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→  agosto 24, 2008

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Il dibattito sulla proposta dei voucher si allarga

Il modello applicato in Svezia è l’unico che ha dato risultati positivi in Occidente: il cardine è la libertà delle famiglie. L’idea di una macchina fondata sull’uniformità non garantisce più la meritocrazia. A Londra c’è chi pensa di abbandonare gli A-level

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→  agosto 22, 2008

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di Giulio Tremonti

Caro direttore,
ho letto con molto interesse l’articolo di Ernesto Galli Della Loggia sulla scuola.

Nell’articolo l’autore sostiene — tra l’altro — che sarebbero stati «impunemente tagliati i fondi destinati alla istruzione» perché non si sa «a che cosa questa scuola può davvero servire ». Non è così. Nei primi sei mesi del 2008 il prodotto interno lordo italiano è sceso verso lo zero, mentre il deficit pubblico è salito verso il 3%. Dato questo, non c’erano e non ci sono alternative alla scelta di ridurre la spesa pubblica. Tutte le voci di spesa pubblica sono in sé meritevoli: la sanità, le pensioni, l’assistenza sociale, i lavori pubblici, la sicurezza, la difesa, l’istruzione ecc., ma l’interesse generale non è la somma impossibile degli interessi particolari. La novità della Finanziaria per il 2009-2011 non sta comunque tanto nel fatto che le voci di spesa sono ridotte in assoluto, quanto nel fatto che ogni ministro può fare, all’interno del suo bilancio, la sua finanziaria, finanziando o definanziando le voci di spesa che considera più meritevoli. E’ così anche per la scuola. Per inciso: sulla scuola i cosiddetti tagli sono solo l’allineamento progressivo agli standard europei.

Per la verità, l’intervento di Galli della Loggia va oltre la questione dei tagli perché vede nella scuola italiana l’emblema dell’incertezza che in negativo caratterizza il tempo presente. E’ così. Ma non è così solo in Italia e non è irrilevante rispetto a questa incertezza il fatto che tutte le ideologie introdotte dal ’900, tanto quelle fondamentali — il socialismo, il fascismo, il comunismo — quanto quelle marginali — il nullismo del ’68 ed il mercatismo liberista — sono, al principio di questo nuovo secolo, in crisi, tutte rifiutate dai giovani che cercano altri, nuovi, diversi valori. Può essere invece il ritorno al passato e all’800, e molti segni sono in questa direzione, può essere che dall’attuale «marasma» prenda inizio un nuovo futuro.

Tornando alla scuola vorrei fare due proposte non economiche. La prima è sui voti. La seconda è sui libri.

Il ’68 ha portato via i voti sostituendoli con i giudizi. I numeri sono una cosa. I giudizi sono una cosa diversa. I numeri sono una cosa precisa, i giudizi sono spesso confusi. Ci sarà del resto una ragione perché tutti i fenomeni significativi sono misurati con i numeri. Un terremoto è misurato con i numeri della scala Mercalli o Richter. Il moto marino è misurato in base alla scala numerica della «forza», la pendenza di una parete di montagna in base ai «gradi», la temperatura del corpo umano ancora in base ai «gradi». La mente umana è semplice e risponde a stimoli semplici. I numeri sono insieme precisi e semplici. Il messaggio che trasmettono è un messaggio diretto. Se gli stessi fenomeni — terremoto, moto marino, pendenza, temperatura corporea — fossero espressi non con numeri ma attraverso frasi complesse con finalità descrittive, il messaggio resterebbe impreciso. E’ esattamente quello che accade nei due segmenti di base e perciò fondamentali della nostra scuola, quello elementare e quello medio. Qui non ci sono più i numeri perché al loro posto sono stati inventati i giudizi. Tra numeri e giudizi c’è una differenza profonda. Ogni valutazione deve mettere capo a una classifica. Questa è la logica della valutazione. Se non c’è una classifica, non c’è neanche una reale valutazione. Nella scuola inglese, ad esempio, gli studenti sono addirittura classificati in un ordine rigido. In ogni classe esiste un primo classificato, un secondo classificato e così via. Mi sembra francamente un’esagerazione. Ma non mi sembra affatto un’esagerazione tornare a dare i voti come una volta: 10, 9, 8, e cosi via, perché la verità è semplice; dare un giudizio senza una classifica significa non dare affatto un giudizio reale. Il voto non esprime un arbitrio ma al contrario obbliga l’insegnante e l’alunno ad assumersi precise responsabilità, a produrre una sintesi dei diversi materiali che stanno alla base di una valutazione di un allievo. Dove non c’è un voto, non viene fornita una reale informazione sul reale andamento scolastico dello studente, né a quest’ultimo né alla sua famiglia.

La logica del giudizio senza vincoli numerici è troppo spesso una logica dell’irresponsabilità, dell’ambiguità, del detto- non detto, dell’interpretazione casuale. I numeri possono, tra l’altro, riflettere una «media». Invece con gli aggettivi e gli avverbi di cui sono riempiti i cosiddetti giudizi si fa solo confusione. In sintesi c’è un numero da togliere e ci sono dei numeri da introdurre. Il numero da togliere è il numero 1968, sintetizzato in 68. I numeri da mettere: 10, 9, 8, 7, 6 etc. L’idea che mi pare giusta è quella di mettere al posto dei «nuovi» giudizi i «vecchi » numeri. Il giudizio può accompagnare il voto, renderlo chiaro, esplicitarlo, in una parola motivarlo. Ma non può sostituirlo. Nella loro strutturale imprecisione i giudizi da soli sono normalmente causa di confusione.

Per come sono strutturati e «bizantinati », basati su formule che tendono ad essere ipocrite, psicopedagogiche, tautologiche, caramellose, offensivo-giudiziarie o presunte tali, i giudizi sembrano fatti apposta per mandare fuori di testa i genitori o per stendere i ragazzi sul lettino dello psicanalista o per portarli tutti insieme da un avvocato che ti predispone il ricorso — quasi sempre vincente — davanti al Tar. Tutto questo mina gravemente un fondamento tradizionale della nostra società, che è quello del rapporto necessario di autorità e insieme di fiducia che ci deve essere tra l’allievo, la famiglia e l’insegnante. Si figuri poi quando gli insegnanti sono tre o quattro per ogni classe. E poi dopo i voti i libri. Nella scuola italiana da troppo tempo (e non era così prima: è un effetto negativo della «modernità») i libri di testo cambiano con una frequenza forsennata e parossistica. Cambiano per scelta del docente, ma cambiano soprattutto perché gli editori stampano quasi ogni anno una nuova edizione di ciascun testo, in modo che quelli dell’anno precedente diventano automaticamente vecchi — fa più fino dire obsoleti — e con ciò sostanzialmente inutilizzabili. Su questa pratica si possono dire due cose essenziali: è ingiustificata; è contraria agli interessi delle famiglie.

Ingiustificata perché non vi è alcuna reale esigenza didattica per il cambio annuale dei libri di testo. Le scuole non sono dottorati di ricerca dove si è sempre sulla frontiera del cambiamento.

A livello di scuola elementare, media e superiore la matematica è quella di sempre. Quella dell’Ottocento e del Novecento. Sappiamo bene che la frontiera della scienza non è ferma, che avanza continuamente. E tuttavia sappiamo che la base necessaria e sufficiente per l’apprendimento scolastico non muta e non avanza necessariamente da un anno con l’altro. La stragrande maggioranza dei contenuti di insegnamento della matematica, della storia, della letteratura, resta stabile durante lunghi periodi di tempo. Sicuramente non cambia per periodi di cinque anni. Laddove vi sono reali cambiamenti si può prevedere che a manuali «consolidati» per cinque anni vengano aggiunte delle piccole appendici che riportino i fatti nuovi che siano davvero rilevanti o le nuove scoperte scientifiche. Solo questo tipo di manuali dovrebbe essere adottato. Certo, ci sono anche le novità nel metodo di insegnamento. Non pare che abbiano funzionato granché bene se emerge per esempio che il 60% degli alunni italiani dovrebbe essere bocciato in matematica. Se la realtà è questa vuol dire che a essere bocciati non dovrebbero essere solo gli allievi ma anche i loro professori o più in generale la scuola nel suo insieme, metodi di insegnamento «avanzati» compresi. A fare gli esami non dovrebbero essere solo gli alunni ma anche la scuola nel suo insieme. Il cambio annuale dei libri di testo è poi contrario all’interesse delle famiglie. Impedisce di passare i libri dai figli più grandi ai più piccoli, come era una volta. O di comprare i libri sul mercato dell’usato. Dopo essere stati utilizzati un anno solo, i testi diventano inutili.

Tra l’altro questa pratica disabitua gli studenti a trattare i libri con cura, a considerarli oggetti di valore e dunque degni di attenzione. I libri non possono essere un prodotto usa e getta. Nel 2004 sul Corriere ho scritto un articolo sull’«E-book». L’ obiezione che mi fu fatta era sulla sacralità del libro. Era un’ obiezione fondata.

A me sembra che quello della scuola italiana si presenti come un mondo fatto al contrario. Un mondo in cui non è la scuola a servire le famiglie, ma il «kombinata buro-scolastico» a servirsi di loro salassandole per sopravvivere esso stesso. Una volta c’era un maestro per tre classi. Adesso ci sono tre maestri per una classe. Era meglio prima o è meglio adesso? È un kombinata che si nutre con le tasse e che lavora contro la famiglia: più figli hai, più sei costretto a pagare la tassa odiosa e impropria dei libri «nuovi » che ti costano ogni anno centinaia di euro. Forse anche questa, a favore dei «vecchi» voti e contro i «nuovi» libri è una frontiera di quel cambiamento che la gente chiede. Un cambiamento che non è un salto nel vuoto, come nel ’68, ma un ritorno al passato. Al buon senso e alla logica, ai valori e alle tradizioni di un passato che deve e può tornare.

ministro dell’Economia

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di Mariastella Gelmini

Caro direttore Giusto e ingeneroso. Così mi appare l’editoriale di ieri di Ernesto Galli Della Loggia sulla scuola italiana e la sua crisi. Giusto nell’analisi sulla condizione della scuola di oggi, nel cogliere la sua «perdita di senso». Dal 1968 a oggi la scuola è diventata quello che non può e non deve essere: un ammortizzatore sociale, una macchina erogatrice di stipendi per giunta inadeguati per gli insegnanti. Una tipografia di diplomi inutili e inutilizzabili per gli studenti. Un mostro burocratico produttore di normative e circolari che si contraddicono l’una con l’altra. In quarant’anni di ideologia «politicamente corretta», di dominio ideologico della sinistra, la scuola è diventato tutto questo e ha perso il senso della sua missione: la formazione culturale e professionale dei giovani e, insieme, la costruzione del futuro di una nazione. Galli della Loggia è però ingeneroso quando accusa il governo di considerare la scuola niente più che un inutile costo da tagliare. Da quando ho assunto la responsabilità di ministro ho avanzato alcune proposte per cambiare uno stato di cose non più tollerabile. Voglio ricordarne alcune. Voto di condotta, divisa scolastica, insegnamento dell’educazione civica, ritorno al maestro unico, rilancio degli istituti tecnici e della formazione professionale. Autorevolezza, autorità, gerarchia, insegnamento, studio, fatica, merito. Sono queste le parole chiave della scuola che vogliamo ricostruire, smantellando quella costruzione ideologica fatta di vuoto pedagogismo che dal 1968 ha infettato come un virus la scuola italiana. Idee che anche il ministro Tremonti ha esposto in una recente intervista. Tutto questo passa per un’indispensabile e difficile ristrutturazione della scuola, di cui il governo, e in particolare chi scrive, si sono assunti la responsabilità.

Ho condiviso finalità e misure della manovra economica del governo per i prossimi tre anni, oggi legge dello Stato; quella manovra prevede di ridurre il numero degli insegnanti e del personale ausiliario di meno del 10% entro il 2011. In un Paese che ha oggi il più elevato numero di addetti della scuola ben un milione e 300mila in rapporto al numero degli studenti, è la prima cosa da fare per riorganizzare la scuola. Non possiamo pensare di cambiare fino a quando ci rassegneremo all’idea che il 97% delle risorse destinate alla scuola serve a pagare stipendi bassi e appiattiti. Inoltre abbiamo introdotto un principio nuovo e virtuoso: un terzo dei risparmi sarà destinato a investimenti per migliorare la scuola, per cominciare a spargere i semi del merito e dare un senso alla parola autonomia. Sta in queste considerazioni la nostra visione di una scuola che riconquisti il senso della sua missione, che restituisca al futuro la parola speranza, che rimetta al centro il merito e la responsabilità. Nella mia audizione alle commissioni parlamentari ho parlato della necessità di tornare alla «quarta I» di italiano, intesa come letteratura, storia, tradizione, cultura. Noi vogliamo una scuola che insegni a leggere, scrivere e far di conto. Una scuola in cui si torni a leggere I Promessi Sposi e dove non si dica più che lo studente dovrà «padroneggiare gli strumenti espressivi ed argomentativi indispensabili per gestire l’interazione comunicativa verbale in vari contesti». Ringrazio Galli della Loggia per avermi riconosciuto buona volontà, e nel ringraziarlo gli chiedo di riconoscere a me, a tutto il governo e alla maggioranza una visione, una cultura, un’idea dell’Italia e del suo futuro, e, insieme, un progetto per la scuola italiana. Un progetto che, non mi stancherò mai di ripeterlo, è aperto a tutti i contributi e vorrei vedesse tutti i protagonisti della scuola studenti, insegnanti, famiglie consapevoli del fatto che è impossibile difendere lo status quo e partecipi di un corale impegno, un impegno nazionale, per restituire alla scuola il senso della sua missione, ministro dell’Istruzione

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La crisi di un’istituzione

di Ernesto Galli Della Loggia

Tra neppure un mese la macchina della scuola italiana ricomincerà a macinare lezioni ed esami. Una gigantesca macchina fatta di circa un milione di dipendenti, di migliaia di edifici frequentati da milioni di studenti, pronta anche quest’anno ad allestire milioni di iniziative le più varie, a sfornare tra circolari, lettere, verbali e registri, il solito astronomico numero di tonnellate di carta. Una macchina gigantesca, appunto. Ma senz’anima: che non sa perché esiste né a che cosa serva, e che proprio perciò si dibatte da decenni in una crisi senza fine. Crisi la cui gravità non è testimoniata tanto dai pessimi risultati ottenuti dagli studenti della nostra scuola nei confronti internazionali, ma da qualcosa di più profondo e di più vero. Dal fatto che essa si sente un’istituzione inutile e in realtà lo è: apparendo tale, e dunque votata ineluttabilmente al fallimento, innanzi tutto alla coscienza dei suoi insegnanti, dei migliori soprattutto.

La scuola italiana non riesce più a conferire alcuna autorevolezza a nessun fatto, pensiero, personaggio o luogo di cui si parli nelle sue aule. Non riesce più a creare o ad alimentare in chi la frequenta alcun amore o alcun rispetto, alcuna gerarchia culturale. E perciò non serve a legittimare culturalmente — e cioè ideologicamente o storicamente— più nulla: non il Paese o il suo passato, la sua tradizione, e tanto meno lo Stato, la Costituzione, il sistema politico: nulla. Si possono tranquillamente frequentare le sue aule e non essere mai sfiorati dal sospetto che l’azione del conte di Cavour, o il Dialogo sopra i massimi sistemi, o una terzina del Paradiso rappresentano vertici d’intelligenza, di verità e di vita, posti davanti a noi come termini di confronto ideali, ma anche concretissimi, destinati ad accompagnarci in qualche modo per tutta l’esistenza. Il sintomo politico più evidente della crisi in cui versa la scuola è il sostanziale disinteresse, venato di disprezzo, di cui, al di là di tutte le chiacchiere di maniera, essa è ormai circondata dall’intera classe dirigente, a cominciare per l’appunto dalla classe politica.

Se il responsabile del Tesoro può impunemente tagliare i fondi destinati all’istruzione, infischiandosene di ogni possibilità di commisurare i risparmi alle esigenze di qualcuna delle ipotesi di cambiamento proposte dal volenteroso ministro Gelmini, ciò accade precisamente perché in realtà Tremonti, come tantissimi altri suoi colleghi, non sa a che cosa questa scuola possa davvero servire, e in essa non riesce a vedere altro che una macchina erogatrice e sperperatrice di risorse. Come di fatto, peraltro, essa rischia ormai di essere. La verità è che la scuola pubblica che l’Europa conosce da due secoli non è solo un sistema per impartire nozioni. Nessuna scuola autentica del resto lo è mai stata: deve impartire nozioni, come è ovvio, ma può riuscirvi solo se insieme—aggiungerei preliminarmente — è anche qualcos’altro, e cioè se al suo centro vi è un’idea, una visione generale del mondo. La scuola pubblica europea è nata intorno al compito di testimoniare un’idea del proprio Paese, i caratteri e le vicende della collettività che lo abita, sentendosi chiamata a custodire l’immagine di sé e gli scopi di una tale collettività. 

Non può esistere una scuola pubblica mondial-onusiana, una scuola italiana che parli in inglese o esperanto. Un sistema d’istruzione pubblico appartiene sempre a un contesto culturale nazionale. Questo è il punto, dunque qui sta il cuore del problema: alla fine, nella sua sostanza più vera, la crisi della scuola italiana non è altro che la crisi dell’idea d’Italia. E’ lo specchio della profonda incertezza di coloro che a vario titolo la guidano o le danno voce – i governanti, gli apparati dello Stato, gli imprenditori, gli intellettuali, l’opinione pubblica – circa il senso e il rilievo del suo passato, circa i suoi veri bisogni attuali e quello che dovrebbe essere il suo domani. Il profondo marasma della nostra scuola, il grande spazio preso in essa dal burocratismo, dalle riunioni, dalle questioni di metodo, dalle futilità docimologiche, a scapito dei contenuti, è lo specchio di un Paese che non riesce più a pensarsi come nazione da quando la sua storia ha attraversato negli anni ’60-’80 la grande tempesta della modernizzazione.

E’ da allora che l’idea del nostro passato si sta dileguando insieme alla consapevolezza dei suoi grandi tratti distintivi. E non a caso è da allora che è diventato sempre più difficile anche organizzare il presente e immaginare il futuro. Da qui, per esempio, ha tratto origine la crisi che ha colpito a suo tempo le tradizionali culture politiche della democrazia repubblicana, e sempre qui sta oggi la difficoltà di vederne sorgere di nuove. Da qui, anche, la generale sensazione d’immobilismo che abbiamo da anni, quasi che dopo il trauma della modernizzazione non sapessimo più ritrovarci, non riuscissimo più a riprendere il bandolo della nostra storia e dunque non riuscissimo più a muoverci. Negli anni ’90 la cesura che era andata producendosi nei tre decenni precedenti è venuta finalmente alla luce: ha definitivamente preso forma un’Italia nuova, ma questa Italia nuova non riesce più a pensare se stessa, non riesce più a pensarsi come un intero, come nazione, a progettare il suo futuro, perché non riesce più a incontrare il suo passato.

Riappropriarsi di questo passato e della propria tradizione per ritrovarsi: questo è il compito urgente che sta davanti al Paese che sa e che pensa. Ed è alla luce di questo compito che esso deve ripensare anche l’intera istituzione scolastica, la quale solo così potrà riavere un senso e una funzione, e sperare di tornare alla vita. Ridare profondità storico-nazionale alla scuola, ma naturalmente in vista delle esigenze che si pongono all’Italia nuova di oggi e tenendo conto dell’ambito e dei contenuti propri degli studi. E cioè, non volendo sottrarmi all’onere di qualche indicazione, mirare innanzi tutto a ricostituire culturalmente (e per ciò che riguarda l’istituzione anche organizzativamente) il rapporto centro- periferia e Nord-Sud, riaffermando il carattere multiforme ma unico e specifico dell’esperienza italiana; in secondo luogo porre al centro, ed esplorare, il nostro tormentato rapporto con la modernità e i suoi linguaggi, mettendone a fuoco debolezze e punti di forza e cercando anche in questa maniera di costruirci un modo nostro di stare nei tempi nuovi, di averne l’appropriata consapevolezza senza snaturamenti e scimmiottamenti; e infine ribadire la funzione della scuola nella costruzione della personalità individuale, principalmente attraverso l’apprendimento dei saperi, delle nozioni, e la disciplina che esso comporta.

Tutto ciò facendo piazza pulita delle troppe materie e degli orari troppo lunghi che affliggono la nostra scuola, e ricentrando con forza i nostri ordinamenti scolastici intorno a due capisaldi: da un lato la lingua italiana e la storia della sua letteratura, cioè intorno alla voce del nostro passato, e dall’altro le matematiche, cioè il linguaggio generale del presente e del futuro universali. A questo punto ci si può solo chiedere: esiste un governo, esistono dei ministri in Italia? Personalmente mi ostino a pensare di sì. E a credere che ogni tanto gli capiti perfino di ascoltare i gridi di dolore, come questo, che si levano dai giornali.

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→  agosto 16, 2008

Riscoperto da Tremonti, è stato un mariuolo, un guitto o il primo comunista della storia?
Palalexus, Cortina D’Ampezzo

Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e la sua Robin Tax hanno riportato in auge l’eroe inglese Robin Hood che, secondo la leggenda, “ruba ai ricchi per dare ai poveri”. Anche se nell’Italia del Terzo Millennio si parla di social card e l’Inghilterra del XII secolo è assai lontana, rimane il solito problema: condannare o assolvere?
A dare vita al processo in piazza organizzato da Cortina Incontra, ci pensano Franco Debenedetti nei panni del Pubblico Ministero, Piero Sansonetti come avvocato difensore, Enrico Cisnetto in qualità di Presidente del Tribunale e Federico Della Rosa, ovvero Robin Hood.

[flv]http://www.francodebenedetti.it/http%3A/www.francodebenedetti.it/wp-content/uploads/video/c_incontra.flv[/flv]

L’intervento in PDF

→  agosto 14, 2008

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The UK, a country famous for its love of tradition, has begun one of its summer rituals. Every year, just as the grouse-shooting season starts, there is a mass outbreak of grousing about school exams not being as hard as they used to be.
Results from the A-level exams, taken by school leavers at 18, were released on Thursday. It is increasingly difficult to tell top students apart because one-quarter of all papers now receive the maximum A grade. Part of the problem is that A-levels are used to judge the performance of the government, of schools and of children. It is unsurprising that it measures none of their performances very well.

This aspect of the problem could be dealt with easily. The people with the greatest incentive for accuracy in grades are universities and colleges, so they should be given control of the exam system. But the debate about exam results misses the big picture.
Educational systems vary between England, Wales, Scotland and Northern Ireland, but they should all receive a failing grade. They get mediocre results on international tests and they all widen, rather than narrow, the gap between the poor and the middle class. Although Britain has an open economy and society, its social mobility is rigid. This is more than a moral dilemma, it is a huge economic problem.
A great number of young British people leave school lacking basic numeracy and literacy and, even in the recent period of record growth, have tended to drift directly into unemployment. This is a scandal. The British school system needs a radical overhaul.
The leading light in school reform is Sweden. The education system there is funded by vouchers. If parents wish to change school, they have the right to do so, and to take state funding with them. Schools must compete with one another to attract pupils. Any education provider has the right to set up a new school. Competition between schools is the key.
Despite endless cant about “choice”, the UK educational system stifles competition. In most areas of the country, local schools are closely controlled by a single local educational authority. They are cartels that actively prevent schools from competing.
In Sweden, good schools can expand and anyone can set one up. Both are technically possible in the UK, but local government rules advise against them if they mean more unfilled places at local schools. Banning the creation of extra places guarantees that children at bad schools have nowhere to go and stamps out competition.

Mechanisms for paying good teachers more than bad teachers and rewarding rarer skills (such as maths and science) are also too weak. Effective educational reform should mean an end to uniform national pay deals for teachers.
The evidence suggests that adopting the Swedish model would make the average UK school better, and lift weaker schools most of all. The opposition Conservative party has pledged to introduce it. But the challenge for any party bent on real reform is how to get there and still get elected. Sharp shocks that destabilise the system could turn parents and teachers against change.
School management must be dealt with carefully. British schools are, at the moment, incapable of running themselves and third party providers do not yet have the capacity to take many over. Expanding the City Academies programme must be part of the answer to how we achieve a network of independent schools. The academies scheme was a Tony Blair-era innovation that allowed private providers to take over individual failing state schools, as a way to inject competition into educationally backward areas. The Tories are right to have identified a big expansion of academies as a means of moving Britain closer to the Swedish model at a pace the sector can handle.
Their liberal position contrasts sharply with that of Ed Balls, schools secretary, who has reduced the academies’ freedoms and is setting them up under the control of the local cartels with which they are supposed to compete. Mr Balls is pandering shamefully to the left.
Allowing schools to decide on teachers’ pay will, at some stage, mean a confrontation with the unions. The government will probably need to increase school spending to cushion the cost of far-reaching reform, but also to counter union charges that this is slashing and burning public services.
While Conservative economic proposals are tainted with populism, their plans for schools and skills are on the right track. The state of British schools is little short of a national disgrace. Mr Balls still has time to avoid going down as the man who missed the reform boat.

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