La banda larga senza terza via

febbraio 9, 2010


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Il mercato è in grado di finanziare ben altro che una rete in fibra ottica, oppure lo Stato dovrebbe assumere il pieno controllo – Altre soluzioni sono un pasticcio

Il tema della banda larga si intreccia con quello del rapporto tra pubblico e privato nelle attività economiche. Quindici anni fa, la Stet di Agnes e Pascale lanciò il progetto Socrate, per indebitare l’azienda, e mettere i bastoni fra le ruote della privatizzazione. Da allora, molte cose sono cambiate, in economia e in tecnologia: lo Stato è uscito da molte imprese, il digitale è entrato dovunque, nel radiomobile e internet. Ma il problema è sempre lì: se lo Stato interviene nel mercato per il controllo societario, si inceppa il mercato per finanziare le iniziative. Il modo che oggi si sta escogitando per aggirare l’ostacolo, vale a dire la costituzione della “società della rete” con una robusta presenza dello Stato, non risolve il problema, anzi aumenta ancora il grado di ambiguità.


Con la privatizzazione, la rete è diventata di proprietà di Telecom: ma i modi e i tempi in cui l’azienda provvede al suo ammodernamento è giudicato inadeguato per le esigenze del Paese. Se non si riescono a reperire le risorse finanziarie necessarie, è perché il progetto è troppo caro in sé, o perché è troppo caro per Telecom, troppo indebitata per poter fare altri debiti, e con equilibri proprietari troppo delicati per poter fare aumenti di capitale?

Ci sono motivi per credere che il “troppo caro” voglia effettivamente dire che il flusso attualizzato dei ricavi non copre il costo del capitale aumentato del premio al rischio: anche altrove non c’è la coda di investitori che preme, l’esperienza Fastweb si è sostanzialmente fermata alla sola Milano. Se c’è eccesso nei costi previsti e/o difetto nei ricavi sperati, se le specifiche sono esagerate oppure se le tariffe sono compresse e i volumi sottostimati, dovrebbe essere comunque prioritario far quadrare i conti, se necessario riducendo irrealistiche ambizioni e rimuovendo vincoli dirigisti. E attribuendo alla rete una parte dei benefici generali (ad esempio risparmi nella Pubblica Amministrazione) che essa, a quanto viene autorevolmente confermato, dovrebbe indurre.

Invece di chiudere la forbice tra costi e ricavi attualizzati, si dà per scontato che il progetto sia redditizio e l’investimento finanziabile, purché a realizzarlo sia un nuovo soggetto, appunto la “società della rete”. Si discute se la presenza di Telecom debba essere maggioritaria o solo significativa, chi debba/possa entrarne a far parte, tra i produttori di apparecchiature, gli scavatori di condotti, i concorrenti telefonici, le televisioni, il web.2, i risparmiatori, ecc . Ma un punto è fermo: in ogni caso ci deve essere una partecipazione consistente dello Stato, qualcosa vicino al 25%.

A che fine? Perché i soci non ce la farebbero a finanziare tutta l’opera se non intervenisse lo Stato riducendo del 25% l’impegno richiesto? Oppure perché la presenza dello Stato nella compagine azionaria garantisce che l’opera venga eseguita? Nelle società con molti soci portatori di propri specifici interessi, è difficile prendere decisioni, peggio ancora se i soci sono concorrenti tra di loro: la preoccupazione di ciascuno è di attribuire a sé i vantaggi privati dell’investimento comune, e di impedire che il socio concorrente se ne attribuisca uno superiore al proprio. In tal caso, ben venga la presenza nell’azionariato di un socio – il Governo – che esplicitamente è portatore del solo interesse che l’investimento sia faccia a prescindere: è un implicito invito a trovare scuse per … accontentarlo, stare alla finestra, e lasciar diluire la propria quota di partecipazione. Così la quota del Governo aumenta, al limite diventa maggioritaria. Il cerchio si chiude, Socrate ha la rivincita: la rete è pubblica.

Quella partecipazione è una golden share, si dice. Il Governo riconosce che sarebbe ridicolo porla a garanzia della italianità della rete, dato che nessuno ruberebbe il rame dai condotti. Ma una golden share a garanzia dell’esecuzione dell’opera è un assurdo giuridico: infatti è possibile ridurre i diritti degli azionisti (sia pure a prezzo di difficoltà con Bruxelles), ma non c’è alcun modo di obbligarli a impegni non assunti. E per il rispetto di quelli contrattualmente assunti, lo stato già paga i magistrati, senza dover finanziare il 25% dell’opera. Il problema vero sono le golden share occulte, come quella che, proprio per garantirne l’italianità, è stata dispiegata nel costruire la governance di Telecom: il suo risultato è la differenza tra il prezzo di mercato e il prezzo di carico per il gruppo di controllo. Ai perduranti effetti di quella golden share nella capogruppo, si cerca di rimediare con questa nuova golden share nella società che si vorrebbe scorporare. Invece di provare a rimediare all’anomalia al piano superiore, la si ripete al piano inferiore, selezionando chi vi verrà ammesso.

Il mercato non ha problemi a collocare il rischio di impresa, finanzia ben altro che una rete in fibra ottica. Ma ci sono solo due strade, o nazionalizzare o lasciar fare al mercato: tutto il resto è pasticcio.

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