dalla Banca d’Italia, ospite l’Accademia dei Lincei, il presidente della Pirelli, Marco Tronchetti Provera, spiegava al Corriere della Sera ragioni e modalità dell’ingresso in posizione maggioritaria di Chem-China nel capitale della “sua” azienda, la più antica e importante multinazionale italiana.
Una coincidenza assai curiosa, una novità intrigante. Eppure, la politica italiana ha reagito come sempre, oscillando tra lo sdegno urlato quanto generico per “l’Italia in svendita” e il liberismo rigido ma libresco del “questo è il mercato, bellezza!”. E invece quella coincidenza, ove se ne ascoltassero gli echi, la direbbe assai lunga sul fenomeno più importante che segna il sistema delle grandi imprese italiane nell’ultimo quarto di secolo: il Tradimento del Capitale, del capitale più che dei capitalisti. La fuga. La resa. Della funzione più che degli uomini. La Pirelli era scalabile ed è stata scalata.
Tre le ragioni principali. La prima deriva dal venir meno del patto di sindacato, orchestrato da Mediobanca a conservazione degli assetti di controllo. La seconda ragione origina dalle nuove regole prudenziali per le banche e le assicurazioni, principali alleate dell’azionista di riferimento ai tempi del patto e dopo; in seguito agli accordi di Basilea e a Solvency 2, le partecipazioni azionarie rilevanti assorbono capitale in misura equivalente al loro ammontare: troppo nell’epoca in cui l’Eba (European banking authority) e l’Eiopa (European insurance and occupational pension authority) richiedono a banche e assicurazioni mezzi propri sempre più consistenti a copertura dei rischi. La terza ma non ultima ragione proviene dai conti. Secondo Mediobanca, nel 2015 il debito consolidato della Pirelli, al netto della liquidità, scende verso i 760 milioni e l’utile prima delle imposte è atteso di uguale stazza; nel 2016 il debito diminuirà ancora a mezzo miliardo e l’utile lordo, invece, sfiorerà il miliardo. Secondo Datastream, i multipli borsistici dell’azione Pirelli sono in linea con la media dei concorrenti. Dunque, una Pirelli con simili fondamentali poteva essere scalata con profitto per lo scalatore ove l’acquisizione fosse fatta a leva, e cioè finanziandola in buona parte a debito. La cosa è puntualmente avvenuta. Seguendo la logica dei leveraged buyout. Un classico.
I soci della holding di controllo, la Camfin, da Marco Tronchetti in giù, hanno bruciato i tempi e trovato un nuovo padrone con cui condividere l’operazione: 7,4 miliardi l’offerta per l’intero capitale, coperta per 4,2 miliardi da debiti; mano a mano che la cassa generata dalla gestione consentirà di rimborsare i creditori, aumenterà in proporzione il peso della componente azionaria del valore d’impresa e dunque il prezzo dell’azione.
A termine, gli attuali soci Camfin potranno vendere a ChemChina o ad altri le loro azioni Pirelli con un guadagno nettamente superiore a quello già buono implicito nell’attuale transazione, ma solo in parte realizzato.
I leveraged buyout possono essere non sempre auspicabili da chi ritenga la crescita dell’azienda prioritaria rispetto all’interesse più immediato degli azionisti. E tuttavia restano perfettamente legittimi, tanto più quando aiutino a risolvere problemi di successione.
Come nel caso di Tronchetti, che ha 67 anni e tre figli fuori dal business Pirelli. Un Tronchetti che, peraltro, ha posto le premesse per un ampio accesso della multinazionale di Milano al mercato cinese e per evitare, se la fortuna assiste, altre scalate con l’obiettivo di rivendere a pezzi un gruppo Pirelli all’uopo depotenziato. Naturalmente, ci possiamo chiedere se un altro destino – un destino così detto stand alone – sarebbe stato possibile, incrementando molto gli investimenti, da finanziare con più debito o con aumenti di capitale, come suggerisce su Repubblica Francesco Gori, ex top manager pirelliano. In questo caso, la Pirelli si sarebbe trasformata in una public company destinata tuttavia, aggiungo io, a restare tale, e cioè indipendente, fino a quando qualcuno abbastanza ricco non la scalasse comunque.
Ma per porci seriamente una simile domanda dovremmo prima rispondere a un’altra domanda: chi ha titolo per pretendere da un’impresa privata come Pirelli, che opera in un settore a concorrenza globale e non in regime di concessione, un piano diverso da quello approvato dal consiglio di amministrazione, per quanto questo consiglio possa dirsi condizionato dalla volontà del suo leader di conservare a tutti i costi il controllo della società? La risposta è semplice: un azionista più forte di Tronchetti.
Il genovese Malacalza ci ha provato. Ma non è riuscito a conquistare la Bicocca. In teoria, avrebbe potuto contattare il Fondo strategico della Cassa depositi eprestiti. Ma il Fondo avrebbe arrischiato un intervento di rottura in un’azienda che andava bene?
Domanda retorica, non essendo la questione mai stata posta all’ordine del giorno in termini cosi radicali. Ciò non toglie che un domani, se i patti parasociali negoziati da Tronchetti e Ren Jianxin, il manager comunista che guida ChemChina, lasciassero lo spazio e i conti fossero propizi, un investimento amichevole del Fondo, a ulteriore protezione dell’headquarter e dei centri di ricerca italiani nel quadro dello sviluppo internazionale del gruppo, non sarebbe certo un fuor d’opera. In fondo, un’intesa del genere è già stata raggiunta tra il Fondo strategico e un’altra impresa cinese, la Shangai Electric, per Ansaldo Energia, azienda importante ma mai quanto Pirelli. E qui arriviamo alla questione cruciale che il governatore Visco ha posto al convegno sull’Iri parlando del presente: “Ci si può chiedere se in questa difficile fase di cambiamento della nostra economia e della nostra società non sia auspicabile una presenza pubblica, in forma diretta e indiretta, maggiore di quella che si osserva oggi”.
Ignazio Visco considera sepolto dalla storia il “sistema Beneduce” e insiste sul contesto giuridico, politico e amministrativo quale elemento decisivo per lo sviluppo delle imprese. A titolo di concessione gentile alla Nostalgia dell’Iri (copyright by Guido Rey) che aleggiava nella sala dei Lincei, il governatore ha citato lo “Stato innovatore” laddove l’autrice, Mariana Mazzucato, sottolinea il ruolo del procurement della difesa americana nella ricerca di base delle università dalla quale sono derivate tutte le principali componenti dello smartphone. Ma la storia ormai conclusa dell’Iri e quella tuttora in atto della Pirelli suggeriscono che alla domanda di Visco si risponda in modo più diretto di come abbia fatto Visco medesimo.
Presenza pubblica in forma diretta e indiretta significa, a mio parere, presenza diretta o indiretta dello stato nel capitale delle imprese se e quando sia conveniente per l’interesse generale. Sbaglierò ma, così servita, la pietanza risulta più saporita, dato che lo stato azionista esiste e non ascolta i vibranti inviti di Alesina e Giavazzi all’autodafé. Lo stato italiano conserva partecipazioni di controllo in un certo numero di grandi società per azioni: Cassa depositi e prestiti, Eni, Enel, Finmeccanica, Snam Terna, Sace, Fintecna, Fincantieri, Poste, StM, Fs, Anas. E intende assumerne altre nelle imprese sull’orlo del fallimento ma meritevoli di essere salvate in assenza di salvatori privati. Vedi l’Ilva.
Del resto, il capitalismo di stato nel mondo ha un peso crescente: secondo l’Economist, il 60 per cento della Borsa cinese è in mani pubbliche, il 40 per cento in Russia e Brasile, e non parliamo delle società statali non quotate come la Saudi Aramco, che vale più del pil italiano; secondo Morgan Stanley, le imprese pubbliche quotate, le cosiddette SOEs (State Owened Enterprises), hanno battuto gli indici tra il 2001 e il 2012; secondo il McKinsey Global Institute, i fondi sovrani sono i più potenti tra i nuovi power broker.
La storia dell’Iri aiuta a capire l’oggi ove si abbia la bontà intellettuale di andare oltre la critica al molto che c’è da criticare sulle indebite pressioni della politica e, talvolta, del malaffare nelle imprese statali e parastatali: a questo punto, possiamo anche darle per acquisite, tali censure. Meno scontato è verificare l’editto europeo del 1993 in base al quale l’Iri non poteva essere ricapitalizzato perché un’iniezione di denaro da parte del Tesoro sarebbe stata considerata da Bruxelles un aiuto di stato a una holding fallita, come tale distorsivo della concorrenza.
L’Iri come holding e come gruppo era davvero fallito? La risposta è no. Si poteva e si può contestare l’attualità e l’utilità dell’Iri.
Ma come si può considerare fallita, e per questa ragione immeritevole di ricapitalizzazione, una una holding la cui liquidazione ha comportato un saldo positivo di 20 miliardi di euro che diventano 24 ove si consideri il valore della Rai stimato in vista della possibile quotazione in Borsa immaginata dall’allora direttore generale, Flavio Cattaneo? E come si può invece bollare come totalmente privatistico il salvataggio della Ferruzzi-Montedison, avvenuto anche a spese di anche pubbliche nello stesso periodo, posto che il saldo conclusivo è stato uno stiracchiato pareggio, raggiunto con la “droga” dell’Opa di Fiat su giro Bonaparte, che aprì le porte della privatissima Edison alla Electricité de France, monopolio statale francese per eccellenza?
Questi numeri – assieme ai bilanci assai migliorati di Poste e Fs, bollati per decenni come carrozzoni clientelari senza speranza – ci dicono che lo Stato azionista sa guadagnare al pari di un privato, se si dà’ il vincolo del profitto anziché prefiggersi l’obiettivo di redistribuire i margini a dipendenti e fornitori.
E’ curioso che oggi si sfidi il fantasma del Gepi, la “gallina che covava uova di pietra”, avviando una società statale dei turn around e si tema ancora il fantasma dell’Iri. Forse è anche una questione di uomini.
Nel suo intervento al convegno dei Lincei, Romano Prodi ha riferito il racconto delle origini dell’Iri che gli fece un testimone del tempo, Pasquale Saraceno: “Il Duce ci convocò e ci chiese di fare qualcosa per le imprese, non ci disse molto di più”. Nel 1933, le imprese maggiori erano in pancia alle banche fallite e rischiavano di fallire anch’esse in quanto azioniste indebitate delle banche medesime. In realtà, a Palazzo Venezia era già arrivato nel 1931 un appunto firmato dal banchiere Toeplitz, ma scritto da Raffaele Mattioli. che prospettava l’attribuzione della proprietà di queste imprese a una holding pubblica e la nazionalizzazione delle banche, che diventavano solo commerciali lasciando a istituti specializzati il credito finanziario. E sopra Mattioli stava Beneduce, l’inventore dell’Ina, del Crediop e dell’Icipu. Un gigante. Ma l’aneddoto di Prodi, che voleva riproporre con understatement bolognese l’eterna rincorsa tra il caso e la necessità, tra l’improvvisazione e la strategia, segnala anche la qualità del rapporto fiduciario tra il capo del governo e i grand commis, ai quali chiedeva la competenza dei capitani d’impresa e non la fedeltà delle camicie nere, del resto improbabile in un socialista riformista e nazionalista come Beneduce e in un liberale anarchico come Mattioli che, alla Comit, dava ufficio agli antifascisti laici. L’aneddoto di Prodi voleva certo riproporre per l’Iri, con understatement bolognese, l’eterna rincorsa tra il caso e la necessità, tra l’improvvisazione e la strategia. Come tutti i politici, Mussolini andava a spanne.
E però a chi si rivolgeva il Duce? A un manipolo di grand commis di altissima levatura, ai quali chiedeva competenza da capitani d’impresa e non fedeltà da camicia nera, del resto improbabile in un socialista nazionalista e riformista come Beneduce e in un liberale anarchico come Mattioli che, alla Comit, dava ufficio e stipendio agli antifascisti laici.
Visco ha ricordato che l’”opzione di restituire ai privati tutte le imprese rimase sul tavolo fino al 1937”. Aggiungo che, nei primi anni, avvennero numerose privatizzazioni.
Ma poi la vendita si fermò per mancanza di acquirenti all’altezza. E’ toccato a chi scrive ricevere copia di tre lettere di Beneduce a Mussolini che Enrico Cuccia conservava nel cassetto della sua scrivania in Mediobanca e talvolta sventolava davanti ai suoi interlocutori.
Documenti che mancano al fondo Iri presso l’Archivio di stato e che, suppongo, costituiscano un regalo di Pasquale Saraceno al banchiere. Queste lettere danno conto delle riunioni dei vertici dell’Iri con Agnelli, Valletta, Pirelli, Motta e Cini sui destini della Sip, la Società idroelettrica piemontese.
L’Iri l’aveva posta in vendita. I privati chiesero una dote di 700 milioni di lire e Agnelli, a parte, pretendeva pure la Gazzetta del popolo per realizzare, avendo già avuto dal fascismo La Stampa, il monopolio dell’informazione torinese.
Beneduce, che sapeva far di conto, consiglio’ a Mussolini di lasciar perdere e questi – me lo raccontò Francesco Cossiga attribuendo la cosa al suo amico Cuccia, che l’avrebbe appresa da Saraceno – concluse con uno stentoreo: “Non diamogli niente; questi grandi industriali non se la meritano: sono solo dei gran coglioni!”. Sono passati 72 anni da quell’episodio, eppure la storia si ripete. Negli anni Novanta, un numero troppo alto di imprese privatizzate è finito a industriali italiani che, in tal modo, volevano diversificare i propri investimenti distogliendo risorse monetarie e intellettuali dal core business e non di rado esagerando con la leva del debito. Buona parte, poi, degli imprenditori che meritoriamente hanno comprato imprese pubbliche per crescere nel loro settore – è il caso della siderurgia – hanno fallito. E da ormai un lustro ogni volta che viene posta sul mercato dei diritti di proprietà una grande impresa italiana nessun investitore italiano si fa avanti. Per carità di patria, risparmio l’elenco. E però non vorrei sentire citare, come strepitoso contraltare nazionale, la vicenda Fiat-Chrysler, storia di grande successo per gli azionisti, assai meno, finora, per il paese, basti guardare alle case automobilistiche americane e tedesche.
Il fatto è che le famiglie imprenditoriali descrivono tutte una loro parabola la quale, presto o tardi, si conclude con la cessione dell’azienda o della partecipazione di controllo.
In questa fase storica, il testimone non può venire rilevato da altre famiglie se la dimensione è davvero grande. Ma nemmeno da banche e assicurazioni, perché il Testo unico bancario del 1993, che aveva anche questo tra i suoi obiettivi, è stato via via svuotato dagli accordi di Basilea. E Solvency 2 ha terminato l’opera con le compagnie. Si tratta di accordi multinazionali ed extraparlamentari, fatti da burocrazie autoreferenziali, senza volto e senza responsabilità né politiche né patrimoniali, le stesse che, pur essendo preposte alla sorveglianza dei mercati, non avevano intercettato la crisi finanziaria del 2007-2008. E gli investitori istituzionali? I fondi comuni sono ormai un sono ormai un equivoco che non porta veri denari alle imprese ma, in compenso, dà luogo a un centro di potere opaco com’è Assogestioni. (Grazie al record day, una follia dei nostri tempi, i fondi votano anche senza avere le azioni depositate in assemblea; Assogestioni, pur rappresentando niente in termini di capitale investito in azioni italiane, orienta il voto dei fondi esteri e rischia di vincere le assemblee…).
La Borsa estrae risorse dalle società quotate più di quante ve ne faccia confluire.
Ecco perché parlo di Tradimento del Capitale più che insistere nella polemica, ormai stucchevole e datata, sul tradimento dei capitalisti.
Sulla carta, dunque, all’Italia resterebbe lo stato azionista. Ma lo stato italiano presenta oggi tre deficit drammatici.
Primo, i governi non hanno mai elaborato il lutto dell’Iri e non possiedono la cultura dello stato azionista moderno che, invece, ha dimostrato di possedere perfino la Casa Bianca di fronte agli effetti della crisi di Wall Street sull’industria automobilistica americana. Tirano per la giacca ogni giorno la Cassa depositi e prestiti senza capirne granché. Secondo, i governi hanno smantellato le tecnostrutture in grado di svolgere il lavoro sofisticato di holding di partecipazioni. Il servizio Partecipazioni del ministero dell’Economia e’ debole.
La Cassa depositi e prestiti non ha mandato. Peggio, l’idea di togliere al ministero dell’Economia la competenza sulle nomine per attribuirla a Palazzo Chigi rivela che di una seria tecnostruttura non si sente nemmeno l’urgenza. Ai vertici delle aziende pubbliche non mancano bravi manager, ma dove sono i Beneduce, i Menichella, gli Oscar Sinigaglia, gli Agostino Rocca, i Reiss Romoli, i Di Veroli, i ministri come Jung, che avevano anche un’idea di paese e allora portarono la rivoluzione manageriale nelle imprese riempiendo di contenuto gli indirizzi fatalmente generici del Duce? Il terzo deficit è il più visibile perché riguarda il capitale. I vincoli di finanza pubblica soffocano l’idea stessa di uno stato azionista. A meno che, avendo fatto le scelte culturali del caso, non si tentino strade nuove. Con il voto maggiorato nelle assemblee sociali, la soglia dell’Opa obbligatoria al 25 per cento e, magari, una sana controriforma del record day, lo stato potrebbe conservare il controllo delle imprese dove lo ritiene necessario ma, al tempo stesso, smobilizzare una parte cospicua delle sue partecipazioni.
In tal modo, costituirebbe una dotazione finanziaria di alcune decine di miliardi con la quale reagire in questa fase storica, domani si vedrà, al Tradimento del Capitale.
Non mancherà la reazione ragionieristica dove non bastesse l’arroccamento veteroliberista che, peraltro, chiude gli occhi sulla nazionalizzazione di Edison e Pirelli a opera di stati esteri: ma i dividendi che oggi Eni, Enel e compagnia pagano al Tesoro?
Certo, in prima battuta verrebbero in parte meno. Ma lo stato che torna a fare il Salvatore di imprese malmesse da restituire poi al mercato, mi pare guardi al futuro. E allora più coerenza intellettuale e più respiro strategico: perché vendere il 5 per cento dell’Enel per fare cassa anziché venderne il 15-18 per cento per un grande progetto?

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