La grande crisi e l’illusione dello Stato imprenditore

agosto 12, 2016


Pubblicato In: Giornali, La Repubblica


Caro Direttore,

“Il danaro non è solo un mezzo di scambio” scrive Mariana Mazzucato (Cinque medicine per curare la malattia delle banche, la Repubblica, 8 Agosto 2016). Per una volta sono d’accordo, ma per poco: già dissento su che cosa sia d’altro. Per lei, seguendo Hyman Minsky, il danaro “rappresenta la creazione del debito, motore centrale del processo capitalistico”. Per me, leggendo Mervyn King, il danaro consente di scambiare lavoro di oggi con generico potere di acquisto in futuro; in un mondo esposto a radicali incertezze, il danaro è ponte tra presente e futuro.

Le “cinque medicine” sono in realtà variazioni sul suo tema di elezione, quello dello “Stato Imprenditore”. In quel mondo la finanza crea debito per “finanziare la crescita dell’economia reale”, anziché “prestare soldi a chi maneggia i soldi”. Ciò che non dice è che lo Stato non ha risorse proprie, le risorse sono dei cittadini; che quello che per lo Stato è debito, per i risparmiatori è credito; che la funzione dei mercati finanziari è proprio fare arrivare risparmio privato a progetti di investimento. Gli strumenti che si sono diffusi negli ultimi 20 anni, i tanto esecrati contratti derivati, altro non sono che combinazioni dei tradizionali contratti di azioni, obbligazioni, assicurazioni; servono a colmare ogni lacuna, a fornire un’offerta di investimento a ogni possibile domanda, a ogni modalità di suddivisione di rischi, a ogni richiesta di poter speculare sui movimenti di prezzo dei contratti sottostanti. La crescita dei mercati finanziari ha consentito quella dell’economia mondiale e l’integrazione di centinaia di milioni di persone. Progetto di “economia reale” era anche quello dei governi USA di estendere ai Ninja (No income, no job, no asset) la possibilità di possedere una casa; i mercati risposero con strumenti atti a incanalare il risparmio privato a finanziare perfino quel tipo di rischio. Ma nulla può eliminare la radicale incertezza propria dei mercati capitalistici: e fu la crisi del 2007.

Alcune “medicine“ non si capisce bene chi dovrebbe prenderle. Certo che la “sclerotizzazione degli interessi e delle relazioni” e il clientelismo distorcono le decisioni di finanziamento, a danno di quella che, nel lessico della Mazzucato, è l’“economia reale”. Gli scandali recenti hanno polarizzato l’attenzione, ma nel suo complesso il nostro sistema bancario è ancora largamente segnato dall’impronta del pubblico: assetti proprietari figli del “piano regolatore” e del “confessionale” di Antonio Fazio; controllo pubblico, in dispregio della legge, su MPS, il grande malato del settore; nomine direttamente o indirettamente pubbliche nelle Fondazioni bancarie. Quello bancario è il più regolamentato di tutti i settori industriali, con istituzioni (pubbliche ovviamente) preposte a monitorarne strutture di governo e pratiche operative.

Ha ragione Mazzucato a lamentare la carenza di “cospicui investimenti pubblici nel settore dell’istruzione e della formazione professionale”: ma dovrebbe riconoscere che “lo Stato imprenditore” non è neppur capace di superare la resistenza della scuola a valutare e ad essere valutata, e di fare accettare il principio della meritocrazia. Seducenti i suoi “ecosistemi dinamici di innovazione”: ma noi capiremmo meglio se parlasse di mercato, punto di partenza e punto di arrivo dell’attività di ogni imprenditore. Vero (più o meno) che le nostre aziende non investono abbastanza: ma stupefacente che l’economista neppure ipotizzi che questo abbia a che vedere con il carico fiscale imposto da un Stato troppo costoso e troppo indebitato. Lamentevole la bassa la crescita della produttività: ma questo è un valor medio, risultato dall’ideologia di “salvare i perdenti”, per cui le aziende vanno tenute comunque in vita a suon di sussidi e provvidenze, sottraendo spazi e risorse a quelle più produttive. Contraddetto dai fatti è che nel mondo globalizzato manchi capitale “paziente”: pazienza, e in grado eroico, mostrano di possederla le nostre industrie per i tempi della politica e dell’amministrazione.

Stridente il richiamo finale allo “Stato imprenditore”, cavallo di battaglia della Mazzucato. Non c’è nessun motivo per cui un governante dovrebbe saper “scegliere i vincitori” con maggiore lungimiranza dei cittadini che lo hanno eletto; le scelte dei politici sono auto-interessate come quelle di tutti. Se la CDP “non è mai stata messa in condizione di diventare una vera banca di investimento”, è perché i governanti vogliono uno strumento disponibile per interventi con cui procurarsi consensi o evitare di perderne. Il giorno che così più non fosse, non ci sarebbe nessun motivo perché restasse pubblica.

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