La sinistra in Italia? Usa parole di nebbia

settembre 8, 2005


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di Giuseppe Berta

La sinistra usa nei suoi discorsi “parole di nebbia”, con un linguaggio criptico rivolto agli iniziati della politica e un largo impiego di “schemisecondari” (quelli per cui un’affermazione non si spiega mai di per se stessa, ma va sempre situata in un contesto destinata a renderla accettabile o inaccettabile, a seconda delle situazioni), soppesando ogni termine sulla base della sua correttezza politica. Colpe gravi, che comportano un prezzo alto nell’efficacia della comunicazione politica, ma esasperate dal fatto che la sinistra nutre in sé il “complesso dei migliori”, ritenendo di dover parlare non già a tutto il Paese e alla massa degli elettori, quanto
alla sua parte migliore, quella piu’ rispettabile sotto il profilo etico.

È questo insieme di condizioni, sostiene Luca Ricolfi, a rendere la sinistra invisa a un settore cospicuo dell’elettorato italiano, che non la voterà mai. C’e’ una vasta componente dei votanti del centrodestra che può decidersi ad abbandonare Berlusconi e i partiti della sua coalizione, com’è effettivamente avvenuto nelle elezioni regionali della primavera scorsa, negando loro il suffragio; non per questo, tuttavia, si deciderà a saltare il fosso e a scegliere il centrosinistra.
Perché? Non certo per il timore dei “comunisti”,che Forza Italia sbandiera senza più troppa convinzione e con scarsa efficacia, quanto perché la sinistra riesce antipatica a questi elettori, che si sentono discriminati dal suo messaggio politico. Dopo le tesi di Dossier Italia (Il Mulino), che hanno fatto discutere all’inizio dell’anno, Ricolfi dedica il suo nuovo saggio alla sinistra, riletta attraverso la categoria – cosi’ impolitica all’apparenza – dell’“antipatia” (Perche’ siamo antipatici? La sinistra e il complesso dei migliori, Longanesi, pp. 203, e14). Per Ricolfi siamo davanti a una questione di sostanza: e’ il sentimento di antipatia che genera la sinistra a contribuire al cattivo funzionamento del nostro bipolarismo. Infatti, il meccanismo dell’alternanza di governo si regge meglio su un corpo elettorale fluido e mobile, pronto a passare dall’uno all’altro schieramento, quando valuti criticamente l’operato del governo. In Italia, ciò non avviene: una parte dei cittadini non è semplicemente disposta a votare per il centrosinistra in quanto percepisce una sorta di cronica diffidenza nei suoi confronti. Perché non ne capisce le “parole di nebbia”, non e’ interessata agli schemi ideologici del discorso politico cari alla sinistra e non usa la sua terminologia, che è insieme sofisticata ed edulcorata rispetto alla realtà (come se per cambiare la natura di una guerra in “missione di pace” bastasse una risoluzione dell’Onu). E perché, soprattutto, avverte di non rientrare nel novero di quei “migliori” che la sinistra pretende di rappresentare, lasciando all’altra coalizione la metà meno nobile – in fondo meno “civile”- del Paese. Il gusto per l’astrattezza e l’aura di supponenza di cui si circonda rischiano, secondo Ricolfi, di indebolire la capacità di alternativa del centrosinistra rispetto a Berlusconi. Il quale ha, su di esso, il vantaggio di un linguaggio diretto, esplicito, più vicino al senso comune dell’elettore che non è un tifoso appassionato delle cronache politiche e non le segue meticolosamente, giorno per giorno, con la cura dei militanti. Si può facilmente ironizzare sulle formule del “Contratto con gli italiani” che il presidente del consiglio in carica portò al programma televisivo di Bruno Vespa nel 2001. Ma non se ne può sottovalutare il richiamo che esercitò allora, così come non si può trascurare che in esso c’è anche un possibile metro di giudizio critico sull’azione dell’esecutivo. Il libro di Ricolfi è un impietoso atto d’accusa, allo stesso tempo rigoroso e divertente grazie alla misura e all’efficacia della scrittura, nei confronti della cultura della sinistra. Si può lasciare al lettore di sbizzarrirsi a scoprire chi, fra i leader della coalizione di Romano Prodi, risulti più antipatico, servendosi del gioco delle citazioni e degli esempi proposti da Ricolfi. Si tratta comunque del saggio di uno studioso che pure, forse anche per motivi generazionali, si sente ancora legato alla sinistra, sebbene con gli anni tenda a soffermarsi sui suoi difetti più che sui suoi pregi. A Ricolfi piacerebbe un centrosinistra capace di parlare in un altro modo: è vero, dice, che nei salotti mediatici si presenta meglio del centrodestra e ha uno stile più educato, ma “il problema della sinistra è il suo modo di stare nel Paese, non nei salotti”. I politici di destra, più sguaiati nei salotti, hanno l’accortezza di parlare a tutto l’elettorato; se ingiuriano il ceto politico della sinistra, badano a non fare altrettanto coi loro elettori, dei quali ricercano i
consensi. I loro concorrenti, al contrario, sbagliano quando si rivolgono in maniera supponente alla massa indifferenziata di chi li ascolta. Dovrebbero avere più rispetto perché nessun indicatore empirico, spiega Ricolfi, conferma la predisposizione della sinistra a intercettare gli elettori più orientati verso il senso civico e di responsabilità.
Ma soprattutto chi sfida oggi Berlusconi dovrebbe preoccuparsi di comunicare una propria idea dell’Italia. È qui che si registra il deficit più grave del centrosinistra, nella difficoltà di identificarsi e di radicarsi nella storia del Paese, che lo conduce a privilegiare sistematicamente l’immagine di un’“altra Italia” – di minoranza perché migliore e più civile – rispetto a quella che la storia ha tratteggiato e ci ha consegnato. Forse per questa ragione non persuade il rimando, nelle pagine finali di Ricolfi, alla questione delle classi dirigenti, col rischio di ripristinare lo schema del “Paese senza”, questa volta senza elite degne di questo nome. Ora, non è che nell’Europa e nel mondo attuali vi siano classi dirigenti che rifulgono per la loro lungimiranza.
Di sicuro, in Italia paghiamo lo scotto di una politica che valorizza poco i meccanismi della rappresentanza e della selezione, per premiare invece la ricerca di un effetto di leadership ottenuto per via mediatica, al di fuori del riferimento ai blocchi sociali. Ecco perché varrebbe la pena di riattivare la capacità di rappresentanza sociale della politica, così da non lasciarla preda di sterili richiami etici al primato di un’astratta “società civile.

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