Partecipare agli utili? Inutile

settembre 10, 2009


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Sono bastati i primi segnali di uscita dalla crisi, e subito è ritornato a manifestarsi il male che affligge l’economia italiana, vent’anni di crescita inferiore a quella degli altri paesi industriali, dieci anni di produttività praticamente ferma. La bassa produttività, a sua volta causa di bassi salari, e quindi di un mercato interno debole, rimanda ai ben noti nodi strutturali, dalla formazione alla dotazione di infrastrutture.

Ma sono anche noti gli strumenti che possono favorire la crescita della produttività. Incentivarla, incrementando la parte variabile del salario, dando maggiore spazio alla contrattazione aziendale di secondo livello. Aumentare la produttività media del sistema, con una riforma del mercato del lavoro che riduca le rigidità all’uscita di lavoratori dalle aziende meno produttive e ne faciliti la ricollocazione nelle aziende e nelle mansioni più produttive. Rendere meno costosi per le aziende gli investimenti, riducendo il costo del capitale necessario per finanziarli.

Desta quindi sorpresa l’endorsement convinto del governo a una legge che consenta la partecipazione dei lavoratori agli utili aziendali, una proposta che desta diffidenza nella Cgil, ma è vista con favore dagli altri sindacati e da ampi settori del Pd. L’aumento della produttività, proprio in questo momento, è un bene pubblico, e quindi giustifica un intervento del governo in una materia che riguarda un contratto tra privati: ma in termini generali, e cioè fatti salvi singoli casi, la partecipazione agli utili pare uno strumento inadatto a raggiungere l’obiettivo voluto.

La partecipazione agli utili incentiva la produttività? Perché un incentivo sia efficiente, deve essere percepibile la relazione tra impegno richiesto e risultato raggiunto: la produttività deve essere riconosciuta il più vicino possibile a dove essa è influenzata dal comportamento individuale. Invece l’utile aziendale, l’ultima cifra in basso a destra del bilancio, è il risultato d’innumerevoli fatti su cui il lavoratore non ha nessuna influenza: fatti sia interni – politiche di prodotto, di prezzo, d’investimenti produttivi o commerciali, di bilancio – sia esterni all’azienda – efficienza dei servizi costo del danaro, regime fiscale, eccetera.

Riduce la rigidità del mercato del lavoro? Al contrario è probabile che l’aumenti: cambiamento di prodotti o mercati, innovazioni tecnologiche, delocalizzazioni, saranno in generale ostacolati da quella parte di lavoratori che si riterrà svantaggiata da simili iniziative, anche se esse promettono un aumento dell’utile aziendale.

Favorisce gli investimenti produttivi? Se si trattasse di pura contabilità, agli azionisti non farebbe differenza se gli incentivi vengono pagati prima o dopo la determinazione dell’utile, e cioè se essi sono maggior costo di produzione o un minor utile aziendale. Ma visto che gli incentivi “pagati” con l’utile hanno un effetto minore o addirittura contrario sulla produttività, essi preferiranno investire in aziende che non adotteranno la compartecipazione agli utili: queste dovranno sopportare un maggior costo per trovare il capitale con cui finanziare i propri investimenti.

Il problema impellente è aumentare la produttività per non perdere la possibile uscita dalla crisi. Poco o punto efficace a risolverlo, la partecipazione agli utili rischia di confondersi con una visione alta quanto vaga: la “democrazia economica”. I lavoratori, con le loro organizzazioni sindacali, hanno evidentemente diritti nel definire le condizioni, organizzative e ambientali, in cui prestano la propria opera; questi diritti si estenderanno e si arricchiranno di contenuti tanto più quanto più la produttività, e il relativo premio, verranno misurati là dove essa si forma. In quella sede “democrazia economica” ha un significato preciso.

Il ministro Sacconi è stato esplicito nel negare che la compartecipazione agli utili sia il primo passo verso una qualche forma di cogestione. Ma l’allarme è scattato, e non si può liquidarlo come pretestuoso: infatti è evidente che, una volta dato il diritto a una parte degli utili, è difficile negare quello di co-decidere come si forma il tutto. È certo auspicabile che i lavoratori abbiano strumenti il più possibile integrati nell’impresa, per fare sentire la propria voce circa il suo futuro. Ma non ci si può nascondere il fatto di fondo, e cioè la diversità degli interessi dell’azionista e del dipendente per quanto riguarda la formazione dell’utile di bilancio: lo si è visto anche in occasione della recente crisi, quando gli stessi politici che pretendono dagli azionisti visioni e politiche di lungo termine, esortano i dipendenti a consumare quanto guadagnano.

Anche gli esperimenti di azionariato ai dipendenti, là dove sono stati fatti su larga scala e con grande cura ai dettagli (penso all’Olivetti negli anni 80) hanno evidenziato nel tempo inconvenienti di fondo. Oltretutto, perché si dovrebbe consigliare ai dipendenti di accettare una concentrazione di rischi – essendo legati due volte all’andamento dell’azienda – mentre gli azionisti “veri” si possono permettere quella di diversificare i rischi?

Parlare di cogestione significa parlare di corporate governance. In Germania, la cogestione nelle grandi aziende del carbone e dell’acciaio fu introdotta nel 1951 per scongiurare il ripetersi del supporto che esse avevano dato al nazismo.

Il nostro sistema capitalistico ha evidenti problemi di corporate governance, di separazione di proprietà e controllo, di conflitti d’interessi, di asimmetrie: ma non avrebbe senso alcuno pensare di risolverli complicandoli, introducendo nei consigli di sorveglianza (obbligatori dunque?) alcuni consiglieri dipendenti. Non avrebbe senso neppure accennare a un simile problema, quando già si giudica troppo rischioso, in tempo di crisi, prendere provvedimenti semplici e circoscritti, quali l’innalzamento dell’età pensionabile, o il cosiddetto “contratto unico”.

È in discussione al Senato una proposta di legge che raccoglie e sintetizza iniziative nate nel corso della legislatura a destra e a sinistra dell’arco politico. Essa è volta a rendere possibili le scelte volontarie e libere di singole imprese in merito a distribuzione degli utili ai dipendenti, assegnazione d’azioni, destinazioni di quote del Tfr, eccetera, evitando le doppie imposizioni e disparità di trattamento fiscale tra varie forme d’incentivazione della produttività.

Ma la parte veramente innovativa è quella dell’articolo 5, là dove consente “scommesse” su progetti industriali o sperimentazioni di forme organizzative non previste dai contratti nazionali, ove ci sia l’accordo di un sindacato che rappresenti il 51% dei lavoratori, o la sanzione d’un referendum. Sono proposte in sé limitate, ma di straordinaria portata per promuovere innovazione organizzativa e rimuovere sclerosi che bloccano possibili sentieri di crescita. Ammantarle di nomi altisonanti o di prospettive millenaristiche non giova a liberarne le potenzialità. Non dovrebbe essere necessario farlo per ottenerne l’approvazione.

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