→ Iscriviti
→  aprile 22, 2006

il_riformista
Togliamo due reti a Rai e Mediaset. Il digitale terrestre allarga il mercato potenziale, eppure l’oligopolio non si spezza

di Michele Grillo

Quale politica per il mercato televisivo è il tema affrontato da Franco Debenedetti (Il Riformista, 6 aprile 2006) con un articolo approfondito che merita un commento. Debenedetti sembra ritenere che continuare a discutere degli aspetti strutturali del settore, benché magari in principio appropriato, possa rivelarsi altrettanto sterile quanto le proposte di deconcentrazione avanzate ripetutamente nel passato, ma mai realizzate. Inoltre, più pragmaticamente, egli ritiene piuttosto che la legge Gasparri offra un adeguato assetto normativo per regolamentare in modo concorrenziale il settore; e che, in fondo, l’unico miglioramento da apportare alla legge consisterebbe nell’eliminazione dell’articolo 21 comma 5, con il quale vengono posti limiti alla alienazione delle partecipazioni dello Stato nella Rai. Il completamento della liberalizzazione del settore, egli conclude, richiede solo di sottrarre la Rai alla politica e ai partiti. La Gasparri, a parere di FD, ha il merito: a) di affidare correttamente alla Autorità di garanzia per le comunicazioni – Agcom – la individuazione dei mercati rilevanti secondo i criteri del diritto comunitario della concorrenza e la competenza per vigilare sul costituirsi di posizioni dominanti su tali mercati; b) di indurre lo sviluppo di “altre Tv”; c) di facilitare l’ingresso di nuovi entranti obbligando gli operatori dominanti di riservare ai terzi il 40% della nuova capacità trasmissiva che si realizza con lo sviluppo del digitale terrestre.
La nostra opinione non diverge tanto dalla proposta di “dimagrimento” della Rai (sebbene rimanga da trattare l’argomento della massima importanza, che peraltro neppure FD affronta, di come offrire un servizio che sia pubblico, ma non partitico), diverge invece in modo consistente circa l’adeguatezza della Gasparri a disegnare il riassetto del sistema televisivo in modo compatibile con un contesto davvero concorrenziale.
Aspetti tecnologici. Per poter illustrare la nostra tesi è necessario chiarire alcuni aspetti tecnologici. La Tv che è entrata finora nelle nostre case si basa sulla tecnologia analogica, che consente di trasmettere, su ogni rete, un solo programma (o canale). Nell’etere c’è un limitato numero di frequenze; in Italia le emittenti hanno occupato, con le loro antenne, frequenze in modo caotico, dando luogo a notevoli problemi sia di congestione dello spettro frequenziale, sia di interferenze. In altre parole, oggi, ciascuna emittente è costretta a utilizzare molte più frequenze di quanto sarebbe necessario sulla base di un razionale Piano di allocazione delle risorse frequenziali che, diversamente che negli altri paesi, in Italia non è stato mai attuato. (E’ soltanto di alcune settimane fa la notizia che l’Agcom intende predisporre il catasto nazionale degli impianti radiotelevisivi e delle relative frequenze, per avere almeno una descrizione di una situazione caotica che si protrae da decenni). Sulla base dell’occupazione di fatto dello spettro frequenziale, un vecchio Piano predisposto nel 1992 fissava in 12 il numero massimo di reti televisive nazionali il che, in tecnologia analogica, lasciava spazio per un pari numero di canali nazionali.
Questi canali potrebbero aumentare in modo consistente se le frequenze fossero riallocate in modo ordinato; potrebbero invece anche diminuire se l’Italia, alla prossima riunione di giugno dell’International telecommunications union, fosse chiamata a risolvere i problemi di sovrapposizione delle frequenze alla frontiera e di occupazione di spazi di pertinenza di paesi vicini. Ragioneremo come se le frequenze non aumentassero, né diminuissero.
Come è noto il punto di partenza della Gasparri è la trasformazione del sistema analogico in digitale. Con il digitale terrestre su una stessa rete anziché un solo canale ne potranno passare circa cinque. Questa rete a più canali si chiama multiplex. Con questa trasformazione tecnologica c’è spazio per ben oltre cinquanta canali. La tecnologia ha allargato il mercato potenziale e la possibilità di ingresso di nuovi concorrenti. Chiarito lo scenario tecnologico cerchiamo ora di capire perché questa crescita potenziale del mercato non voglia dire automaticamente crescita della concorrenza.
Le ragioni che FD non considera adeguatamente sono, oltre alle inevitabili implicazioni strutturali della presenza di due operatori incombenti, ciascuno con il 40% del mercato, la «concentrazione delle reti» e il «mercato segmentato».
La concentrazione delle reti. Come già due anni fa aveva messo in evidenza l’Antitrust nella sua Indagine conoscitiva sul settore televisivo, l’Italia è l’unico paese, in Europa, nel quale vi sono emittenti proprietarie di più di una rete (il che, nel sistema analogico, implica più di un canale).
Con il passaggio al digitale terrestre, Mediaset verrebbe a disporre di tre multiplex e quindi di quindici canali circa, replicando l’attuale assetto del mercato, nonostante il moltiplicarsi dei canali. La Gasparri tuttavia impone che ogni operatore metta a disposizione di terzi il 40% di ogni multiplex, quindi due canali su cinque. Questa prescrizione è un’assurdità che è passata inosservata. Se c’è un’unica rete (come nel caso del gas o dell’energia) una razionale norma anti-monopolistica impone: a) la separazione tra rete e produzione; b) il passaggio di più produttori sull’unica rete. Nel caso delle Tv, come dice FD, non si può separare la rete dal produttore (anche se questa valutazione è forse appropriata al solo caso del sistema analogico, nel quale non ha senso separare la rete su cui è trasmesso il primo canale Rai o il canale 5 di Mediaset dai rispettivi canali). Ma il punto che FD non rileva è che nel caso delle Tv la rete non è una sola. E’ illogico imporre un obbligo di accesso (cioè i nuovi canali che saranno disponibili con il passaggio al digitale) su reti che restano comunque di proprietà degli attuali oligopolisti (Rai e Mediaset), giacché questi ultimi, nonostante la regolazione, restano in grado di trarre inevitabile vantaggio dalla «integrazione verticale»; sarebbe invece molto più razionale il disegno di un mercato concorrenziale che contemplasse una riduzione del numero delle reti sotto il controllo dei due operatori incombenti e la liberazione di asset frequenziali che potrebbero essere offerti all’asta a nuovi operatori; mentre le scelte degli operatori incombenti potrebbero rimanere libere per quanto riguarda le reti che restano a loro disposizione. In buona sostanza la legge Gasparri va modificata là dove non interviene sul possesso di tre reti ciascuna da parte dei due oligopolisti nel passaggio dall’analogico al digitale e cerca di rimediare alle conseguenze anti-concorrenziali di ciò, obbligando l’alienazione del 40% dei nuovi canali che con il digitale saranno disponibili sulle vecchie reti.
Mercato segmentato. Il secondo elemento che condiziona la concorrenza nei mercati televisivi è la impossibilità di superare la segmentazione dei mercati tra canali gratuiti e canali a pagamento. Non è vero, come ipotizza l’impianto della Gasparri, che esiste un unico mercato in cui chi offre canali a pagamento è in concorrenza con chi offre canali gratuiti. L’Agcom, nella sua indagine conoscitiva, ha dimostrato come le possibilità di concorrenza tra queste due piattaforme sono molto limitate. Le emittenti a pagamento «scremano il mercato» dei consumatori disposti a pagare per vedere le trasmissioni di un canale; gli altri consumatori, disposti, pur di non pagare, a sorbirsi le interruzioni pubblicitarie, sono catturati dalle emittenti che trasmettono trasmissioni gratuite. Il prodotto che quest’ultime emittenti offrono è appunto la pubblicità. In modo abbastanza sorprendente questo aspetto è trascurato completamente nell’argomentazione di FD. La moltiplicazione delle imprese a pagamento non intacca il grado di oligopolio sull’offerta pubblicitaria del segmento di Tv gratuita e la cosa non è certo senza importanza, e non solo economica.
La proposta. Il combinato disposto del progresso tecnico e della Legge Gasparri è inadatto a ridurre l’elevato grado di monopolio nel settore delle Tv gratuite e nel settore pubblicitario. Un elevato grado di monopolio in questi settori ha conseguenze negative che travalicano il settore stesso interessando il settore della carta stampata e che travalicano le mere conseguenze economiche interessando la pluralità dell’informazione e la robustezza della democrazia. La proprietà delle reti va deconcentrata con atto politico; e sono deboli i tentativi di neutralizzare le implicazioni di una proprietà concentrata delle reti con obblighi di accesso e altri interventi di regolazione da parte della Agcom. Come avviene negli altri paesi europei, ogni operatore pubblico e privato non dovrebbe possedere più di una rete che, con la trasformazione tecnologica al digitale, consente comunque di disporre di cinque canali. Ne deriva che sarebbe auspicabile una legge che imponga l’alienazione di due reti ciascuno ai due oligopolisti attuali. A queste condizioni, anche la Rai dovrebbe garantire il servizio pubblico disponendo di una sola rete finanziata con il canone, alienando le altre due reti. Al pari di Mediaset.

ARTICOLI CORRELATI
Quelli che il mercato si fa con i decreti. Ecco la frattura che attraversa la sinistra
di Franco Debenedetti – Il Riformista, 25 aprile 2006

PERCHÉ HO CAMBIATO IDEA SULLA CESSIONE OBBLIGATA DI UNA RETE A TESTA
di Carlo Rognoni – Il Riformista, 26 aprile 2006

→  aprile 21, 2006

il_riformista
Media, meno politica e più concorrenza

di Alessandro Penati

I media dovrebbero essere una priorità per il nuovo governo. Non per risolvere il conflitto di interessi di Berlusconi (un problema che va tenuto separato) o per occupare politicamente la Rai; ma per favorire la crescita di un settore trainante, con produttività e margini elevati, utilizzatore di nuove tecnologie, non esposto alla concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro. Un settore che in Europa è ancora frammentato (e dovrà consolidarsi), nel quale l´Italia, per una volta, non parte svantaggiata dal nanismo delle sue imprese.

Non serve una nuova legge. Basta modificare la Gasparri, conservandone gli aspetti positivi. Per superare il duopolio Rai-Mediaset, la Gasparri punta, correttamente, a facilitare l´ingresso di nuovi operatori e sfruttare l´innovazione tecnologica per promuovere la concorrenza delle nuove reti (telefono Dvb-h, satellite, digitale
terrestre, Adsl). La legge riconosce che tutte le reti competono per un´unica risorsa scarsa, il tempo libero dello spettatore: chi vede un film su Sky, lo scarica da Internet, o lo acquista on demand col digitale terrestre, è uno spettatore in meno per la tv commerciale.
Pubblicità, abbonamento, servizi a consumo sono modi alternativi per far pagare al consumatore ciò che desidera vedere.

Un problema di concorrenza va gestito con gli strumenti antitrust, che la legge assegna opportunamente all’Autorità: vanno potenziati e ridefiniti. C´è un vincolo di concentrazione per segmento di mercato, che è servito a sanzionare il duopolio Rai-Mediaset. E uno globale (il Sic) che si applica a chi opera su più piattaforme, come Telecom (analogica, digitale terrestre, via Internet e telefonia mobile), o nell´editoria. Ma dalla definizione attuale del Sic vanno espunte voci, come le “comunicazioni di prodotti e servizi”, utili solo a gonfiare artificiosamente la dimensione del settore.

L´azione antitrust dovrebbe garantire l´accesso alle reti, con un approccio simile al roaming, usato con successo nella telefonia mobile. Infatti, è interesse di chi controlla una rete veicolare in esclusiva i propri contenuti per valorizzarla, e presidiare quante più reti possibile, a danno di nuovi entranti e produttori terzi di contenuti.
Poiché tutta la tv dovrà passare obbligatoriamente al digitale terrestre, è stato necessario assegnare frequenze digitali agli attuali operatori tv, per gestire la transizione. Ma si deve garantire che una parte significativa della loro capacità di trasmissione sia effettivamente resa disponibile, al costo, a operatori terzi che lo richiedano. Bene ha fatto l´Autorità a imporre a Mediaset di destinare una delle sue frequenza digitali a operatori telefonici (Tim e
Vodafone), senza vincoli sui contenuti trasmessi o accordi per la raccolta pubblicitaria.

L´Autorità dovrebbe vietare l´acquisto di contenuti in esclusiva per tutte le piattaforme (prassi oggi diffusa), e fare uso frequente di condizioni “must carry” e “must offer”, a vantaggio dei nuovi entranti: una rete “deve trasmettere” senza costi i contenuti di un operatore debole, o “deve offrire” i propri contenuti per essere trasmessi su altre reti. Un approccio analogo dovrebbe essere adottato con la tv via Internet, quando la banda a 20Mb su cavo telefonico sarà disponibile commercialmente. Infine, la Gasparri va modificata, obbligando gli attuali operatori tv, dopo il passaggio al digitale, a restituire allo Stato le frequenze analogiche, in parte da assegnare a nuovi entranti, e in parte da mettere all´asta.

Ma la concorrenza non si crea solo mettendo frequenze e reti a disposizione di potenziali concorrenti. I contenuti che fanno audience sono pochi, e le risorse necessarie per acquistarli ingenti. E bisogna tener conto del valore delle abitudini: una rete tv è anche un tasto del telecomando o volti familiari. Invece di immaginare ipotetici operatori futuri, sarebbe meglio incentivare la concorrenza tra quelli esistenti. Sky, nata dal monopolio sul satellite, ha portato più benefici alla concorrenza di tutte le leggi degli ultimi 20 anni.
Telecom è diventata l´unico operatore integrato verticalmente con accesso a tutte le reti, e ha le risorse per finanziare l´espansione.
Fastweb, con alle spalle un grande produttore di contenuti, potrebbe avere un ruolo incisivo. Ma soltanto una vera privatizzazione della Rai, che liberebbe la sua capacità commerciale e finanziaria, potrebbe promuovere rapidamente la concorrenza e lo sviluppo. Non sarebbe difficile scindere il servizio pubblico in un´apposita società, finanziata interamente dal canone, con una frequenza in dote (analogica e digitale); cedendo tutta la Rai (marchio, canali, contenuti, impianti e frequenze) al miglior offerente.

In un´intervista al Corriere, Prodi aveva ventilato questa ipotesi. Dovrebbe metterla in atto. Darebbe impulso al settore e libererebbe la televisione dalla politica. E la politica dalla televisione. Molti italiani gliene sarebbero grati: di destra, e di sinistra.

ARTICOLI CORRELATI
Per liberalizzare la tv, sottrarre la Rai alla politica
di Franco Debenedetti – Il Riformista, 06 aprile 2006

→  marzo 29, 2006

il_riformista
APPELLO. MODIFICARE LA GASPARRI E INTRODURRE LA CONCORRENZA

di Paolo Messa

Riportiamo qui sotto l’appello lanciato dal direttore di Formiche, pubblicazione a cura di Paolo Messa, sulla questione televisiva. Che non è solo una questione di proprietà, né solo (anche) di conflitto di interessi tra politica e controllo del principale mezzo di comunicazione di massa (in attesa che venga scavalcato da Internet). La questione televisiva riguarda la libertà, che si basa su concorrenza e pluralismo. Il Riformista lo pubblica e ne sostiene lo spirito e la sostanza. Siamo convinti che chiunque vinca alle prossime elezioni si troverà ad affrontare un nodo intricato. Che non si taglia con una spada. E’ anche questo il senso della tavola rotonda che abbiamo organizzato due settimane fa con i maggiori rappresentanti delle imprese che fanno televisione e telecomunicazioni. E’ nostra intenzione ospitare e stimolare una discussione vera, tenendo fuori la propaganda.

In Italia c’è abbastanza pluralismo televisivo? Esiste un settore meno protetto di quello televisivo? Temiamo di no. Non pensiamo che la questione riguardi il conflitto d’interessi. Anzi, riteniamo che bene abbia fatto questa maggioranza a varare un provvedimento sul quale c’era, almeno inizialmente, un’intesa con l’opposizione. Sarebbe insensato prevedere una ritorsione legislativa nel caso in cui vincesse il centrosinistra.

Il tema del pluralismo però rimane. C’è da prima che il fondatore del più importante gruppo televisivo privato italiano scendesse nell’arena politica ma non è stato affatto risolto dalla legge Gasparri. L’espediente del digitale si è rivelato inefficace (ha riprodotto il duopolio in una versione tecnologicamente più innovativa), la diffusione del satellite (dove vanno affermandosi realtà indipendenti di ottimo livello) è stata di fatto bloccata o rallentata, la crescita delle tv locali più importanti (quattro o cinque davvero significative) limitata. Nel frattempo, il mercato evolve nel senso della tv digitale mobile (quella sui telefonini, per intenderci) ed i grandi gruppi editoriali manifestano l’interesse di crescere proprio sulla tv.

Se le condizioni legislative lo consentissero in tempi relativamente rapidi potremmo avere una piccola ma significativa ’rivoluzione del telecomando’. Si tratta quindi di intervenire per modificare nel profondo la legge Gasparri. Non per punire l’attuale presidente del Consiglio e capo di Mediaset ma per introdurre, anche in questo settore, maggiore concorrenza. Meno protezionismo e più libertà economica: questo il nostro suggerimento per entrambi i Poli.

Paolo Messa – Formiche

Primi firmatari: Gustavo Piga – docente di Economia, Università di Roma Tor Vergata: Giuseppe Pennisi – docente di Economia, scuola superiore della pubblica amministrazione: Alberto Mingardi – Istituto Bruno Leoni.

→  marzo 17, 2006

Questa pubblicità é uscita a piena pagina su tutti i giornali italiani lo stesso giorno in cui il Sole 24 Ore ha fatto uscire il mio pezzo “Servono da subito procedure più sicure”.

Il Comunicato Telecom

→  marzo 9, 2006

lastampa-logo
Programmi

di Luca Ricolfi

Esattamente dieci anni fa, all’inizio del 1996, usciva un libro di Marco Revelli intitolato «Le due destre». Era il periodo in cui Prodi e il Pds inventavano l’Ulivo, e Berlusconi e Fini guidavano il Polo delle libertà senza la Lega. La tesi di Revelli era che nell’Italia della seconda Repubblica lo scontro politico non era fra una sinistra e una destra, bensì fra due differenti tipi di destra: quella populista e plebiscitaria di Fini e Berlusconi, e quella elitaria e tecnocratica di Prodi e D’Alema.
Si può sottilizzare sui dettagli, ma – a dieci anni di distanza – è difficile non riconoscere che Revelli aveva visto giusto: nel quinquennio 1996-2001 il centro-sinistra fece ben poche cose di sinistra, e molto di quel che fece – privatizzazioni, liberalizzazioni, flessibilizzazione del mercato del lavoro – è precisamente quel che tradizionalmente ci si aspetta da un governo di destra (detto per inciso, è questa la vera ragione per cui Bertinotti fece lo sgambettto a Prodi, e dal suo punto di vista non saprei come dargli torto).
Dunque è vero: nel 1996 l’elettore fu chiamato a scegliere fra due destre, e preferì quella liberista a quella populista. Ma oggi? Oggi, a mio parere, la scelta non è più fra due destre ma fra due sinistre. Nel frattempo, infatti, sono successe due cose molto importanti, che hanno completamente sconvolto l’offerta politica.
La prima è che la sinistra è riuscita a formare un’alleanza larghissima, che va da Mastella a Bertinotti, e a mettere a punto un programma che è convintamene sostenuto innanzitutto da Bertinotti stesso. Per quanto vago e pieno di formule ambigue, il programma dell’Unione è chiaramente più di sinistra dei programmi del 1996 e del 2001, ed è per questo che Bertinotti lo difende e lo difenderà a spada tratta, bloccando ogni tentativo di darne un’interpretazione eccessivamente modernizzatrice. Quando Bertinotti dice che i pericoli per la governabilità verranno da quello che lui chiama il centro ha perfettamente ragione: se l’Unione vincerà, i primi a trovarsi a disagio non saranno i «comunisti» del Prc e del Pdci, marginalizzati da un partito democratico che non c’è, bensì i liberisti annidati nella Rosa nel pugno, nella Margherita, nella destra Ds. Insomma la prima vittima dell’Unione non sarà l’ala sinistra dell’Unione stessa ma la cosiddetta «agenda Giavazzi», ossia il programma di scongelamento del sistema proposto qualche mese fa dall’economista milanese. Dunque Revelli ha ragione per il passato, ma la sinistra di oggi sembra aver ascoltato non pochi dei suoi consigli, e si presenta (finalmente?) davanti all’elettorato con un classico programma di sinistra, molto attento a restituire il maltolto al lavoro dipendente e a rinforzare lo stato sociale.
Ma c’è una seconda novità, meno visibile della prima. Da allora anche la destra è cambiata, e molte delle cose che ha fatto in questi anni sono cose «di sinistra». Ha aumentato le pensioni dei lavoratori più deboli. Ha fatto crescere il peso della spesa sociale sul Pil, che invece l’Ulivo aveva tenuto costante. Ha deprecarizzato il mercato del lavoro, che invece l’Ulivo aveva flessibilizzato. Ha fermato le privatizzazioni e le liberalizzazioni, che invece l’Ulivo aveva portato avanti.
Ecco perché dicevo, un po’ provocatoriamente, che oggi l’alternativa non è più fra due destre, come dieci anni fa, ma fra due sinistre. Da una parte l’Unione, ossia la vera sinistra, che promette di liberarci da Berlusconi e di ridistribuire reddito dai ceti medio-alti a quelli medio-bassi. Dall’altra la Casa delle libertà, ossia la falsa destra, che promette di conservarci Berlusconi e di finire il lavoro neo-statalista iniziato cinque anni fa.
Non è questo il luogo per esaminare le differenze fra le soluzioni degli uni e quelle degli altri, che sono indubbiamente notevoli sia sul piano economico sia sul piano sociale. Ma è difficile sfuggire all’impressione che entrambe capitalizzino sulle paure degli elettori, sul bisogno di protezione, sulla difesa di interessi perfettamente legittimi ma settoriali. Insomma, visti da vicino il programma dell’Unione e il programma della Casa delle libertà appaiono profondamente conservatori, terribilmente preoccupati di blandire le rispettive basi sociali, tragicamente incapaci di verità e di coraggio, irresponsabilmente omissivi sullo stato dei conti pubblici e sulle scelte (anche dolorose) che sarebbero necessarie per rilanciare lo sviluppo. Eppure se la torta non crescerà non ci sarà niente da distribuire, e ci ritroveremo come sempre a incolpare la mala sorte, l’opposizione, il terrorismo, l’avversa congiuntura internazionale.
Con questo non voglio suggerire che la scelta fra Casa delle libertà e Unione non sia importante. Quella scelta determinerà in che tipo di democrazia vivremo nei prossimi anni, e lungo quali sentieri verrà incanalato il declino dell’Italia, insomma la velocità e la direzione della nostra «argentinizzazione». Ma come elettore preferirei poter pensare di avere una terza chance.

ARTICOLI CORRELATI
Non due sinistre, ma due statalismi: populista (Berlusconi), sociale (Prodi)
di Franco Debenedetti – Il Riformista, 11 marzo 2006

→  febbraio 11, 2006

corrieredellasera_logo
Il dubbio

di Piero Ostellino

A Otto e mezzo, giovedì scorso, il senatore Franco Debenedetti ha accusato Berlusconi di aver «spaccato» il Paese. Berlusconi ha ritorto l’accusa sulla sinistra. Fine della discussione. Ma che vuol dire «spaccare il Paese»? Vuol dire—a sinistra come a destra—governare, prendere delle decisioni. Per molti italiani è del tutto intollerabile che non vinca le elezioni la propria parte politica e, soprattutto, è del tutto illegittimo che il governo della parte avversa faccia poi una politica diversa da quella che farebbe la propria.
Da noi, la democrazia è una «categoria dello spirito», da professare; guai se diventa una «categoria della realtà», da vivere. Domenica scorsa, Furio Colombo ha citato, nel suo articolo di fondo sull’Unità, la lettera con la quale un lettore sosteneva testualmente che, qualora Berlusconi vincesse le elezioni, lui vivrebbe i cinque anni successivi «nel terrore» (!?). Casi analoghi si trovano a destra.Mi sarei aspettato che Colombo liquidasse l’affermazione come una colossale fesseria. Invece, l’ha presa sul serio. E se incominciassimo noi, giornalisti, a essere un po’ più seri?
Personalmente, sono dell’opinione che l’Italia democratica non sia mai stata tanto viva e fertile come quando
si è «spaccata»: dall’adesione alla Nato alla guerra in Iraq; dai tempi dei referendum sulla scala mobile, sul divorzio e l’aborto, a Tangentopoli e Mani pulite. Le «mezze riforme» del governo Berlusconi sono state — per molti fra i suoi stessi elettori — un «mezzo insuccesso»; per gli elettori del centrosinistra sono cattive. Ma a me pare che il governo di centrodestra — quale che sia il giudizio sulle riforme—abbia avuto, se non altro, un merito.
Quello di aver sollevato problemi ignorati da tutti i governi precedenti «per non spaccare il Paese». Senza l’«anomalia Berlusconi»—che sull’argomento ha davvero «spaccato» il Paese — si sarebbe mai parlato di una magistratura corporativa, autoreferenziale, professionalmente inadeguata, come ha fatto ancora di recente una fonte non sospetta, il presidente della Cassazione? Non corriamo il rischio che il centrosinistra, una volta vinte le elezioni, invece di migliorare la riforma del centrodestra, finisca con sotterrare definitivamente il problema?
Non sono fra quelli che paventano un successo del centrosinistra, ma una cosa la temo: che il Paese sprofondi
nuovamente nella palude del politicamente corretto, della concertazione, delle «questioni morali» (che mascherano le «questioni politiche»), della stabilità sociale (che giustifica la dispersione di ricchezza), dell’unanimismo inerte (che mortifica il riformismo e soffoca la modernizzazione e al riparo del quale ingrassano gli interessi corporativi). Vorrei vivere in un Paese in cui su una cosa fossimo tutti d’accordo: che la democrazia è alternanza di governi di destra e di sinistra le cui politiche differiscono nei mezzi, e sui mezzi «spaccano il Paese», ma non mettono in discussione il fine (le libertà). Vorrei una sinistra che avesse il coraggio di riformare (anche) la prima parte della Costituzione, che è frutto di un compromesso, ha a suo fondamento una serie di anacronistiche astrazioni collettive (dal lavoro all’interesse sociale, che condizionano i diritti individuali come la proprietà e la libertà di intrapresa). I nazisti non sono più alle porte, Prodi non è il capo del Cln e le Costituzioni liberali sono procedurali. I programmi di governo li decidono gli elettori.

ARTICOLI CORRELATI
Debenedetti vs Berlusconi a Otto e mezzo
9 febbraio 2006