Il modello tedesco di mercato sociale

agosto 28, 2008


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di Carlo Bastasin

Sembrano slegati tra loro i temi che nelle ultime settimane hanno innervato il discorso pubblico italiano: la riscoperta dell’economia sociale di mercato, il futuro della scuola e il conformismo che si esprime nell’opinione pubblica. Ma se riuscissimo a intrecciarli metterebbero in luce una filigrana sorprendente e perfino scioccante della società italiana…

L’economia sociale di mercato non è un modello definito di società, ma una visione del ruolo centrale dell’individuo nella società. È nato nel ’48 in Germania cercando di coniugare il desiderio di libera iniziativa del cittadino con la sua necessità di sicurezza, a cui esso partecipa sia come percettore di risorse pubbliche sia come contribuente, come lavoratore e come capitalista. Dopo alcuni decenni, sulla libertà di iniziativa dell’individuo ha prevalso il ruolo politico dello Stato sociale, che aveva permesso di ricostruire un sentimento pubblico positivo. Una forma di patriottismo sociale è riuscita infatti a riscattare gli Stati nazionali screditati dalle tragedie della guerra e un sentimento di eguaglianza è diventato centrale nella tradizione repubblicana europea e nella sottostante identità etnica.

Tuttavia negli ultimi anni, nonostante uno Stato sociale enorme, la disuguaglianza e la povertà sono tornate a crescere. In Germania la quota dei poveri aumenta dal ’98 dell’1% all’anno e sfiora il 20% della popolazione. In Italia c’è uno scivolamento delle fasce medie di reddito verso il basso, mentre il debito pubblico impedisce sia di investire, sia di correggere le pesanti aliquote fiscali che colpiscono anche i redditi medio bassi.

Così, in Germania, dove pure è in atto una competizione a distribuire reddito in vista delle elezioni del 2009, la cancelliera Merkel ha lanciato una campagna di ammodernamento dell’economia sociale di mercato fondata sulla scuola. « Alla Bundesrepublik va sostituita la Bildungsrepublik»: la repubblica dell’istruzione.
Il ragionamento è semplice. I poveri sono per quasi tre quarti immigrati, spesso disoccupati, e per un’altra fetta sono genitori soli. I figli di questi cittadini sono svantaggiati dall’inizio alla fine della loro vita.

Il modo per aiutarli è l’intervento pubblico nelle scuole, dall’infanzia all’università. In tal modo si sviluppa non solo l’integrazione sociale, ma la capacità di crescita del Paese e una generale tensione alla conoscenza, alla competizione dei talenti e all’apertura delle idee.
Ciò che cambia radicalmente è che se nel passato l’obiettivo dello Stato sociale era l’elettore medio, fulcro dell’interesse politico, ora è invece quello ai margini: spesso non è nato in Germania, parla male la lingua, spesso nemmeno vota perché è troppo giovane o troppo sradicato. Il contrario dell’elettore mediano. È sufficiente questo a capire quanto anticonformismo politico sia necessario oggi per fare il bene del proprio Paese.

Merkel ha cominciato un viaggio tra asili e accademie dell’intera Germania, parla con i presidi e con i genitori e promette di riportare il sistema dell’istruzione alle vette del passato. I giornali ironizzano sul cancelliere che va a scuola e i Laender le contendono la competenza costituzionale. Ma il tema “scuola” è ormai tornato centrale, in modo semplice e credibile. Da qualche anno perfino i risultati degli studenti sono risaliti dal basso livello – pari a quello italiano – che aveva scioccato la Germania e scatenato l’allarme.

Proviamo un parallelo con l’Italia. Di questi tempi non si può nemmeno parlare di aiuti scolastici agli immigrati, che sono mal tollerati perfino se istruiti, nonostante garantiscano un futuro al Paese. Il clima di costante eccitazione elettorale inoltre porta a corteggiare il consenso della maggioranza contro quello delle minoranze e dei più deboli.

Un accenno del ministro dell’Istruzione alle disparità regionali della qualità delle scuole (approssimazione molto fedele dei dislivelli di reddito) ha suscitato irritazioni e facili ipocrisie, essendo peraltro in contrasto con l’anacronistica visione governativa di una scuola incubatrice dei sentimenti di tradizionalismo nazionale, di identità e di omologazione (fin dalla divisa). Infine alla verifica delle qualità degli insegnanti e degli studenti attraverso test nazionali, si è privilegiato il rafforzamento gerarchico dei presidi.

Chiusure nazionali, autoritarismo, pretese identitarie: la scuola non può crescere in questo conformismo. Il dibattito sull’opinione pubblica suscitato il mese scorso su queste colonne è presto deragliato su una strada ideologica, ma dovrebbe invece misurarsi proprio sul tema della scuola e dell’informazione, le piattaforme su cui si basa la libertà di scelta degli individui.
Una cornice di miseria psicologica di massa, in cui gli individui tendono a mimetizzare le proprie idee entro percorsi imitativi, sentendosi protetti solo se riaffermano ciò che è uguale a se stesso e discriminano ciò che è diverso – a scuola come nell’informazione – non è un ambiente da cui nascono idee e spirito di iniziativa. È anche così che il conformismo italiano da anni ostacola il cambiamento e lo sviluppo.

I media hanno la loro pesante responsabilità. Sarebbe infatti interessante vedere il presidente del Consiglio, così come ha fatto a Napoli con la questione rifiuti, confrontarsi sul campo con la questione della scuola. Ma che cosa succederebbe se Berlusconi imitasse la Merkel visitando licei e accademie per sensibilizzare il Paese? Telecamere, passerelle, applausi e fischi in un Paese politico trasformato dal suo sistema nervoso mediatico e dai suoi attori in un teatro vano e retorico.

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