di Giuseppe De Rita
Caro direttore,
non sono passate molte settimane da quando scrissi sul rapporto fra mercato e intervento pubblico, rapporto che, per me antico saraceniano, corrisponde al concetto e alla prassi dell’«economia mista». Scrivevo allora che non amo più di tanto questo termine, perché lo considero figlio di un’epoca passata, ma le vicende delle ultime settimane mi convincono a tornare sull’argomento, forse con un po’ di maggiore cattiveria. Sono infatti sbalordito dal modo un po’ svagato e impudente con cui politici e opinionisti ripropongono il tema.
A parte l’onesta determinata lucidità con cui Giulio Tremonti dice che «la salvezza è nel pubblico» e Francesco Giavazzi ribadisce il primato del mercato, il panorama delle opinioni è congestionato e confuso, con qualche tocco di furbizia. Ci si ritrovano infatti la propensione a pensare “a pendolo” (prima il mercato, poi il pubblico, poi il mercato, e oggi di nuovo il pubblico); la vaga definizione di nuovi necessari ruoli di intervento dello Stato (da quello diretto sulle opere pubbliche alla ridefinizione delle regole di sistema); la ricerca di nuovi mix di responsabilità, con la riproposta di un’«economia sociale di mercato»; l’avventura intellettuale e politica verso concetti e prassi di sussidiarietà orizzontale e verticale, che per ora hanno sfondato solo nella dottrina sociale cattolica. Un panorama, mi si perdoni la preannunciata cattiveria, un po’ desolante, specialmente se si mettono a confronto le opzioni sopra elencate con le spietate difficoltà poste a tutti noi dalla crisi, nazionale e internazionale, che stiamo attraversando. Dovessi io gestire la crisi, sparerei a vista a chi mi venisse a parlare di sussidiarietà o di economia sociale di mercato (chiedendo venia al professor Natalino Irti e alla Scuola di Friburgo). Con tutti i dubbi di chi l’ha vissuta in prima persona e ne ha visti il bene e il male, preferisco la rude prassi decisionale beneduciana, di un uomo che era convinto che l’economia mista prima si fa e poi la si teorizza.
Riproporre l’economia mista comporta però la presa di coscienza che oggi, rispetto al passato, vince un accentuato policentrismo dei poteri, sia privati che pubblici; e che quindi non si può riproporre una pura e semplice pendolare ripresa di un determinante intervento statale. Non siamo più la società semplice degli anni fra il 1935 e il 1960; siamo una realtà molto più complessa per cui lo Stato può essere indispensabile in casi specifici ma non può ritornare a essere quel «soggetto generale dello sviluppo» su cui tanti (quorum ego) hanno discettato fino a metà degli anni 70. Ricordiamoci infatti che il nostro sviluppo ha non uno, ma tanti soggetti. Un sistema che ha cinque milioni e mezzo di imprese è per sua natura policentrico; un sistema che ha un centinaio di migliaia di aziende che affrontano con successo e in piena autonomia la globalizzazione imperante, è policentrico; un sistema in cui alcuni settori importanti (distribuzione, logistica, trasporto) sono regolati da una concentrata dialettica fra piccole e grandi imprese, è policentrico; un sistema in cui la dimensione finanziaria e bancaria ha dato luogo a un’intensa metamorfosi dimensionale e istituzionale, è policentrico (basterebbe vedere come alcune grandi banche hanno recentemente operato con un impegno da “banche di sistema” che in passato sarebbe stato demandato alle grandi agenzie pubbliche); un sistema in cui alcuni enti locali, regionali e comunali, hanno sviluppato proprie strategie di sviluppo (in Emilia o in Lombardia, a Torino o a Milano, nella conurbazione triveneta come nei piccoli comuni dell’Italia centrale) è policentrico.
Questo non vuol dire che la responsabilità politica e l’intervento pubblico siano oggi poco importanti, vuol dire solo che essi devono sostenere il policentrismo e non sostituirlo: devono cioè dare generale orientamento politico alle decisioni e ai poteri dei vari soggetti (capendo e gestendo oggi la crisi e aiutando domani le minoranze vitali che competono sui mercati mondiali); e devono concentrarsi su singole e strategiche operazioni di infrastrutturazione che diano assetti di rete al policentrismo imprenditoriale e localistico. Per il resto asteniamoci; prendiamo decisioni e operiamo di fatto in una logica di economia mista, ma senza filosofarne, se non vogliamo innescare pericolosi atteggiamenti collettivi di securizzazione.
Si dirà da qualcuno che anche questa attiva limitata partecipazione del potere pubblico al complessivo policentrismo del sistema potrebbe collidere con le filosofie e le prassi “mercatistiche” dell’Unione europea. Ma la crescita di complessità e articolazione dell’economia europea impone a tutti un po’ di elasticità culturale, prima che politica. Attento come sono, da ricercatore, al progressivo policentrismo di interessi e di poteri che l’Europa a 27 sta creando, credo che sarebbe delittuoso governare ancora il continente con l’approccio ideologico (puramente liberista sul piano economico, ottusamente burocratico sul piano normativo, sotterraneamente lobbistico sul piano del business) che ha contraddistinto il governo comunitario negli ultimi due decenni. Qualcosa va cambiato, ma avremo la forza politica e la presenza dialettica per non restare su un piano puramente esigenziale? Io credo di si, se non ci sentiremo in difficoltà minoritarie; la nostra esperienza di economia mista e di governo policentrico del sistema non sono cose di cui vergognarsi, sono anzi componenti essenziali, e oggi indispensabili, di un moderno governo dello sviluppo.
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