Finanza mondiale, mobilità dei capitali

agosto 17, 2007


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Se le «locuste» sono benvenute

In questi giorni si fa un gran parlare di fondi, hedge fund, di fondi di private equity, il più delle volte per addossare ad essi le responsabilità dei sommovimenti di Borsa a cui stiamo assistendo. Ma ancora pochi giorni fa si guardava a quegli stessi fondi come a una delle soluzioni ad altri problemi, quelli posti dai fondi d’investimento posseduti da Governi, i sovereign fund.

In particolare si proponeva che questi ultimi non assumano partecipazioni dirette, ma debbano farlo per il tramite di investitori istituzionali: come ha fatto la Cina con il fondo di private equity Blackstone. Questo per dire che non ha molto senso dividere “buoni” o “cattivi” in base alle categorie dei soggetti che operano sul mercato. La mobilità dei capitali rende difficile percepire le interconnessioni: può perfino accadere, come vedremo, che usare hedge e private equity per ridurre alcuni problemi posti dai sovereign fund abbia conseguenze su alcune forme di governance tipiche dell’Europa continentale.
I sovereign fund che destano preoccupazioni non sono quelli, attivi da anni, di Kuwait e Singapore, ma quelli di Cina o Russia, che di recente hanno fatto la loro apparizione sui mercati finanziari. Si teme che, con disponibilità che dagli attuali 2.500 miliardi di dollari raggiungeranno i 12mila miliardi di dollari nel 2015, possano comperare qualsiasi azienda, creare con movimenti bruschi scompigli nei mercati, usare le partecipazioni acquisite per scopi diversi da quelli di un normale investitore. «Il problema – scrive Larry Summers sul Sole-24 Ore del 5 agosto – ha radici profonde che sono alla base del capitalismo globale. Un fenomeno significativo dello scorso quarto di secolo è stata la brusca diminuzione della proprietà statale diretta delle imprese, mentre il settore privato ha acquisito aziende una volta pubbliche».
Le privatizzazioni non sono avvenute per necessità di far cassa, ma come conseguenza della globalizzazione. Infatti i Governi non hanno conoscenze dei mercati superiori a quelle che può avere un investitore, e per contro hanno maggiori vincoli nei rapporti con la manodopera e nella scelta del management: e dato che con la globalizzzazione aumenta la concorrenza degli investimenti tra loro, risultano penalizzati i vincoli alla mobilità del controllo posti a protezione di attività inefficienti. Che i Governi dei Paesi a basso costo del lavoro usino le enormi attività finanziarie accumulate grazie alla globalizzazione per acquistare partecipazioni in aziende private, o addirittura in aziende che erano pubbliche e sono state privatizzate, appare come una stridente contraddizione.
Da un lato ci sono i vantaggi per l’economia mondiale se una parte di quei surplus vengono investiti in attività produttive, con rendimenti superiori a quello del debito pubblico americano. Dall’altro lato c’è il rischio che il controllo di grandi aziende finisca nella mani di Governi autoritari. Per questo si pensa a porre regole alle attività dei sovereign fund: trasparenza sugli investimenti, limiti alle percentuali massime di possesso, possibilmente reciprocità. E, come si è detto, la richiesta di investire usando gli strumenti dei fondi esistenti, hedge o di private equity.
Se questa diventerà una prassi largamente adottata dai sovereign fund, alla fase delle privatizzazioni, in cui è venuta meno la proprietà pubblica di tante imprese, seguirà una seconda, in cui vengono meno i vincoli alla mobilità del controllo, e con essi i soggetti e i sistemi posti a presidio di quei vincoli: i comuni, le fondazioni, i patti di sindacato, le partecipazioni incrociate. Prima è toccato alla proprietà pubblica dimostrarsi un concetto senza valore economico; adesso la stessa cosa potrebbe toccare a quello di identità nazionale. Infatti, per consentire alle imprese europee di attirare investimenti evitando di diventare preda di Governi poco affidabili, sarà necessario che esse si aprano alla logica esclusivamente economica delle “locuste”, come sono stati chiamati i fondi di private equity: proprio perché sono “senz’anima”, sono l’antidoto contro pubblicizzazioni surrettizie.
Gli incrementi di produttività, il grande problema dell’Europa oggi, si realizzano più facilmente in aziende che le “locuste” disaggregano e riaggregano; i grandi incrementi di produttività americani iniziarono proprio dopo i leverage buyout degli anni 80. Il “capitalismo renano” sarà pure (in alcuni casi lo è stato) «il meglio che ci sia», come scrive Massimo Mucchetti sul «Corriere della Sera» del 5 agosto, ma si taglia fuori dal flusso degli investimenti che i fondi, per conto dei sovereign fund, possono riversare nelle acque del Reno, del Danubio e della Loira.
E del Po. Proprio perché il nostro capitalismo può vantare meno blasoni di quello renano, abbiamo ragioni in più per considerare positivamente questi sviluppi. Se chiediamo che i surplus finanziari delle potenze emergenti vengano investiti secondo logiche di mercato e non politiche, diventa contraddittorio opporsi a che una nostra grande banca non sia più di proprietà italiana, così come l’Abn Ambro non sarà più di proprietà olandese. Neppure l’italianità delle Generali potrà essere un argomento tabù, ma dovrà essere valutata solo in funzione del costo o del vantaggio per il consumatore.
Lo stesso si dica per l’unità del gruppo Fiat. Sia Cnh che Iveco guadagnano bene e sono leader nel loro settore, mondiale l’una, europea l’altra, mentre l’Auto, nonostante i progressi fatti, continua a produrre margini risicati, come è logico in un mercato conteso da una dozzina di marche. Se un fondo di private equity comperasse la Fiat, ne separerebbe le unità: dove sarebbe il danno?
Gli investitori istituzionali, e dunque anche i fondi oggi demonizzati, possono offrire un contributo, ancorché parziale, ai problemi posti dai sovereign fund. Che una parte dei surplus accumulati dai Paesi emergenti venga reinvestita in attività industriali in Occidente, senza condurre a ripubblicizzazioni, è un fatto positivo, che andrebbe favorito. Ciò comporterà che tutti gli investimenti dovranno rispondere solo a criteri di efficienza, e questo metterà fuori mercato i “centri di potere parastatale”. A propiziare la nostra crescita saranno proprio le “locuste senz’anima”.

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