Questo paese di capitali senza capitalismo

gennaio 25, 2006


Pubblicato In: Varie


È un’altra Banca d’Italia quella in cui si è insediato Mario Draghi questa settimana. La riforma pone fine alla solitudine del monarca assoluto e al superbo isolamento dell’istituzione, consente di guardare in un modo più penetrante ai problemi dei Paese e alla forze che formano l’ossatura della sua economia. E che, in questa sorta di “considerazioni iniziali”, appaiono tutte accomunate in una crisi profonda, come se fossero giunte estenuate alla fine di un ciclo.

Fine di un ciclo per quanto resta delle grandi imprese, in crisi di strategie, di leader, di guide. Emettere bollette ed esigere pedaggi è diventata l’aspirazione dominante. Andare in barca, il modo per Gianni Agnelli di incontrare John Kennedy, serve a vendere scarpe e magliette. Al posto di Mediobanca e di Cuccia, il patto di sindacato del Corriere della Sera. Le mitiche 200 medie aziende che crescono e si battono sui mercati del mondo, non hanno un referente politico, il “fare squadra” si arena in idiosincrasie costitutive.
Fine di un ciclo per il sistema politico: che dopo 12 anni in cui si è cercato di radicare il maggioritario, si riposiziona su un proporzionale a liste bloccate, con la pillola avvelenata di un premio di maggioranza che farà saltare anche il bipolarismo. Che ripropone il confronto tra gli stessi leader più vecchi di 10 anni. Che vede i due maggiori partiti- DS e FI – rassegnati a consegnare a una nuova formazione un primato che non riesce a diventare egemonia. Berlusconi che si reca dai magistrati con le sue “rivelazioni” su DS-Unipol è un simbolo: la politica si riconsegna nelle mani della magistratura che ne era stata l’involontaria levatrice nel 92.
E le banche? Oggi le banche gestiscono l’intermediazione creditizia in ogni sua forma; controllano, attraverso la Borsa, la raccolta azionaria e obbligazionaria, partecipano al capitale di aziende industriali, e dei giornali che controllano, divenendone componente della proprietà: in un certo senso le banche hanno sostituito il sistema delle partecipazioni statali. Ma la loro corposità non si fa ossatura portante, il loro potere è forte con i deboli, in Italia, e debole con i forti, all’estero. (Con la solita eccezione di Unicredit, che ormai ha lasciato gli ormeggi e naviga in Europa). Questa è l’eredità pesante di Fazio, il risultato di aver schermato le banche dalla concorrenza. Ha voluto disegnare il sistema del credito a sua immagine e somiglianza, ed ha finito per ricevere l’immagine e la somiglianza della sua parte peggiore.
Il potere di vigilanza di Banca d’Italia è stato usato per tenere lontani concorrenza e mercato dal nostro sistema bancario: dalle banche, dai criteri con cui selezionare il merito di credito deve partire la spinta a reintrodurlo. Un compito, per Mario Draghi, singolarmente simile a quello che ebbe al Tesoro, ingegnerizzare l’uscita dello Stato dall’economia e mobilitare capitali privati. Ci furono indubbi successi. Ma quanto a radicare in un Paese, che pure dispone di grandi ricchezze patrimoniali, una mentalità favorevole alla concorrenza, che accetti il rischio d’impresa e non demonizzi danaro e profitti come sterco del diavolo, quella appare un’occasione perduta. Per questo, e contrariamente a quanto teme Luigi Zingales, io considero positivo che Mario Draghi porti in Banca d’Italia l’aria che ha respirato alla Goldman Sachs.
Il nostro, l’abbiamo sentito ripetere mille volte, sarebbe un capitalismo senza capitali: Ma è proprio così? Mancano i soldi o le idee? Riflettendo sulle vicende che hanno riempito i giornali da quasi un anno, e ponendo mente alle crisi in cui si dibattono i poteri nel nostro Paese, è piuttosto vero il contrario: il nostro è un Paese di capitali senza capitalismo.

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