Tutti i limiti di Mediaset

novembre 9, 2006


Pubblicato In: Varie

lavoce
Due i principali provvedimenti disposti dal disegno di legge Gentiloni sul riassetto del sistema televisivo.

  • Una rete Mediaset e una Rai passano al digitale; in caso di inosservanza, la sola Mediaset deve ridurre l’affollamento pubblicitario dal 18 al 16 per cento
  • Mediaset deve ridurre la propria quota dei ricavi pubblicitari di tutto il settore televisivo – analogico, digitale, via satellite o cavo – sotto il 45 per cento.
  • Il primo provvedimento segue una sentenza della Corte costituzionale: criticabile alla luce delle mutate condizioni tecnologiche, ineccepibile quanto a legittimità.
    Il secondo invece, quanto a legittimità, è un’anomalia, unica nella storia dei rapporti tra governo e industria privata nel nostro paese e, credo, in ogni società occidentale: imporre a un’impresa il taglio di un quarto del suo fatturato, oltretutto senza che neppure un qualche addebito possa esserle mosso. Un’anomalia conseguenza di un’errata considerazione della natura del mercato televisivo; in contrasto con la realtà dei mercati europei; che discende da infondati timori sulla futura evoluzione del mercato; e dà luogo a una lettura politica che nuoce al governo.

    La Tv, mercato a due versanti
    Come le carte di credito, le agenzie matrimoniali, le piattaforme software, la Tv è un “mercato a due versanti”. Cosiddetti perché l’impresa che vi opera mette in contatto due gruppi di utenti posti su due versanti opposti: per le carte di credito i negozianti e i loro clienti, maschi e femmine per le agenzie matrimoniali (eterosessuali), sviluppatori e utilizzatori di applicativi per le piattaforme software, telespettatori e inserzionisti pubblicitari per le Tv. Considerare che cosa succede in uno solo dei due mercati può portare a giudicare anticompetitive pratiche commerciali o fusioni aziendali che invece aumentano il benessere dei consumatori.
    L’innovazione tecnologica ridefinisce continuamente i mercati e mette in concorrenza segmenti prima isolati. La digitalizzazione, diminuendo i costi di riproduzione e di trasmissione, riduce il potere di mercato dei broadcaster, determinante diventa avere i contenuti. Separando il momento della registrazione da quello della riproduzione, finisce la tirannia dell’orario, diventa spuntata l’arma della controprogrammazione con cui le reti si fanno concorrenza. Facendo pagare i contenuti, elimina la non escludibilità, una delle caratteristiche che definiscono un bene pubblico. Fino a qualche anno fa, le autorità antitrust consideravano ogni piattaforma trasmissiva di per sé: oggi che nelle abitazioni sono presenti diverse piattaforme, occorre considerarle parti di un unico mercato. Anche in Italia l’ Antitrust oggi riconosce che “a mano a mano che progredisce la migrazione delle frequenze dall’analogico al digitale, la distinzione fra i due mercati, analogico e digitale, tende a essere sempre meno corrispondente alla realtà”.
    Se il mercato è unico a prescindere dalle piattaforme, unico è il versante degli ascoltatori, unico è anche quello delle risorse – da pubblicità, da canone, da abbonamento – che consentono di produrre e trasmettere i contenuti.
    La teoria economica e la prassi delle autorità ritengono sbagliato considerare il solo mercato della pubblicità nella Tv generalista, come invece fa il governo. Variano le strategie dei concorrenti. Gli operatori pubblici sono sottoposti a vincoli che limitano fortemente, e alla Bbc del tutto, la possibilità di attrarre quote elevate di investimenti pubblicitari. Il canone può essere visto come il prezzo pagato dal committente Stato per trasmettere i contenuti del servizio pubblico. Le pay-tv ottengono la parte prevalente dei loro ricavi sul versante dell’audience, mentre le imprese free-to-air li ottengono sul versante pubblicitario. La diversa struttura del prezzo fa sì che nelle pay-tv la quota di investimenti pubblicitari sia superiore alla quota dell’audience. Ne deriva che la quota calcolata sul solo versante della raccolta pubblicitaria rappresenta un indicatore distorto e inaffidabile della posizione di mercato degli operatori.
    Fatti e analisi largamente condivisi, che il governo fa mostra di ignorare. Sul totale delle risorse, Rai e Mediaset hanno rispettivamente 33 e 36 per cento, con Sky al 21 per cento, il resto alle locali e Telecom. Ma per il governo esiste solo il mercato della pubblicità televisiva, in cui Mediaset ha una quota del 57 per cento, Rai del 27 per cento.

    Il confronto europeo
    In Francia Tf1 e in Gran Bretagna Itv hanno quote di pubblicità superiori al 45 per cento che il governo impone a Mediaset; Rai e corrispondentemente Mediaset, hanno singolarmente share di audience che altrove sono più suddivise; tuttavia questo non comporta rendite monopolistiche, dato che Mediaset fa pagare agli inserzionisti pubblicitari ciascun punto di share di ascolto meno di quanto facciano pagare le televisioni commerciali free-to-air negli altri paesi. Per Rai invece il rapporto tra quota dei ricavi pubblicitari e share è superiore al valore medio calcolato per le televisioni pubbliche dei diversi paesi.

    Duopolio nell’analogico, duopolio nel digitale?
    L’articolo 23 della Gasparri dà ai titolari di reti analogiche nazionali il diritto esclusivo di acquisire frequenze per realizzare i multiplex per il digitale. La Commissione europea l’ha sanzionato, e il governo avrebbe potuto porvi rimedio (già nella Finanziaria). Questo privilegio va eliminato perché nega un diritto ai nuovi entranti, non perché così si rischia di riprodurre il duopolio nell’era del digitale. Il duopolio era figlio dell’epoca della scarsità delle frequenze, non può riprodursi nell’era della scarsità dei contenuti; e il governo ha ampia possibilità di mettere limiti. La convergenza delle piattaforme, la continua rivoluzione prodotta dalle tecnologie, rende questo esito implausibile. È di questi giorni la notizia che Google potrebbe l’anno prossimo superare la televisione nella raccolta pubblicitaria.

    Implicazioni politiche
    Il limite del 45 per cento del totale dei ricavi pubblicitari imposto a Mediaset è in contrasto con il paradigma, universalmente accettato dalla dottrina, del mercato a due versanti e della convergenza delle piattaforme. È persin più basso della quota di singole Tv private europee, per non parlare del totale del mercato privato; fa pagare al concorrente privato la velleità costruttivista di uscire da una struttura di mercato – quella del broadcaster con tre reti – modellata sull’impresa pubblica: a decretare la fine del duopolio saranno le forze della tecnologia e del mercato, che invece paradossalmente il disegno di legge frena.
    Mancando ogni spiegazione economica, resta la spiegazione politica: che attiene non all’azienda, ma alla sua proprietà; non all’azienda in quanto tale, ma in quanto sotto il controllo azionario del capo dell’opposizione. Così facendo l’esecutivo danneggia sia gli altri azionisti, sia quanti hanno votato perché al governo del paese andasse chi l’avrebbe guidato con competenza, rispetto dei diritti, attenzione al mercato, per lo sviluppo. Gli uni e gli altri devono amaramente constatare di essere minoranze.

    Invia questo articolo:
    • email
    • LinkedIn



    Stampa questo articolo: