Perché ci piace Pollock e la musica colta no? Per favore non mettete più Bac e Bolez nello stesso concerto

gennaio 8, 2011


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di Alessandro Baricco

Alle volte la storia della cultura diventa un enigma di tale eleganza da rendere incomprensibile l’ istinto dei piùa occuparsi di altro. Per rimanere a questioni del tutto marginali, ma su cui ci giochiamo la nostra identità, una cosa che è diventata ormai difficilissima da capire, ad esempio, è il rapporto che c’ è tra noi e la modernità novecentesca (chiamiamo infatti moderne cose che nascevano quando morivano i padri dei nostri nonni). Il problema, paradossale, è che spesso il pubblico non ha ancor digerito delle novità che nel frattempo sono diventate reperti del passato. Ciò che è moderno non è più contemporaneo ma è ancora traumatizzante. Che senso ha? È come se fossimo ancora lì che cerchiamo di imparare a usare il magnetofono, senza riuscirci. Ha senso insistere,oè meglio passare direttamente all’ Ipod?

Nell’ articolo che Repubblica pubblica oggi, il critico musicale americano Alex Ross aggira la domanda facendone un’ altra, ingenua e quindi intelligente. Constatando il fatto, per lui sorprendente, che la gente fa la coda per entrare alla Tate Modern, ma continua a dribblare con cura la musica contemporanea, finisce per chiedersi una cosa. sere concepiti come luoghi di avventure intellettuali. In occasione di una recente visita al MoMa sono stato colpito da una scritta all’ ingresso, che recitava: «Essere parte di qualcosa di brillante, elettrizzante, radicale, curioso, nitido, dinamico… turbolento, visionario, drammatico, attuale, provocatorio, impavido…». Oggi nessuna orchestra importante potrebbe o vorrebbe descriversi in termini analoghi. Ma qualche organizzazione si sta muovendo in questo senso (…). I giovani accorrono a migliaia alle serate MusicNOW offerte dalla Chicago Symphony, che accortamente ha incluso nel biglietto uno spuntino a base di pizza e birra. A Londra una folla elettrizzata ha preso d’ assalto il Southbank Centre o The Barbican per le serate di Edgard Varèse, Iannis Xenakis, Luigi Nonoo Karlheinz Stockhausen. Ma anche a New York la situazione nonè poi disperata. Alan Gilbert, che dalla scorsa stagione dirige la New York Philharmonic’ s, ha avuto uno straordinario successo con proposte indigeste come Le Grand Macabre di Ligeti, Amériques di Varèse e ancora, all’ inizio della stagione, Kraft di Magnus Lindberg. Gli osservatori di lungo corso non credevano ai loro occhi davanti agli applausi tributati dal pubblico degli abbonati a questo brano di Lindberg, praticamente atonale dall’ inizio alla fine, che prevede l’ uso di parti di automobili dismesse come percussioni. A fare la differenza è stata la capacità di Gilbert di prendere per mano il pubblico per guidarlo in nuovi territori: nel corso di una mini-conferenza non priva di autoironia, ha illustrato la struttura del brano ponendo in luce i suoi punti salienti, e ha saputo dare al pubblico la sensazione che chi avesse lasciato la sala si sarebbe perso qualcosa di irripetibile. Il gusto musicale è sempre acquisito; e nessun tipo di musica può piacere ovunque. Alcuni mesi fa il blogger Proper Discord notava che l’ album più venduto in America nel corso di quella settimana, il pop medley di Katy Perry Teenage Dream, era stato acquistato solo da un cittadino su 1.600. Certo, alcuni generi sono più popolari di altri, ma i gusti individuali possono cambiare in maniera drastica. Quand’ ero giovane amavo il repertorio del XVIII e del XIX secolo e non quello del XX, classico o pop. Ma una volta compresa la forza della dissonanza, ho compiuto il percorso da Schoenberg a Messiaen a Xenakis, inseguendo la pista dei rumori fino alle sonorità post-punk dei Sonic Youth. D’ altra parte, a qualcuno dei miei contemporanei è accaduto di scoprire la musica classica con un procedimento inverso, iniziando non da Mozart ma da Steve Reich o Arvo Pärt. Per formare il pubblico di domani le istituzioni musicali dovrebbero rafforzare il loro impegno per la costruzione di ponti inaspettati tra generi diversi. C’ è una nozione che va decisamente respinta: quella che vede nella musica classica una fonte sicura di bellezza consolatoria – qualcosa come uno spa treatment, un trattamento rigenerante per anime stanche. Atteggiamenti del genere offendono non solo i compositori del XX secolo, ma anche i classici che si pretende di amare. Immagino l’ ira di Beethoven, se qualcuno gli avesse detto che un giorno la sua musica sarebbe stata diffusa nelle stazioni ferroviarie per sedare i pendolari e allontanare i delinquenti. Familiarizzarsi con compositori quali Berg e Ligeti porta a scoprire nuove dimensioni anche in Mozart e in Beethoven: e ciò vale sia per il pubblico che per gli esecutori. Per troppo tempo abbiamo rinchiuso i maestri classici in una gabbia d’ oro; è venuto il momento di aprirla. (Traduzione di Elisabetta Horvat) © Alex Ross/Guardian News & Media Ltd Questa: perché lo stesso pubblico che apprezza la bellezza di un Pollock non riesce ad apprezzare la bellezza di uno Schoenberg? Perché la modernità, in musica, continua a risultare così indigesta? La domanda è semplice ma coglie nel segno, e se c’ era qualcuno che poteva farla non poteva essere che Ross, uno dei pochi, attualmente, che guardi al mondo della musica classica con intelligenza e senza troppi tabù. Bene, non resta che trovare la risposta. Ross ci prova, riassumendo risposte altrui e azzardandone una sua: appaiono tutte credibili, comprese quelle su cui lui mostra di coltivare dei dubbi, e che non sono poi tanto infondate. Probabile che sia la somma di tutte quelle ipotesi a generare il risultato, anomalo, che abbiamo sotto gli occhi. Così come è probabile che altre spiegazioni si possano trovare e aggiungere. Io mi permetto di annotarne una, tanto per non lasciare nulla di intentato. Forse è una questione, anche, di marketing. Ma non nel senso, innocuo, per cui se dai un titolo spiritoso al concerto e distribuisci coca cola, tutto funziona meglio. In un senso più intelligente. Voglio dire che per lunghissimo tempo la musica colta moderna è stata venduta come uno sviluppo naturale della musica classica. Se apprezzavi il cammino che portava da Haydn a Schubert, allora potevi apprezzare il cammino che da Wagner portava a Webern. Se non riuscivi a farlo, il problema era tuo. Il principio ha trovato per decenni una sciagurata formalizzazione nella confezione di concerti il cui schema modello era: Bach, Boulez, Brahms. Una cosa breve di un grande classico, una composizione contemporanea, intervallo, e poi orgia romantica (il disordine cronologico era dettato dal timore di un fugone dopo l’ intervallo). A parte il fastidioso retrogusto da oratorio salesiano (partitellaa pallone, messa, partitonaa pallone), quel modello di concerto imponeva una verità che avrebbe fatto meglio, piuttosto, a mettere in discussione: che ci fosse una sostanziale continuità tra l’ ascolto di un Brahmse di uno Boulez: che si trattasse di prodotti diversi ma fatti per lo stesso tipo di consumo. Li mettevano nello stesso scaffale del supermercato, se riescoa spiegarmi. Come ketchupe mayonnese. Giusto. Ma Chopin e Webern sono davvero, tutt’ e due, salse? Io penso di no e penso che alla lunga il pubblico non abbia perdonato alla musica colta quella sottile truffa. Altrove sono stati più onesti. E’ possibile ad esempio, che il famoso Pollock risulti così più accessibile proprio perché di rado viene esposto di fianco alla Gioconda. L’ arte contemporanea sta, per lo più, in musei di arte contemporanea. Come la danza moderna ha altri circuiti dal Balletto classico. Allora è più facile scegliere, e alla fine apprezzare. Perché gustare Steve Reich non è difficile, amare Monteverdi neppure, ma tenerli insieme e trovarvi una parentela stretta è un’ impresa ostica, spesso insensata, che mette fuori gioco il piacere puro dell’ ascolto e genera solo fatica, spesso inutile, e frustrazione. Probabilmente si avesse avuto la lucidità e il coraggio di separare le cose fin dall’ inizio, sarebbe stata tutt’ un’ altra storia. Non solo per il pubblico, anche per i compositori. Invece che pretendere di essere amati in nome delle loro ascendenze genealogiche (la grandezza di Boulez era legittimata da quella di Wagner che a sua volta era stata legittimata da quella di Beethoven), si sarebbero dovuti giocare il loro destino nel campo aperto dell’ ascolto: senza padri e raccomandazioni sarebbe rimasta la loro musica, giusto posta davanti a un pubblico che non avrebbe dovuto riconoscere la sua bellezza, ma scoprirla. La sua bellezza come la sua eventuale bruttezza, va detto. Ma non è andata così. E adesso non è affatto chiaro come si possa tornare indietro, nell’ esatto punto in cui tutto si è rotto, e ricomporre il filo di una fiducia, tra compositori e ascoltatori, che sembra davvero perduto.

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Perchè un quadro di Pollock vale oro e la classica vale zero
di Franco Debenedetti – Vanity Fair, 18 gennaio 2011

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