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→  novembre 25, 2009

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da Peccati Capitali

Perché non si mette il crocifisso nei tram? Quello che sta nelle aule scolastiche ha fatto nascere il problema: se levarlo per rispetto a chi è di religione diversa, oppure lasciarlo come segno dell’identità culturale del Paese. La discussione si è poi impennata su temi alti, diritti di maggioranze e minoranze, tolleranza e multiculturalismo. Sta però il fatto che i crocifissi su cui si discute sono solo quelli che si trovano nelle aule scolastiche e in quelle dei tribunali: la ragione per cui sono solo lì e non altrove può aiutare a capire in che cosa veramente consista il problema.

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→  ottobre 28, 2009

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da Peccati Capitali

Pare del tutto infondata l’accusa del Times, che l’Italia avrebbe pagato un capo talebano per non attaccare i nostri soldati: quel capo l’abbiamo fatto fuori noi con i Mangusta. Dato che è una bufala, approfittiamone per fare un discorso astratto, senza tirare in mezzo i ragazzi che combattono una guerra così giusta e così disperata. Chiediamoci: se non fosse una bufala, ci sarebbe da scandalizzarsi? Le guerre si combattono per ideali, ma si fanno per interessi. Con l’interesse si comprano spie, si rompe l’omertà di mafiosi e terroristi; su ricatti e riscatti si tratta per non dover continuare a pagare.
Assoldare capi tribù, usare la loro ambizione per controllare il territorio, lo hanno fatto tutti, Inghilterra e Italia compresi, all’epoca delle colonie: a maggior ragione dovrebbe essere una buona tattica oggi che l’obbiettivo non è dominare ma liberare. Certo meglio che arricchire i talebani lasciandogli il controllo della produzione di oppio a casa loro, e garantendogli alti prezzi con il proibizionismo a casa nostra. Ce la caveremo dicendo, come Roosevelt di Somoza, che i talebani sono tutti figli di puttana, ma che quelli sono i nostri figli di puttana?

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→  ottobre 19, 2009

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di Sergio Romano

Il caso del regista Roman Polanski è davvero molto penoso.
Sul piano umano, è triste che una persona di 76 anni venga perseguita per un reato che ha commesso trent’ anni prima. Sul piano sociale, la mobilitazione del mondo del cinema a difesa di un suo appartenente evidenzia, se mai ce ne fosse bisogno, come gli atteggiamenti di critica sociale che il cinema pretende di esprimere guardino non all’ etica ma al botteghino. Infine, il più penoso di tutti è l’ atteggiamento che si esprime nell’ assunto: gli stupratori non sono tutti uguali. Se si considera che in Italia è stato condannato a due anni un uomo reo di avere messo le mani sulle natiche di una donna appare chiaro il paradosso di difendere chi ha abusato di una ragazzina tredicenne.

Francesco Deambrois

Anche a me non è piaciuto lo spirito con cui alcuni intellettuali, uomini politici e rappresentanti del mondo dello spettacolo sono accorsi alla difesa di Roman Polanski. Lo hanno fatto con spirito di corporazione e, implicitamente, con la convinzione romantica che il genio abbia diritto alle sue sregolatezze: un atteggiamento che in questa vicenda mi è parso completamente fuori luogo.
Debbo confessarle tuttavia che altri aspetti di questa storia mi sono piaciuti ancora meno. Non mi è piaciuta ad esempio l’ improvvisa insistenza del procuratore californiano in un caso che, a giudicare dalle circostanze, era stato per molti anni informalmente archiviato. Non mi è piaciuto che la magistratura svizzera abbia tenuto in prigione sino al ricovero in ospedale, prima di pronunciarsi sulla richiesta di estradizione, un uomo che risiede nella Confederazione e avrebbe potuto facilmente ottenere gli arresti domiciliari. In un articolo apparso sul Riformista del 1° ottobre Franco Debenedetti osserva che la Svizzera è sempre stata «terra d’ asilo» e si chiede se l’ atteggiamento assunto verso Polanski non abbia qualche rapporto con le difficoltà della Confederazione dopo l’ offensiva del Tesoro americano contro i conti segreti di una delle maggiori banche svizzere.
Non mi è piaciuto infine che un vecchio reato venga giudicato oggi con criteri alquanto diversi da quelli che prevalevano nel periodo in cui fu commesso. Sarebbe giusto ricordare che gli anni Settanta furono quelli della «liberazione» sessuale, dell’ amore libero, dei «figli dei fiori», delle battaglie per la legalizzazione della droga. Sarebbe giusto osservare che la vittima, a quanto pare con l’ assenso della madre, frequentava registi e produttori cinematografici nella speranza di un provino. Un articolo recente del New York Times ricorda che in «Manhattan», un film del 1979, una ragazza dice all’ uomo di cui è l’ amante da qualche anno (Woody Allen nella parte di un quarantaduenne sceneggiatore televisivo): «Oggi ho compiuto 18 anni. Sono legale eppure mi sento ancora una ragazzina». Si potrà osservare che la Lolita di Woody Allen, a differenza della tredicenne di Polanski, era consenziente. Per questo appunto Polanski, se non fosse fuggito, avrebbe passato in prigione 41 giorni. Oggi, tuttavia, non se la caverebbe probabilmente con meno di cinque anni. È questa la ragione per cui esistono (e dovrebbero essere restaurate là dove sono state soppresse) le prescrizioni. Anche la morale è soggetta alle mode, agli umori del tempo, alle correnti di opinione. Noi stiamo attraversando oggi, a dispetto di certe libertà e licenze conquistate negli ultimi trent’ anni, un periodo particolarmente puritano. E la sentenza di Polanski, se venisse estradato, sarebbe puritana. Ma ciò che appare giusto oggi non sarebbe stato giusto 33 anni fa.

ARTICOLI CORRELATI
Polanski e la Svizzera
di Franco Debenedetti – Il Riformista, 1 ottobre 2009

→  ottobre 1, 2009

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Se la Svizzera cessa di essere “terra d’asilo”

Caro direttore,
nella vicenda Polanski, ci su cui ci si divide è scegli debba pagare per il suo delitto, o se invece, vuoi per il tempo trascorso, vuoi per i suoi meriti artistici, gli debbano essere risparmiati processo e possibile pena.

Ma così non si coglie il punto, che non riguarda né la morale né l’estetica, mai! diritto, l’applicazione degli accordi internazionali in materia di estradizione. Quasi tutti i Paesi hanno accordi bilaterali in materia, certamente inghilterra e Francia, evidentemente la Svizzera.

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→  settembre 14, 2009

La storia

di Alberto Arbasino

«Sventare gli sventramenti!» fu per decenni il motto di tanti architetti post-fascisti, per cui andava demolita addirittura la Piazza Augusto Imperatore, benché non bisognosa di interventi urgenti.
«Solo cocci e coccetti» minimizzavano invece i modernizzatori, per cui in ogni metropoli storica e contemporanea si demolisce e scava per venire incontro alle esigenze del Progresso, senza lasciarsi paralizzare da pseudo-ostacoli di non grande valore culturale.
Per decenni, poi, con andamento variabile, i giornali più progressisti denunciavano le potenti lobbies di costruttori che «infettavano» la Capitale e il Campidoglio con elargizioni elettorali e individuali e scambi di favori enormi fra il Catasto e la Casta.
L´affare del Pincio è apparso presto spiacevole e inutile, perché sfasciare un sito così illustre e perfetto solo per guadagnare qualche centinaio di posti-auto diventa ridicolo in una città ove circola un milione di macchine.
Forse converrebbe scavare sotto il letto del Tevere, l´unico sottosuolo romano ove forse non si troverebbero «domus» o anfore. È stato fatto sotto la Manica: ci sarebbero tanti costi e problemi in più?

La «pedonalità del Tridente» sembra un vano pretesto, quando proprio le rampe del Pincio sono diventate un sito di rimorchio minorenne con rock a volumi competitivi, anche per mignotte venute da lontano. Ma lì basterebbero un paio di transenne e di vigili, senza altre iniziative. E magari spendere i fondi per tenere l´intera Villa Borghese in condizioni meno schifose, semmai.
Ma del resto, a detta di taluni residenti, l´intera Piazza del Popolo era più carina quando era piena d´automobili ferme, multicolori e luccicanti sotto l´obelisco. Certamente meglio che adesso, volgarmente sfruttata come contenitore di enormi e ripugnanti impalcature e ponteggi incessantemente montati e smantellati e martellati per gazebi pubblicitari da stadio o da circo, per «eventi» fragorosissimi e assordantissimi per bambini e venditori di schifezze senza alcun nesso o rispetto per Valadier e i suoi «spazi» urbani e civici.

Tanti anni fa, pure, quando dalle periferie si proclamava «Riprendiamoci la città» dopo le lunghe paure stradali negli anni di piombo, e centinaia di giovani partivano di lontano per sedersi sulla scalinata in Piazza di Spagna e lì fare i cori di montagna, invano si richiedeva ai responsabili comunali di abbellire le principali piazze periferiche di scalinate analoghe in facsimile, visto il successo del prototipo. Ovviamente, ad opera delle maestranze bravissime e disoccupate di Cinecittà. Macché multipli, sentenziavano gli assessori. (E anche Fellini, credo). Mentre – come luoghi di socializzazione e coinvolgimento – sarebbero costati pochissimo, oltre a introdurre un post-moderno laico e non clericale nelle borgate pasoliniane non più di teenagers «zozzetti».
I sottosuoli urbani, in Italia e in tutta l´Europa, sono pieni di muretti romani in serie che vengono presto chiamati «Domus». Così come ogni sartoria è ormai una «Maison», e dunque incute riguardi. Per esempio, a Vienna, scavando davanti al Palazzo Imperiale, si sono rinvenuti dei mattoni con calcina che hanno subito causato la pedonalità intorno a un catino archeologico che solo un certo garbo civico e turistico evita di usare come un «posacicche». Qualcosa di analogo dev´essere capitato sotto l´Auditorium romano, dove al rinvenimento dei muretti antichi si imputa l´innalzamento del progetto originario, sacrificando le scale mobili (ormai costanti in ogni multisala per ragazzini), e il foyer-bar come luogo d´aggregazione per anziani che devono restar seduti se non sono disposti ai cento scalini giù e su dalla biglietteria.

I critici architettonici del Ventennio fascista, pure approvando i molti edifici razionalisti in mattoni e travertino dei loro invidiati maestri, giustamente non perdonano gli scatafasci causati dalla Via dell´Impero.
Così come sono inescusabili e inespiabili le demolizioni sabaude intorno all´atroce Vittoriano, benché imbellettato e vezzeggiato adesso come orribile attrazione turistica.
Ma ancora più orribile risulta adesso la biasimata «teca» sull´Ara Pacis. Perché rivisita, con un brutto «senno del poi» i travertini già intollerabili ai tempi del Duce e del film «peplum» della Romanità-a-Cinecittà. (Come già a Los Angeles, dove arrivando al Getty Museum si esclama «Fabiola! Spartacus! Scalera Film! Torna, Alessandro Blasetti, tutto è perdonato!»).
Perché poi bastava mettere a norma la teca precedente, discreta e vetrata e restaurata dai Rotary, così come si conservano gasometri e pastifici e rimesse tranviarie non griffate di quella stessa epoca. Invece di costruire muraglie presuntuose e fontanelle massicce che cancellano ogni vista sulle due celebri chiese di qua e sul Tevere di là. Per cui, avendo qui le dichiarazioni di architetti illustri contro la Piazza Augusto Imperatore nel suo complesso e assetto precedente, bisognerebbe sentire chissà quali «esperti». Abbattere le arroganti «ali laterali», che servono soprattutto a mostre e convegni clientelari di livello bassissimo? Affidare ai più lodati graffitisti della scena romana la decorazione di quegli insopportabili muri bianchi del Duce? Dai treni tiburtini e tuscolani si vedono interessanti «specimens». E se comunque si rammentano le ormai attempate stizze degli specialisti contro il resto della medesima piazza, c´è davvero da ridere. Ah, ah, vecchi cucù.

ARTICOLI CORRELATI
Il Pincio e i talebani dell’urbanistica
di Franco Debenedetti – Vanity Fair, 17 settembre 2008

→  maggio 27, 2009

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da Peccati Capitali

“Only the paranoids survive” era il motto di Andy Groves, il fondatore di Intel, primo produttore mondiale di microprocessori, i motori di computer e cellulari. Ma potrebbe essere il motto di Silicon Valley, quel concentrato di imprese dove le idee circolano vorticosamente, e ha successo chi arriva prima, conquista una testa di ponte nel mercato, la allarga innovando, tutti con la paranoica ossessione che ogni giorno può nascere qualcuno che ti detronizza con un’idea migliore.

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