Contro il logorio della città industriale negli anni Sessanta nasceva il design notturno e pop di Strum e Studio 65. Tutto parte dal Piper
Nei fatali Sessanta, mentre a Milano si muovevano i soliti dioscuri del design, da Magistretti a Castiglioni a tutti gli altri, a Firenze nasceva il design radicale, a Roma nel design non è mai successo niente, a Torino succedeva qualcosa di eccezionale. Come a Firenze, la molla fu la noia. Nel ’64 Un articolo su Casabella intitolato “Torino. Monopolio e depressione culturale ” a firma di Riccardo Rosso, sconosciuto studente di Architettura ma futuro socio di Pietro Derossi (allievo di Mollino) e del costituendo gruppo Strum, che stava per “architettura strumentale” e aveva come obiettivo principale quello di utilizzare l’architettura come uno strumento di partecipazione alle lotte sociali e politiche, rompe il grigiore esistenzial-architettonico.
Al direttore.
Anche se c’è sempre qualcuno che lo dice, è un nonsenso sostenere che in Italia – o negli Stati Uniti o in generale in occidente – non c’è libertà di parola. Chi dice il contrario confonde la libertà di parlare con la capacità di farsi ascoltare (o leggere): questa dipende dalla reputazione, quella guadagnata con la validità delle proprie idee e quella accordata da coloro che hanno il potere di farlo, i mezzi di comunicazione. Giornali, televisione, media digitali sono per la reputazione quello che le banche centrali sono per la moneta: hanno potere di crearla. Facendo circolare parole e idee, i media creano la reputazione degli autori, e si arricchiscono essi stessi del loro valore reputazionale. E’ una spirale: quanto più si accresce la reputazione del medium, e tanto maggiore è quella che può conferire. Non è l’oro nei forzieri, ma la reputazione che conferisce valore alla valuta. Anche le università conferiscono reputazione, di quell’oro sono i “forzieri”. Si è accumulata nei secoli proprio per la libertà di parola e di ricerca, che hanno garantito a pensatori e scienziati. La libertà è necessaria perché si attivi il meccanismo della peer review, uno dei pilastri della costituzione della conoscenza, cioè dell’epistemologia liberale.
I media e la fabbrica delle notizie nell’èra dei social e dopo Trump
“II punto di non ritorno per il collasso del sistema di produzione e distribuzione dei giornali si situerà tra la metà e la fine degli anni 20. Una lunga serie di chiusura di giornali continuerà fino a metà degli anni 30: cinque anni di agonia, seguiti da dieci anni di convulsioni, e poi la morte”. E’ perentorio Andrey Mir, fin dal titolo del suo libro, “Il post giornalismo e la morte dei giornali”. Le nuove tecnologie di comunicazione hanno messo in moto il processo, ma sono fatti demografici a renderlo inevitabile. L’idea che i giornali siano importanti per preservare la democrazia è legata a fattori generazionali: scomparsa la generazione che nutre queste idee, non ci sarà più ragione per la loro esistenza: le ragioni di mercato sono già scomparse, e quelle sociali sono legate alla restante vita dell’ultima generazione che ha letto giornali. La fine dei giornali non è la loro transizione al digitale: il giornalismo come lo conosciamo non sopravvivrà nello spazio digitale. Non è una crisi ciclica, è la fine di un’epoca.
Rai radio classica, insieme al suo predecessore Fd5 Auditorium, è un prodotto dell’azienda Rai. Il suo valore è quello della sua immagine, costruita anno dopo anno sulle scelte di palinsesto, sulla correttezza con cui sono pronunciati i nomi dei pezzi trasmessi e dei loro esecutori: ma soprattutto sul fatto che “trasmette musica classica 24 ore al giorno senza interruzioni pubblicitarie”, come veniva orgogliosamente vantato. Così, in mezzo secolo, Rai classica è diventato un brand. Veniva: perché da diversi mesi la pubblicità è entrata anche in Radio classica. E, da qualche settimana, in modo sfrontato: il “buona idea, dottor Scotti” è infatti addirittura preceduto da una musichetta, la cui volgarità risalta ancor più al confronto di quelle il cui suono si è appena spento. Novità nella programmazione sono avvertite in un tempo lungo, pronunce scorrette possono essere giustificate come infortuni: l’irrompere della pubblicità è invece immediatamente percepito. E a soffrirne è il valore del brand. E’ come se, aprendo Wikipedia, trovassimo una striscia di pubblicità: il suo valore di fonte autorevole di informazioni sarebbe gravemente compromesso. C’è da chiedersi: i ricavi in conto economico di quei pochi secondi di annuncio sono maggiori della perdita in conto patrimoniale derivante dal danno al valore di un brand costruito in 50 anni? Il fastidio per l’inserimento della pubblicità riguarda un ascoltatore fedele dai tempi della filodiffusione. Ma la Rai è un’azienda pubblica: quindi la perdita di un valore immateriale dell’azienda è questione che riguarda ogni contribuente.
Come si sceglie il sovrintendente di una grande istituzione culturale? La Scala è un elemento portante della Milano che mai come oggi sa attrarre intelligenze e capitali; la qualità del suo prodotto e il buon funzionamento della sua organizzazione contribuiscono all’immagine positiva dell’Italia. Andrebbe quindi scelto come si fa col capoazienda di una grande impresa: considerando i risultati del passato e chiarendo che cosa si vuole per il futuro. E poi, se del caso, chiedendo a un cacciatore di teste di individuare candidati coerenti con un certo profilo.