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Archivio per il Tag »produttività«

→  ottobre 7, 2014


Che abbia ragione chi sostiene che quella sull’articolo 18 è una battaglia ideologica, perché a difendere i diritti di chi lavora ci sono fortini giuridici, e a frustrare gli interessi degli imprenditori lo Stato provvede con mezzi ben più intrusivi? A far sorgere il dubbio è la questione dei licenziamenti disciplinari.
Una sorta di residuo secco tra i licenziamenti discriminatori, – che mai nessuno si è sognato di legittimare – e quelli per giustificato motivo economico – per cui non ci andava molto a capire che il giudice non è la persona adatta a decidere.
È quindi comprensibile che in questa battaglia politica, i licenziamenti individuali siano il contenitore delle riserve mentali: sia di quanti pensano di conquistare riformismo con i decreti delegati sia di chi conta di recuperare garantismo nei tribunali.
Se diventassero il contenitore di casi ambigui nella definizione e incerti nella risoluzione, questa sarebbe davvero stata soltanto una battaglia ideologica interna alla sinistra. Per evitarlo c’è una strada molto semplice: stabilire senza equivoci che per tutti i cosiddetti licenziamenti disciplinari l’azienda ha il diritto a sostituire l’eventuale reintegro con un indennizzo di entità nota ex ante.

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→  settembre 10, 2009

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Sono bastati i primi segnali di uscita dalla crisi, e subito è ritornato a manifestarsi il male che affligge l’economia italiana, vent’anni di crescita inferiore a quella degli altri paesi industriali, dieci anni di produttività praticamente ferma. La bassa produttività, a sua volta causa di bassi salari, e quindi di un mercato interno debole, rimanda ai ben noti nodi strutturali, dalla formazione alla dotazione di infrastrutture.

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→  gennaio 25, 2009

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Lettere contemporanee

di Giuliano Amato

Ha assolutamente ragione il Presidente Obama quando dice che non basta creare nuovi posti di lavoro, ma occorre dare «nuove fondamenta all’economia». Non vorrei però che negli entusiasmi suscitati da questa sua affermazione si infilasse anche la voglia di tornare al vecchio, una voglia già sperimentata in altre situazioni di crisi e servita allora più a prolungarle che a risolverle. Separare subito il grano dal loglio nella ricerca del nuovo mi pare quindi essenziale.
Di nuove fondamenta ha certo bisogno l’economia americana, nella quale per prima ha preso corpo quell’abnorme espansione delle attività finanziarie, che sono arrivate a generare oltre il 40% dei profitti, hanno schiacciato sotto i debiti l’economia reale e hanno reso laceranti le diseguaglianze di reddito. E di nuove fondamenta hanno bisogno anche gli altri, noi compresi.

Dobbiamo valorizzare davvero i fattori da cui dipende la crescita della nostra produttività e non farne oggetto soltanto dei nostri ormai stucchevoli convegni sul tema.
Ma la dinamica stessa della crisi e gli interventi che sta suscitando non possono spingere oltre la domanda di cambiamento? Oggi rischiano di fallire insieme imprese efficienti e imprese inefficienti e per evitare i costi sociali dei due fallimenti si interviene massicciamente con aiuti di Stato oppure si autorizzano fusioni (magari per legge, come si è fatto per Alitalia e Airone) che in condizioni normali sarebbero invece proibite. Interventi transitori, si dice. Ma dei benefici della concorrenza, anni addietro sulla bocca di tutti, oggi non parla nessuno. E c’è anzi chi comincia a chiedersi se davvero ne abbia portati di benefici e se della revisione critica a cui assoggettiamo il Washington consensus con il ventennio che ne è seguito non debba far parte, senza sconti, lo stesso fondamento concorrenziale che abbiamo voluto generalizzare in ogni settore dell’economia. La questione dunque è già posta e sarebbe perciò un errore non affrontarla. Se la si affronta ci si accorge che sì, è vero, diverse cose non hanno funzionato in questi anni nei mercati aperti alla concorrenza. Ma davvero la responsabilità è della stessa concorrenza e di ciò che essa ha dato e può dare?

È di sicuro peggiorata la vita di gran parte dei lavoratori occupati in quei mercati, mentre non sono affatto migliorati, in più casi, la qualità e il prezzo dei servizi resi ai consumatori. Quando c’era la rendita del servizio in monopolio, si diceva che se la spartivano, a danno dei consumatori, il gestore e i suoi lavoratori. Ora che la rendita non c’è più, ora che molti lavori prima a tempo indeterminato e ben pagati sono diventati precari e mal pagati, una eguale insoddisfazione accomuna i lavoratori e gli utenti. Basti pensare all’incubo del povero utente con problemi di telefono, che si aggira via filo nei meandri dei call center, avendo come massima soddisfazione quella di parlare alla fine con qualcuno; oppure alla attesa dei bagagli in aeroporto, dove ormai, a parte i furti, non c’è più personale sufficiente per smistarli. Quanto alle tariffe, nei telefoni sono senz’altro diminuite, ma in molti altri servizi, per una ragione o per l’altra, la riduzione non c’è stata.

C’è poi la struttura disfunzionale e bislacca assunta da certi mercati, nei quali l’apertura alla concorrenza ha messo ai polpacci dell’ex monopolista sette piccoli e avidissimi indiani, che hanno corroso la sua forza di mercato, hanno conquistato ciascuno uno spazio troppo piccolo per diventare vitali, col risultato che alla fine, se il mercato non era solo nazionale, loro vivono di stenti (trasferiti peraltro ai dipendenti) e l’ex monopolista si ritrova indebolito e inerme davanti agli ex monopolisti di altri Paesi, meno massacrati di lui. Il caso del nostro mercato aereo, certo con una qualche unilateralità, può essere raccontato anche così. E così del resto lo sintetizza Marcello De Cecco in un paper non ancora pubblicato.

Bene, anzi male, tutto questo è accaduto. Ma è accaduto perché non funzionano la concorrenza e i privati o per difetti da imputare in primo luogo alle azioni con le quali lo Stato o gli enti locali dovevano orientare e regolare i mercati nascenti da liberalizzazioni e privatizzazioni? I privati, si sa, più che all’aureola pensano a far soldi. Ma quel che conta è che nei mercati liberalizzati la mano invisibile basta assai meno che altrove e lo sapeva bene la stessa signora Thatcher, nei cui anni di governo fu proprio il Regno Unito a sviluppare l’esperienza di regolazione più attenta e intensa per far nascere e crescere dei mercati funzionanti al posto dei vecchi monopoli.

Non voglio allargare troppo il discorso e prima di ritornare sull’Italia mi limito a ricordare che dei disastri seguiti alle privatizzazioni in buona parte dell’Est europeo (dagli arricchimenti smodati dei compradores al tasso di mortalità che sarebbe cresciuto fra le migliaia di lavoratori licenziati) giustamente Joe Stiglitz attribuisce la responsabilità alla shock therapy che si volle adottare in assenza di istituzioni statali capaci di governare il passaggio.

E torno all’Italia. Ce la ricordiamo la allegra incoscienza con la quale lasciammo crescere il Far West delle televisioni private dopo che nel 1976 la Corte costituzionale dichiarò legittimo il solo monopolio nazionale e illegittimo quello locale? Lungo anni e anni di totale omissione legislativa e di acquiescenza a ciò che veniva accadendo fiorirono e sfiorirono oltre cento fiori, si consolidò un duopolio di tre reti pubbliche contro tre reti private e poi non si seppe fare altro che sancirlo per legge. È colpa dei privati se finì così? Della liberalizzazione aerea ho già accennato e posso solo aggiungere che ogni italiano ha diritto di chiedersi perché la concorrenza abbia rafforzato British Airways, Air France e Lufthansa e abbia invece indebolito Alitalia. Invito poi chi ne ha voglia a dare una occhiata alla giungla delle discipline che regolano le nostre società aeroportuali, per rendersi conto della impossibilità che da quell’insieme dissennato esca una concorrenza funzionante. E termino con un cenno alla concorrenza che sta per aprirsi nel settore ferroviario, dove c’è un obbligo di servizio universale per le stesse percorrenze medio-lunghe non coperte dalle Regioni, che tuttavia non è regolato ed è solo occasionalmente finanziato. Che Dio ci assista.
Conclusione. La rinuncia alle norme sulla concorrenza fu adottata come medicina anti-crisi all’inizio del New Deal negli Stati Uniti e negli anni 90 in Giappone. Ne vennero benefici sociali a breve termine, che furono però largamente compensati dai danni di lungo termine sul terreno della produttività e dell’efficienza di sistema. Se è vero perciò che c’è molto da rivedere negli ingredienti del Washington consensus, teniamone fuori la concorrenza. E impariamo caso mai a farla funzionare.

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Se l’Europa trovasse una svolta comune
di Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2009

→  marzo 29, 2008


«Pensare che la flessibilità del lavoro sia un tema in cui si contrappongono diritti dei lavoratori e diritti dell’impresa è partire male. E non perché sia superato il concetto di lotta di classe».
Franco Debenedetti ha lavorato 35 anni in aziende, piccole come quella del padre, e grandi, come Fiat. In Olivetti, era responsabile di tutta la parte software. Poi è entrato in politica. Prima con i Progresssisti. Poicon i DS. Con lui parliamo di crescita, di questione salariale, di doveri dell’impresa
(di cui si parla molto) ma anche dei suoi diritti spesso dominati dal silenzio.

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→  agosto 17, 2007

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Se le «locuste» sono benvenute

In questi giorni si fa un gran parlare di fondi, hedge fund, di fondi di private equity, il più delle volte per addossare ad essi le responsabilità dei sommovimenti di Borsa a cui stiamo assistendo. Ma ancora pochi giorni fa si guardava a quegli stessi fondi come a una delle soluzioni ad altri problemi, quelli posti dai fondi d’investimento posseduti da Governi, i sovereign fund.

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→  giugno 14, 2006

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Si dice concertazione e subito si pensa a come coniugare risanamento e sviluppo, mercato e solidarietà, merito e individuo; o a come dividere i punti del cuneo fiscale tra imprese e lavoratori o tra imprese e imprese.

Temi di cui non si disconosce l’importanza: ma che fatalmente finiscno in un braccio di ferro per spostare il coltello che taglia una torta troppo piccola, se la concertazione non è volta a prendere di petto il problema di fondo: l’Italia è l’unico tra tutti i paesi industrializzati in cui la produttività da anni non aumenta.

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