Intervista con… Franco Debenedetti

marzo 29, 2008


Pubblicato In: Varie


«Pensare che la flessibilità del lavoro sia un tema in cui si contrappongono diritti dei lavoratori e diritti dell’impresa è partire male. E non perché sia superato il concetto di lotta di classe».
Franco Debenedetti ha lavorato 35 anni in aziende, piccole come quella del padre, e grandi, come Fiat. In Olivetti, era responsabile di tutta la parte software. Poi è entrato in politica. Prima con i Progresssisti. Poicon i DS. Con lui parliamo di crescita, di questione salariale, di doveri dell’impresa
(di cui si parla molto) ma anche dei suoi diritti spesso dominati dal silenzio.

Nessun dualismo tra diritti dell’impresa e diritti dei dipendenti: una definizione in perfetto stile veltroniano secondo cui non c’è ragione di scontro perché anche l’imprenditore
è un lavoratore come gli altri?

«Non è questo il mio punto di vista. Quello che dice Veltroni può valere per le microimprese. Non serve, però, ai fini del problema reale cui si deve dare risposta. Vale a dire la regolamentazione dei diritti dei lavoratori. La frase a qualcuno fa venire in mente il patto dei produttori, in cui i diritti venivano messi al servizio di un progetto interamente politico. E che sfociò nell’accordo tra Agnelli e Lama del ’75 sul punto unico di contingenza. Con le conseguenze sull’inflazione che conosciamo. Quindi lasciamo perdere».

E allora?

«Intanto non facciamo confusione: c’è la questione della flessibilità, che riguardai diritti, dunque la legge, dunque il governo. Poi c’è la questione salariale, che riguarda il modo in cui si divide il profitto
prodotto dall’impresa tra capitale e lavoro. La questione salariale con la difficoltà crescente alla quarta settimana sta diventando un’emergenza. Se non ci sono soldi da spendere, anche il mercato interno si affievolisce. E questo rende ancora più grave il problema della bassa crescita dell’Italia. È dieci anni che noi cresciamo meno dell’Europa: per forza che i nostri operai guadagnano di meno dei loro colleghi tedeschi o francesi».

La Confindustria non chiede altro: la maggior crescita come soluzione dei problemi del Paese

«Ha ragione quando indica dove stanno gli ostacoli, tra cui anche la rigidità del contratto di lavoro. Tutti devono fare esami di coscienza, neppure Confindustria ne è esentata. C’è ad esempio un’osservazione di Pietro Ichino, ripresa da Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera del 21 marzo, su cui conviene riflettere”.

Qual è?

«Ichino osserva chele aziende italiane di proprietà delle multinazionali straniere hanno una produttività media più alta della media delle aziende italiane. Perché, si chiede? Può darsi che esse traggano profitto
dal maggior potere di mercato del gruppo multinazionale. O dalle tecnologie sviluppate altrove e importate in Italia. Parentesi: qualunque sia la causa, noi dovremmo spalancare le porte agli stranieri, non scoraggiarli con la stupida difesa dell’italianità. Chiusa la parentesi. Ma dipende solo da questo?».

Però le rigidità crescono anziché attenuarsi. Che cosa pensa della proposta di Walter Veltroni che vuole istituire il salario minimo di mille euro?

«A Torino direbbero che gli è scivolato il piede sulla frizione. Con tutto il rispetto, è una proposta sbagliata».

E qui si torna ai diritti dell’impresa che forse in troppi, negli ultimi anni, hanno dimenticato.

«Ma l’aumento della produttività non è un “diritto” dell’impresa, semmai è più un dovere, è quello che ci si aspetta che faccia l’impresa. Invece che di diritti parliamo di interessi. È interesse del Paese che aumenti la produttività, e dato che questa si forma nell’impresa, è logico incentivarla a quel livello, e non solo constatarla a posteriori a livello nazionale. E questo lo si può fare solo con il decentramento
contrattuale, aziendale o, se l’azienda è troppo piccola, da parte delle organizzazioni sindacali e datoriali territoriali».

La Cgil, però, è contraria. Sostiene che lungo questa strada si finisce per precarizzare tutto il mondo del lavoro.

«No, la precarizzazione è la conseguenza, non la causa. Oggi quello del lavoro è un mercato duale. Bisogna riunificarlo e la soluzione si chiama flexsecurity. Come si è fatto nel nord-Europa e come si sta cercando di fare in centro Europa. Ridistribuire tutto il sistema delle protezioni, evitando che la perdita del posto sia la condanna alla povertà, la tragedia di un’intera famiglia, ma invece aiutando chi lo perde a trovarne un altro. È un sistema complicato da mettere in piedi perché le amministrazioni pubbliche non hanno le professionalità per offrire questa assistenza. Per questo anche all’estero si ricorre a imprese private».

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