Se l'Europa trovasse una svolta comune

gennaio 25, 2009


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Strategie di rilancio

di Carlo Bastasin

Le democrazie non sono indulgenti con se stesse. E infatti Barack Obama non sta dimostrando compiacimento nei confronti del proprio Paese. «Dobbiamo rifare l’America», ha affermato nel discorso inaugurale. Ha denunciato avidità e irresponsabilità degli individui, ha evocato fallimenti e «l’inverno profondo», e chiamato un nuovo spirito di servizio e di regolazione pubblica.
Per reagire alla crisi cambierà il piano di salvataggio delle banche e con il più vasto appoggio nel Congresso varerà un pacchetto di stimolo fiscale in buona parte orientato, come ha spiegato ieri, a migliorare la produttività del Paese nel lungo termine. Sa che gli Stati Uniti non potranno uscire da soli dalla crisi e ha portato alla luce il problema della cooperazione globale, cominciando dalla Cina. A questo servono i cambi di governo in democrazia: a correggere gli errori, senza indulgenze.
Il vuoto di democrazia pesa invece sull’Europa. Legittimamente nessun governo nazionale si sente artefice della crisi, ognuno può fingersi vittima compiaciuta parlando allo specchio della propria opinione pubblica. Ma l’irresponsabilità politica induce solo a scansare le soluzioni costose, finendo per danneggiare se stessi. Mentre Obama pone le basi di un’uscita costruttiva dalla catastrofe che in gran parte gli Stati Uniti hanno provocato, l’Europa sta indebolendo le proprie fondamenta. Il Patto di stabilità e crescita e il Mercato unico, i due pilastri della cooperazione economica europea, sono infatti a rischio.
Il rilancio della domanda aggregata nell’Unione europea è stato affidato a un Piano di rilancio che prevede azioni coordinate di stimolo pari all’1,6% del Pil e un impegno al rafforzamento della competitività e della tecnologia con effetti non solo temporanei. Ma come emerge dai bilanci 2009, il Piano resta inattuato. Non solo in Italia, dove il sostegno netto, tra aiuti alle famiglie e prelievi sulle imprese, è sostanzialmente nullo, ma anche nei Paesi con minori vincoli di bilancio.
La mancanza di coordinamento e di iniziativa politica ha fatto prevalere un atteggiamento passivo: ogni Paese reagisce alla crisi, caso per caso, una volta che i sintomi si manifestano.

L’ambiguità concessa dal Consiglio europeo nella gestione dei bilanci pubblici è stata utilizzata non per sviluppare una strategia di sostegno, ma per contabilizzare gli effetti della recessione sulle entrate fiscali e per interventi ad hoc che minacciano il mercato unico. I governi nazionali hanno una comune convenienza a proteggere le proprie imprese con denari pubblici: aumentano la propria influenza sui centri di potere economico tenendoli in mani nazionali. La concorrenza infatti è un interesse caro ai cittadini, non necessariamente ai governi.

La segmentazione del mercato unico, tranne in casi specifici come quello dei mercati monetari, non è una conseguenza inevitabile della crisi. È il frutto dell’inerzia politica. La Commissione europea ha aperto la strada a una disposizione nell’art.87 del Trattato che definisce compatibili gli aiuti di Stato destinati a «porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro». Aperto questo varco, studiato per le banche in grave crisi, l’applicazione rischia di dilagare. È diventato più facile per Sarkozy stanziare fondi di sostegno diretto per le imprese dell’auto, dell’acciaio e della stampa, «purché restino in Francia». Lo stesso su scala maggiore avviene in Germania dove il Governo sta influenzando direttamente le scelte di credito alle imprese da parte delle banche nazionalizzate. Ha finanziato la fusione Commerzbank-Dresdner per aiutare Allianz, poi ha dovuto nuovamente aiutare la banca di Francoforte che ha già modificato la politica del credito alle imprese assecondando i desideri del Governo. Ha aiutato la fusione Continental-Schaeffler e ora vuole salvarne l’esito fallimentare. Vuole influenzare le scelte di credito sia alle piccole e medie imprese con 15 miliardi attraverso la Kfw, sia alle grandi distinguendo a proprio giudizio le “imprese sane” e distribuendo 100 miliardi con un fondo che non a caso si chiama “Fondo Germania”. Sta prendendo profilo una “politica industriale” e sarà inevitabilmente “nazionale”. Ieri il Governo spagnolo ha invitato i cittadini a “comprare spagnolo”. Da parte sua la Gran Bretagna sta abbandonando ogni forma di coordinamento con i Paesi europei negli interventi pubblici d’emergenza cui è costretta e che diventano più drammatici ora dopo ora.
Di questo passo la tutela della concorrenza su scala europea non potrà resistere. E probabilmente le cure faranno danni peggiori di una crisi che, risolti i problemi di circolazione del credito, si sarebbe dimostrata meno grave di quanto gli stessi responsabili politici non amino descriverla, agganciando il proprio potere a un astuto allarmismo. La settimana scorsa, spaventati dal proprio stesso osare, i governi hanno dato vita, nel Consiglio competitività, a un quadro europeo per il sostegno dei beni durevoli con obiettivi di efficienza ambientale, che daranno almeno un significato accettabile agli aiuti all’auto. Ma il senso della rinazionalizzazione dell’economia europea resta prevalente.
Se la Commissione sentisse l’era della propria responsabilità, se Barroso non fosse paralizzato dalle ambizioni di rinnovo alla presidenza, anche l’Unione europea dovrebbe porsi nell’ottica di Obama di “rifare l’Europa”, anziché di disfarla. E se Obama fosse presidente degli Stati Uniti d’Europa probabilmente saprebbe proporre l’antidoto possibile all’erosione del mercato unico: il rafforzamento di un sistema europeo di flexicurity che garantisca a chiunque perda lavoro, precario o no, una piena assistenza pubblica, un sussidio di disoccupazione pluriennale per esempio, comune a tutti i Paesi europei a fronte di un mercato del lavoro dinamico, che non nascondesse la flessibilità nell’economia sommersa o nell’outsourcing. La fiducia delle famiglie che oggi vedono a rischio il proprio reddito sarebbe confortata. Le aspettative di consumo sarebbero rafforzate e quindi anche i progetti di investimento delle imprese potrebbero far conto su uno stabile orizzonte. Con un mercato in cui il commercio extraeuropeo conta per una quota molto minoritaria, non ci sarebbe bisogno di interventi protezionistici o di nazionalizzazioni nascoste per superare la recessione. La concorrenza potrebbe essere mantenuta.

Oltre alle ovvie ragioni che spingono a tutelare il mercato e a tenere a bada l’intrusione della politica, vi sono alcune ragioni forse meno evidenti ma non meno importanti. La prima è che i Paesi che dispongono di mercati del lavoro flessibili, ma anche di sistemi di assicurazione sociale molto forti, come i Paesi scandinavi, sono quelli che dimostrano di risentire della crisi meno di tutti gli altri. Una seconda ragione è che lo sviluppo moderno dei sistemi di assistenza universale sarà al centro dell’azione di politica sociale del nuovo presidente americano, con una convergenza degli Stati Uniti verso il modello europeo che è la conferma della visione degli europeisti. Ma una tale convergenza può compiersi e può resistere alle tentazioni protezioniste solo se ispirata dall’efficienza di un’economia dinamica e sarebbe assurdo che l’Unione europea mancasse questa opportunità di affermazione e difesa del proprio modello di società.
La terza ragione è che i costi di riforma del sistema di welfare, che normalmente giudichiamo esorbitanti, sarebbero modesti rispetto al volume di denaro pubblico che i governi progettano di investire nell’acquisizione di interi sistemi bancari e nel controllo di imprese, e gli oneri diminuirebbero con la ripresa dell’economia. In questo senso la riforma della contrattazione approvata in Italia giovedì, purtroppo senza la Cgil, va nella giusta direzione ma richiede ora una riforma degli ammortizzatori. Inoltre un sistema omogeneo di flexicurity sarebbe coerente con la riduzione delle tasse sul lavoro a minor reddito, una misura efficace per stimolare sia i consumi sia l’offerta di lavoro e coordinabile a livello europeo, con effetti amplificati sul moltiplicatore fiscale. Al centro dell’azione politica sarebbero finalmente gli individui e lo sviluppo della loro capacità creativa nella società della conoscenza.

Un’ultima ragione è che l’omogeneità del modello sociale tra i Paesi europei non è indispensabile solo per mantenere senso e prospettiva al mercato unico, ma perché costringe la politica dei partiti europei di destra o di sinistra ad assestarsi ordinatamente ai due lati della mediana europea, cioè del livello medio di sicurezza e di flessibilità sul quale i Paesi si accorderanno. Solo in tal caso la vita pubblica europea potrà dare un senso al confronto tra una destra e una sinistra europee e quindi a sviluppare un discorso politico ben riconoscibile che consenta di mobilitare l’opinione pubblica su scala continentale e a rendere così finalmente compiuta la democrazia europea.

Nel prossimo giugno la crisi economica vivrà probabilmente il suo momento peggiore. Si faranno sentire più forti i venti contrari della disoccupazione. Proprio in quel mese si terranno le elezioni per il Parlamento europeo. È facile prevedere i sentimenti dei cittadini nei confronti dei loro governi e della politica europea. Nel momento in cui «l’America – scrive Barbara Spinelli – scopre il post-nazionalismo europeo», politici locali utilizzeranno l’Europa come capro dell’espiazione nazionale. È in quei momenti che si misura il coraggio di un popolo e di chi lo rappresenta. Mentre Obama chiamerà gli americani a costruire strade e ponti, reti elettriche e digitali, a imbrigliare il sole e i venti, a trasformare le scuole e le università «per rispondere alle esigenze di una nuova era», gli europei rischiano di arretrare entro vecchi confini che contengono solo le forme vuote della politica nazionale. Anche in questo caso, come ha detto Obama, la storia giudicherà chi ha saputo costruire e chi invece ha saputo distruggere.

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