Perché “genocidio” non può diventare un generico superlativo della crudeltà

marzo 14, 2024


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


“Crimini contro l’umanità”, “genocidio” sono termini che ricorrono sovente nei resoconti delle guerre di Ucraina e di Gaza: di solito a sproposito, comunque senza riferimento al contesto in cui i due termini vennero creati. Sono termini giuridici, comprensibili però solo avendo ben presente le vicende vissute e le sofferenze patite: per questo se ne sentì la necessità. “La strada verso est” di Philippe Sands descrive la ricerca minuziosa di tracce e di indizi con cui ricostruire le vite dei personaggi e delle loro famiglie: singole storie nelle immense tragedie per cui furono creati gli strumenti atti a condannare i capi nazisti al processo di Norimberga, e che poi entrarono nel diritto internazionale.

Nell’incontro di Yalta del febbraio del 1945 Roosevelt, Churchill e Stalin concordarono sulla necessità di sottoporre a processo i capi nazisti : fu subito chiaro il problema delle norme che si sarebbero dovute applicare per un caso così unico. Rappresentavano criteri giuridici diversi i due giuristi che si trovarono il 1° ottobre 1946 nell’aula del Palazzo di giustizia di Norimberga alla prima seduta del processo. Erano due ebrei polacchi di Lemberg, Hersch Lauterpacht e Raphael Lemkin. Il primo, marchiato dall’esperienza della discriminazione etnica e religiosa, considerava la protezione dei diritti umani come una necessità vitale. Era ben conscio che il diritto internazionale di allora consentiva alla Germania di perseguitare chiunque non fosse ritenuto ariano, ma credeva che le persecuzioni turbassero le relazioni internazionali e che dovessero essere proibite dal “diritto pubblico mondiale”.

Diverso l’ approccio di Raphael Lemkin. Nel suo “Axis Rule in Occupied Europe” uscito nel novembre 1944 si poneva l’obbiettivo della protezione dei gruppi: a questo scopo aveva coniato il termine “genocidio” per definire un crimine nuovo, la distruzione fisica di nazioni e gruppi etnici. Individuava lo schema generale di come i tedeschi avevano perseguito l’obbiettivo di distruzione delle nazioni di cui prendevano il controllo. Il primo passo consisteva nella snazionalizzazione: gli ebrei erano resi apolidi, si spezzava il legame della nazionalità così da limitare la protezione garantita dalla legge. Il secondo era la disumanizzazione, la cancellazione dei loro diritti. Il terzo era il soffocamento in senso spirituale e culturale della nazione perseguitata. Scartati i termini “barbarie” e “vandalismo” Lemkin conia una parola nuova: “genocidio”.

Lauterpacht, era preoccupato che l’enfasi sul genocidio potesse rinforzare istinti tribali latenti, con il rischio di accentuare l’opposizione tra “noi” e “loro” . I britannici trovavano il termine “troppo fantasioso” e “stravagante” per trovare spazio in un documento giuridico serio. Così il genocidio non fu incluso tra i crimini contro l’umanità, ma fra i crimini di guerra, che comprendevano il maltrattamento e l’omicidio di civili nei territori occupati e l’accusa che gli imputati “avessero perseguito un genocidio in modo deliberato e sistematico”. Passava la tesi di Schlauerpacht, che la comunità delle nazioni avesse “il diritto di intercedere per i diritti violati dell’uomo , studiatamente calpestati dallo stato per sconvolgere il senso morale dell’umanità;” e che il tribunale dovesse ignorare la tradizione secondo cui i capi di governo possono agire a proprio piacimento, liberi di uccidere, mutilare e torturare il loro stesso popolo, e che il ruolo del processo fosse proprio di porre in primo piano la protezione degli individui.

Ma passava anche l’idea di Lemkin: il genocidio come “sterminio di gruppi razziali e religiosi eseguito verso popolazioni civili di alcuni territori occupati in modo da distruggere particolari razze o classi di persone, o gruppi nazionali, razziali o religiosi, in particolare ebrei, polacchi, zingari e altri”. La distruzione di gruppi sarebbe così entrata nel processo di Norimberga, e di lì nel diritto internazionale. Lemkin si girerebbe nella tomba se, dopo tanti studi e fatiche, vedesse il termine perdere la sua specificità, diventare il generico superlativo della crudeltà. Tanto più usato, nonostante la massa di prove testimoniali e fotografiche, per incolpare le vittime invece dei carnefici.

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