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→  febbraio 10, 2006

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di Antonio Padellaro

«Lei ha spaccato l’Italia», diceva l’altra sera rivolto a Silvio Berlusconi, Franco Debenedetti, senatore dei Ds. E lo ripeteva con tale garbata, efficace arrabbiatura che per un momento il premier si è ammutolito come folgorato da una scintilla di vergogna, subito però affogata nell’abituale mare di parole. Eravamo a “Otto e mezzo” e Debenedetti manifestava la delusione di quei riformisti che cinque anni fa avevano sperato nel programma liberale con cui Berlusconi aveva vinto le elezioni, salvo poi amaramente ricredersi. Sulla linea dell’Unità Debenedetti, spesso, non si è detto d’accordo imputandoci (come altri, del resto, nella sinistra) un eccesso di radicalità nell’opposizione all’autocrate di Arcore. Questo avveniva prima, perché oggi nella frase di Debenedetti su colui che ha spaccato l’Italia ci riconosciamo completamente a dimostrazione che, riguardo a Berlusconi, la realtà, nel frattempo, ha superato ogni immaginazione (e perfino i nostri titoli) mettendo tutti d’accordo. L’avversione contro il peggior governo che si ricordi non è però il solo cemento che tiene insieme il centrosinistra, come la destra vorrebbe far credere.

Primo. L’Unione ha un candidato leader unico, Romano Prodi, scelto da tutta la coalizione e legittimato dagli oltre tre milioni di cittadini che hanno scritto il suo nome alle primarie dello scorso ottobre. La destra ha tre diversi candidati premier visto che, come ha spiegato Gianfranco Fini, in caso di vittoria elettorale salirà al Quirinale chi avrà ottenuto anche un solo voto più degli altri. Berlusconi è avvertito.
Secondo. Se vince, Prodi governerà per l’intera legislatura. In caso di crisi, si torna alle urne. Su questo c’è un preciso accordo tra i leader della coalizione.
Terzo. L’Unione ha un programma comune le cui priorità saranno illustrate oggi, a Roma, da Romano Prodi. Del programma della Casa delle libertà, invece, nessuna notizia.

In mancanza di meglio, quelli della Cdl calcano la mano sulla defezione di Emma Bonino (in disaccordo su fondi alle scuole private e sulla non piena accettazione delle unioni civili), sulla protesta di Boselli (per le stesse ragioni), sui mugugni di Mastella (per i motivi opposti).

Questo proverebbe il carattere raccogliticcio dell’Unione e dunque, per Prodi, l’impossibilità di dare vita a un governo stabile e autorevole. Ha ragione dunque Fini quando ironizza sull’impossibilità di far camminare insieme il no global Caruso con il monarchico Fisichella? Si potrebbe facilmente ribaltare l’argomento sulla destra dove, tra gli incroci più bizzarri, si segnalano quelli tra Calderoli, teorico della pura razza padana, e il siciliano Lombardo. Ma lì siamo al carnevale mentre la coesione possibile tra i nove o dieci partiti del centrosinistra è un problema reale che va affrontato seriamente e senza sottovalutarne i rischi.

Non è tanto un problema di adesso poiché, più ci si avvicina al 10 aprile e più lo spirito di coalizione verrà rafforzato dall’imperativo categorico di battere Berlusconi. Insomma, le perplessità della Bonino, di Boselli, di Mastella non sembrano, per ora, destinate a creare fratture irreversibili. Complici le liste proporzionali ciascuno tirerà l’acqua al suo mulino.
Però, senza esagerare. Ma dopo, se si vince, come farà il presidente del Consiglio Prodi a tenere insieme spinte e interessi tanto diversi, senza doversi impegnare ogni momento in logoranti mediazioni?
La prima risposta è contenuta nel programma. Che rappresenta gia un vincolo difficilmente superabile poiché i punti fondamentali (economia, diritti, politica estera, questioni etiche) sono stati sottoscritti da tutti. La seconda risposta sta nella volontà effettiva di governare insieme per cinque anni, senza trucchi, senza sgambetti. Esiste questa volontà? E quanto essa è forte?

Avrete notato che fino a questo momento non abbiamo fatto cenno a Rifondazione comunista. Eppure è su questo partito che, in genere, vengono formulate le maggiori preoccupazioni di tenuta, diciamo così, governativa. Con qualche fondamento. L’esperienza del primo governo Prodi, per esempio, quando dopo molte fibrillazioni il Prc ritirò i suoi voti con quel che ne seguì. Poi, il carattere socialmente «antagonista» di questa sinistra, incline a confliggere con le ragioni del centro moderato dell’Unione ( Margherita e Udeur). Infine, la presenza sotto le bandiere con la falce e il martello di quell’area no global e dei centri sociali che turba i sonni di chi vigila sulle Olimpiadi di Torino, incarnata come meglio non si potrebbe dal disobbediente Francesco Caruso.

Sull’argomento abbiamo letto due commenti in qualche modo speculari, pur se pubblicati da giornali di orientamento molto diverso. Secondo Sergio Romano (Corriere della Sera) è inutile che la sinistra riformista chieda a Rifondazione di mettere ordine fra le sue truppe perché ciò non e politicamente possibile. Si deve, dunque, in qualche modo accettarne l’ambivalenza pregando Dio che a Prodi non si ripresenti un altro ‘98. Dell’articolo di Piero Sansonetti (Liberazione) basta citare, invece, il titolo quanto mai espressivo: «Cosa si rimprovera al Prc? L’indipendenza». Ovvero: noi non rispettiamo le solidarietà di ceto politico e dunque né Fassino né Rutelli pensino di normalizzarci.

Su queste premesse Prodi e i futuri governanti dell’Unione avrebbero certo di che riflettere se al centro di tutto non ci fosse Fausto Bertinotti. È lui che ha stretto il patto con Prodi. Lui che lo ha sostenuto e fatto approvare dal suo partito affrontando un’agguerrita opposizione interna del 40 per cento. Ed è sempre il segretario, stando alle cronache dell’altra sera, ad essere stato il più convinto sostenitore del progetto che oggi Prodi illustrerà all’Eliseo. Se si pensa al passato può sembrare un paradosso ma, oggi, Bertinotti rappresenta una forte garanzia per il futuro governo dell’Unione. E per la sua stabilità.

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9 febbraio 2006

→  febbraio 5, 2006

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Partito Democratico

di Michele Salvati

Al dibattito sul Partito democratico nuoce un poco la commistione tra argomenti relativi a problemi di convenienza politica contingente e argomenti relativi alle idee, ai programmi, alla cultura che questo partito dovrebbe esprimere. Il primo tipo di argomenti è di solito riferito al centrosinistra e alle strategie più opportune per favorirne il successo elettorale. Il secondo tipo è quasi sempre declinato in riferimento al Paese: come il Partito democratico possa contribuire alla costruzione di un sistema politico più efficace, che elimini o riduca le storture che ci portiamo appresso dal passato, che immetta nella nostra politica una ventata di novità.
La commistione di argomenti è inevitabile. Come discussione politicamente significativa – c’era anche prima, ma riguardava solo pochi aficionàdos – quella sul Partito democratico nasce come conseguenza di una operazione politico-elettorale, e nell’ambito delle convenienze strategiche create dalla legge elettorale maggioritaria: la formazione della lista dell’Ulivo e la decisione di candidare Prodi come premier alle elezioni politiche del 1996. Si parte dunque dal «contenitore» e dalla convenienza a costruirlo. I «contenuti», l’anima, vengono dopo, un po’ per la spinta di Prodi, un po’ per la partecipazione degli aficionàdos di cui dicevo, e soprattutto per dare un senso all’alleanza tra i riformisti del centrosinistra. Riformisti che in larga misura provenivano da partiti che l’anima l’avevano lasciata nella Prima repubblica: quali erano, nella Seconda, le ragioni che giustificavano l’autonomia di un partito ex comunista ed ex democristiano?
Insomma, ragioni di contenitori e di contenuti si sono mischiate sin dall’inizio del dibattito, hanno continuato ad accavallarsi nelle sue numerose riprese provocate dalle iniziative di Romano Prodi, e si intersecano tuttora, nella discussione che si è accesa – solo tra gli aficionàdos, naturalmente, visto che Prodi non è intervenuto – a seguito di un mio lungo appello ai Ds che il Riformista ha pubblicato martedì scorso.
Discussione di cui anche questo giornale ha dato notizia mercoledì e a cui ha contribuito con l’articolo di De Rita pubblicato ieri. Che cosa dicevo? Due cose, in sostanza. Le ragioni di contenuto ci sono sempre: un Partito democratico non solo avvantaggerebbe il centrosinistra ma sarebbe utile per il Paese. Le ragioni di convenienza elettorale si sono invece molto ridotte colla nuova legge: se si vuol fare questo partito bisogna farlo presto, subito dopo le elezioni e finché dura la luna di miele della vittoria (se ci sarà), e bisogna accompagnare il tentativo con un ritorno al maggioritario. Le reazioni più impegnative e più argomentate che ho sinora ricevuto non riguardano il ragionamento sui contenitori: tutti riconoscono che le convenienze elettorali di una fusione tra i grandi partiti del centrosinistra sono diminuite e quelle dei singoli partitile della Margherita soprattutto, sono aumentate. Questo sposta la spinta per il Partito democratico tutta o quasi sui contenuti: esistono veramente buone ragioni storico-culturali per farlo? E, soprattutto, possono queste ragioni essere espresse e rappresentate da ex comunisti ed ex democristiani di sinistra, da Ds e Margherita, che dovrebbero essere i principali promotori dell’ iniziativa?
Si tratta di interrogativi che lo stesso appello provocava sostenendo una tesi all’apparenza paradossale: che il terreno comune dell’incontro non poteva essere altro che una cultura liberale, di sinistra ma liberale, perché è ormai questa la cultura dominante dei partiti riformisti nei Paesi europei, anche dei partiti socialdemocratici.
Il paradosso, mi faceva notare Biagio De Giovanni (ma anche, parlando di programmi concreti. Franco Debenedetti), sta nel fatto che nella Prima repubblica comunisti e democristiani sono stati tra i principali ostacoli alla diffusione di una cultura liberale nel nostro Paese e non si può dire che i loro successori abbiano fatto passi definitivi in questa direzione: «liberale» non è un insulto nella sinistra italiana come lo è in quella francese, ma talora poco ci manca. È una obiezione forte, lo riconosco, ma vale a maggior ragione se ex democristiani ed ex comunisti sono lasciati ognuno nel proprio contenitore, a cuocere nel proprio brodo: non potrebbe una fusione «calda», cui partecipassero molti enzimi della società civile, essere una buona occasione per sciogliere le resistenze che ancora rimangono?

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Lettera aperta ai miei compagni
di Michele Salvati – Il Riformista, 31 gennaio 2006

→  gennaio 31, 2006

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Cari Ds, ascoltate uno di voi – Subito il partito democratico

di Michele Salvati

Sono iscritto al Pds-Ds sin dall’origine di questo partito, dal congresso di Rimini del 1991. Con Salvatore Veca, ho contribuito a… indovinarne il nome (Partito democratico della sinistra), anche se poi esso fu adottato per motivi contingenti e sbagliati. Se si va a rileggere il nostro appello dell’estate dell’89 (pubblicato su uno degli ultimi numeri della vecchia Rinascita, con un titolo che potrebbe essere riutilizzato ora per il partito democratico: Se non ora, quando?), si vede però che noi non avevamo nulla contro il socialismo – anzi, dicevamo chiaramente che il socialismo democratico aveva vinto la sua sfida contro il comunismo – e non ci interessava molto la polemica contro i socialisti italiani. Quella polemica fu invece determinante nell’adozione del nome che avevamo proposto, che non conteneva, ma per tutt’altre ragioni, gli allora esecrati termini «socialismo» o «socialdemocratico». Gli argomenti principali di quell’appello sono gli stessi che muovono me ora (e credo anche Veca) a sostenere un’ulteriore trasformazione, quella finale, la confluenza entro un grande partito democratico.Nel Pds e poi nei Ds ho militato – il termine mi piace poco, ma è quello che si usa – lealmente sempre e spesso appassionatamente in questi quindici anni. Insieme a un piccolo gruppo di compagni, in esso ho condotto la mia battaglia politica per il partito democratico, testimoniata dagli scritti raccolti nel libro omonimo (Mulino, fine 2003). Ho fatto parte dei suoi organi direttivi e sono stato suo parlamentare durante la legislatura in cui il centro-sinistra ha avuto responsabilità di governo. Ho imparato ad apprezzare l’eredità di passione, impegno e onestà che il nuovo partito riceveva, insieme ad altri lasciti che mi piacevano meno, dal partito comunista. Insomma, anche se per temperamento sono assai poco partigiano, i Ds sono stati sinora la mia casa politica.
Perché questi riferimenti personali, che non mi sono consueti e che qualcuno potrebbe giudicare un poco fastidiosi? Perché vorrei si capisse bene che questo è un appello rivolto ai Ds e che viene dall’interno e da lontano. E’ la proposta di un iscritto al partito, sia pure in attesa di traslocare al partito democratico. Ed esprime la meraviglia che i suoi dirigenti non si rendano conto della necessità e dell’urgenza del compito che sta loro innanzi. Altri, in altri partiti riformisti, conducano la loro battaglia in casa propria: in Margherita c’è un bel gruppo che si impegna nella scia di Nino Andreatta. E altri ancora conducano la battaglia esterna, nei comitati per l’Ulivo, nelle associazioni per il partito democratico che stanno spuntando un po’ ovunque. A me, e ai sostenitori del partito democratico iscritti ai Ds, compete anzitutto cercare di convincere il nostro partito.

Un controfattuale
Necessità e urgenza, dicevo. Urgenza anche elettorale, perché ha perfettamente ragione Ilvo Diamanti (Repubblica, 22/01/06) a sostenere che gli elettori non ci capiscono niente in una lista unitaria alla Camera e liste di partito al Senato: o ci si presenta uniti sempre – e allora il partito democratico è un esito scontato – o ci si presenta sempre divisi, per sfruttare al meglio le caratteristiche della nuova legge elettorale. Uniti sempre non ci si voleva presentare: forse non era neppure conveniente, bisognava prima contarsi, …e poi dov’è questa fretta? Ma divisi, per i partiti, sarebbe stato ancor peggio, perché allora la presentazione di una lista Prodi sarebbe stata inevitabile, e questo era fumo negli occhi per i Ds ma soprattutto per la Margherita. Questo punto, anche se contingente, va un poco sviluppato perché è un esempio «controfattuale» molto efficace per capire le logiche di comportamento dei nostri partiti.
Il momento magico è subito dopo le primarie. Il 17 ottobre, appena noti i risultati, Prodi poteva convocare i partiti e far loro questo ragionamento: «E’ vero, il risultato di ieri dimostra solo che nel nostro popolo c’è una gran voglia di unità, una gran voglia di partecipazione, una gran voglia di defenestrare Berlusconi, e che io gli vado bene come candidato premier. Non è ancora una domanda esplicita di partito democratico. Ma la costruzione di questo partito, per natura sua, è un esercizio di arte politica. E’ profittare delle occasioni per costruire qualcosa che ancora non c’è, per soddisfare una domanda che è ancora latente in gran parte del nostro popolo; è una proposta egemonica che compete a noi, leader del centro-sinistra, se siamo veri leader. E allora facciamo così. Diciamo con chiarezza che subito dopo le elezioni faremo il partito democratico. E che però, per profittare al meglio di questa sciagurata legge elettorale, ci presentiamo divisi, io con la mia lista Prodi, voi con le vostre liste di partito. Tutti d’accordo, però, senza conflitti, e facendo mostra di grande unità». Potete immaginare le reazioni a questo discorso, se fosse stato fatto?

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E’ ora di sdoganare la parola “liberale”i
di Michele Salvati – Il Corriere della Sera, 05 febbraio 2006

→  ottobre 6, 2005

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Proposte. Se l’Unione vince le elezioni

di Carlo Rognoni

Un auspicio: che il nuovo governo di centro sinistra cambi da subito i criteri di nomina del consiglio di amministrazione della Rai. Senza aspettare che quello attuale decada. Personalmente è da anni che dico che i partiti devono fare un passo indietro, che la lottizzazione deve finire.
E adesso leggo che tutti sembrano d’accordo:lo ha affermato il presidente Petruccioli, lo ha chiesto perfino Sabina Guzzanti (!) in un appello firmato da molti giornalisti e intellettuali. Lo ha scritto Sandro Curzi. E Romano Prodi, parlando della riforma delle Autorità di garanzia, ha avanzato una proposta che si potrebbe applicare anche alla Rai: il governo indica il presidente e il direttore generale che devono ottenere il voto di due terzi del parlamento, e questo dopo un passaggio alle Camere in cui i due spiegano perché hanno i titoli per essere scelti. E gli altri consiglieri? Forse ne bastano cinque. Li scelgano i presidenti delle Regioni, i sindaci delle dieci città più popolate d’Italia,i sindacati confederali, la conferenza dei Magnifici Rettori delle università, l’associazione dei consumatori.E si faccia in modo che anche questi consiglieri passino al vaglio di una commissione parlamentare.In questo caso
magari può bastare la maggioranza semplice dei voti. Insomma quello che conta è che si stacchi la spina che collega impropriamente le segreterie dei partiti direttamente al servizio pubblico. Una Rai governata da manager credibili e non dalla politica – ma controllata dal parlamento – avrà anche l’autorevolezza per difendere se stessa e affrontare la concorrenza molto meglio di oggi. Non vi piacciono queste proposte? Avanzatene altre! Ma per l’amor d’iddio cambiamo l’attuale legge e diamo alla Rai l’opportunità di essere gestita più dai manager che dai politici. E poi una raccomandazione: basta parlare di «privatizzazione à la Gasparri». Ma basta anche all’idea che sia sufficiente vendere una rete o due a qualche privato per avere il miglior pluralismo possibile.
E ve lo dice uno che in passato ci ha creduto alla possibilità di rompere il duopolio e di creare un terzo soggetto imprenditoriale vendendo una rete della Rai. Insomma, non sono le privatizzazioni che mi spaventano. Anzi. Quello che non mi piace è che oggi si insista pigramente su una soluzione che poteva avere un senso alcuni anni fa – negli anni dell’analogico imperante – e che con la rivoluzione digitale, con la convergenza, ha molte meno ragioni d’essere. Insistere sull’idea che per creare più mercato si debba vendere una o due reti Rai significa non aver capito che il mondo della società dell’informazione sta cambiando, anzi è già cambiato:i classici broadcaster se la devono vedere non solo con la piattaforma satellitare (certe domeniche Sky supera abbondantemente il 10 per cento degli ascolti), ma sempre di più con la Iptv,la televisione via Internet,con il Dvb-h, la televisione mobile. E’ un cambiamento che ha avuto una fortissima accelerazione negli ultimi mesi e che vedrà molto presto le società telefoniche sfidare le vecchie società televisive anche sui servizi e sui contenuti.
Ora che cosa deve fare un buon governo di centro sinistra?
Farsi carico di una riforma che risponda alla domanda di più mercato, più pluralismo, di una informazione più libera, anche nella televisione.
Si devono dunque creare le condizioni per un mercato più ricco di soggetti imprenditoriali, ma si deve anche immaginare come poterlo fare nell’epoca della convergenza. E in un modo che non sia vecchio o velleitario. La Gasparri si è messa sotto i tacchi regole e norme antitrust. Bisogna assolutamente ripristinare regole antitrust. Ma quali regole per facilitare l’accesso al mercato di nuovi entranti anziché scoraggiarlo? Ebbene negli anni della convergenza – quali sono quelli che stiamo vivendo – il mercato si difende intervenendo soprattutto su un punto di cui ancora non si parla abbastanza, e cioè sulla capacità trasmissiva della futura «rete convergente», che non comprende solo reti tv ma anche reti di tlc, fisse e mobili. Il punto debole della rete convergente è proprio costituito dalla capacità trasmissiva delle reti televisive.Quest’ultima è infatti indispensabile per servire gli utenti
in mobilità e sarà richiesta da editori, fornitori di contenuti indipendenti, broadcaster radio e Tv e anche dagli operatori telefonici mobili.
Si tratta quindi di una risorsa molto scarsa.Secondo il Piano Digitale Nazionale dell’Agcom la sua capacità potenziale è di soli 360 megabits al secondo. Molto poco, e la possibilità di razionalizzare il nostro affollato etere per raggiungere questa capacità teorica è nelle mani di chi attualmente gestisce le risorse frequenziali e ha un interesse molto limitato ad un’apertura del mercato a nuovi operatori.
E allora, per aprire davvero il mercato non dobbiamo puntare a «privatizzare reti» ma, piuttosto, a «incrementare e liberalizzare l’accesso alla capacità trasmissiva». Stabiliamo ad esempio la regola che nessun operatore che, contemporaneamente, gestisce la capacità trasmissiva, produce programmi e/o raccoglie pubblicità può disporre di più di una percentuale limitata di questo bene prezioso.Vuol dire che il numero di programmi Rai e Mediaset a regime potranno perfino crescere ma vuol anche dire che resteranno milioni di bits al secondo liberi per altri imprenditori. Per arrivare a questo risultato bisogna costringere, per esempio la Rai,a viversi sia come operatore di rete – capace di sfruttare al massimo la straordinaria quantità di frequenze di cui dispone – sia come fornitore di contenuti.Vi ricordare la società Crown Castle che entrava in Raiway? E’ la strada che va ripercorsa.Se non con gli americani con altri,magari con una società telefonica magari anche italiana. E la Rai servizio pubblico, ma non solo (nei nuovi media può benissimo cercare accordi con privati), deve tornare ad essere una grande fabbrica di prodotti televisivi,invece di trasformarsi lentamente in un supermercato che distribuisce soprattutto format di altri.
La materia è complicata e mi fermo.C’è molto altro da dire. Per esempio,è giusto affermare che bisogna togliere di mezzo il Sic. Ma per rispettare le norme europee è anche giusto che siano le Autorità indipendenti (da qui la necessità di fare in modo che lo siano davvero e non come oggi) a controllare ex post il mercato della pubblicità intervenendo duramente in presenza di posizioni dominanti. Non basta un articolo a spiegare nel dettaglio il che fare.Tuttavia mi sembra importante cominciare a ragionare sulla riforma necessaria liberandosi dalle vecchie idee, superate dai tempi della tecnologia.
A leggere D’Amico e Monaco sul Riformista mi è venuto il dubbio di essere stato arruolato nel partito Rai, il più conservatore e trasversale che ci sia. E se invece si fossero loro improvvisamente iscritti a un partito velleitario, finto riformista e finto liberal?
Ho grande stima di D’Amico e Monaco. E credo che fra i primi doveri di un buon riformista ci sia quello di capire la realtà come è e come sta cambiando e non pretendere che assomigli a quello che era e che continuiamo a immaginare. La verità è che la realtà delle nuove tecnologie della convergenza costringe a un salto culturale e politico, obbliga a vincere le antiche pigrizie. Il fatto che in passato si sia sbagliato a non privatizzare parte della Rai, non vuol affatto dire che oggi questa sia la strada da percorrere. La convergenza per qualcuno sembra di là da venire? Se ci si sente più rassicurati da una divisione della Rai,non solo fra operatore di rete e fornitore di contenuti ma anche fra una società più commerciale (che abbia gli stessi affollamenti pubblicitari di Mediaset e dunque sia più competitiva con il grande monopolista privato) e una più di servizio pubblico,si può benissimo nel breve periodo muoversi lungo questa strada. E’ una strada che fin tanto che l’analogico imperversa forse è anche giusto percorrere. Ma guai a perdere di vista il vero intervento strutturale necessario se si vuole arricchire davvero il sistema.

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di Franco Debenedetti – Il Riformista, 13 ottobre 2005

→  ottobre 6, 2005

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EDITORIALE

Noi siamo favorevoli al testamento biologico, al principio secondo il quale l’individuo e il malato cosciente possono manifestare e ottenere il rispetto della propria volontà contraria a forme di accanimento terapeutico. E’ un principio pienamente coerente con la logica liberale del rispetto dell’individuo, nonché compatibile con la dottrina della Chiesa. Basti ricordare a come Giovanni Paolo II manifestò egli per primo, il proposito che i medici che lo seguivano si astenessero dal protrarre un’agonia che avrebbe potuto solo essere volta a mantenere funzioni vitali attraverso la necessaria cooperazione di macchine extracorporee. Detto questo, naturalmente, è un atto delicato la precisa definizione di quali siano i protocolli clinici tali da poter essere specificamente compresi nella serie di quelli che il malato può ricusare ex ante.
La decisione adottata a maggioranza dal Comitato nazionale di bioetica – escludere dalla serie di trattamenti ricusabili l’alimentazione forzata – è secondo noi comprensibile e persuasiva. L’alimentazione forzata tramite sondino, assimilabile al diritto a nutrirsi, non può essere accostata al diritto a digiunare di un sano. Per il semplice fatto che una piena assimilazione delle due fattispecie porta alla conclusione di accogliere l’ipotesi del diritto al suicidio per fame. Mentre il no all’accanimento terapeutico ha a che vedere con il rispetto della dignità e della libertà del malato, ma non ha niente a che vedere con il diritto al suicidio, che è difficile comprendere nel novero dei diritti incoercibili dell’uomo.
A questa impostazione si può obiettare che nella pratica clinica molto spesso la soluzione idrosalina attraverso la quale avviene la nutrizione e l’idratazione forzata in realtà non è affatto distinta dai principi attivi farmacologici somministrati al paziente in coma per stabilizzarne le condizioni, e dunque è discutibile respingere la distinzione tra principi nutritivi e trattamenti terapeutici. Ma si tratta di un’obiezione speciosa: che nella flebo si proceda per soluzioni uniche non significa affatto che fini e sostanze somministrate siano diverse per composizione e per fine. Diversa è invece l’obiezione di chi ritiene che a tutti gli effetti il testamento biologico possa essere esteso sino a forme di vera e propria eutanasia attiva, e dunque in quel caso pienamente comprendente anche il termine da porsi all’alimentazione. Noi siamo e restiamo contrari non per la convinzione – che lasciamo alla fede di ciascuno e che comunque rispettiamo – che la vita si identifichi con il soffio divino in ogni sua manifestazione umana. Ma per la frontiera – per noi invalicabile – tra libera manifestazione del diritto a vivere con dignità, e desiderio inaccoglibile di togliersi la vita. Essa è un bene in sé che la collettività è tenuta non a imporre in ogni modo a chi ne gode o ne soffre dopo averla avuta in sorte, ma quanto meno per tentare di impedire che venga meno per disperazione o debolezza di chi non avrebbe più, in seguito, occasione di ripensare la propria scelta.

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Suicidarsi non è proibito anzi è un diritto fondante
di Franco Debenedetti – Il Riformista, 08 ottobre 2005

→  settembre 8, 2005

di Giuseppe Berta

La sinistra usa nei suoi discorsi “parole di nebbia”, con un linguaggio criptico rivolto agli iniziati della politica e un largo impiego di “schemisecondari” (quelli per cui un’affermazione non si spiega mai di per se stessa, ma va sempre situata in un contesto destinata a renderla accettabile o inaccettabile, a seconda delle situazioni), soppesando ogni termine sulla base della sua correttezza politica. Colpe gravi, che comportano un prezzo alto nell’efficacia della comunicazione politica, ma esasperate dal fatto che la sinistra nutre in sé il “complesso dei migliori”, ritenendo di dover parlare non già a tutto il Paese e alla massa degli elettori, quanto
alla sua parte migliore, quella piu’ rispettabile sotto il profilo etico.

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