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→  agosto 30, 2011


“Una gara a chi inventa quella più esotica”: così Emma Marcegaglia commentando la “patrimoniale sull’evasione”, l’ultima variante dovuta alla fantasia –fertile o ironica? – del Ministro Calderoli. C’era stata la “patrimoniale catastale” di Pellegrino Capaldo, sull’incremento di valore degli immobili, con modalità da lasciare alla politica “intesa nel senso nobile della parola”; quella “30-30-30” di Amato, 30 mila euro per ogni italiano facente parte del 30 per cento più abbiente, per abbattere di 30 punti il rapporto debito/PIL; quella “perforante” di Bersani, volta a colpire i patrimoni nascosti sotto lo scudo tremontiano; quella ”corretta” di Luca Cordero di Montezemolo, una botta una tantum nell’intervista al Corriere per conquistarsi il podio, diventata imposta annuale con aliquota minima nell’esegesi della sua fondazione.

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→  settembre 22, 2010


di Francesco Giavazzi

Non è il disaccordo sulla presenza dei libici che ha indotto le fondazioni italiane e gli azionisti tedeschi a sfiduciare Alessandro Profumo, peraltro senza scegliere subito un sostituto, come dovrebbe avvenire in una grande banca internazionale. Sarebbe infatti sciocco opporsi a un socio di minoranza che non esita a mettere mano al portafogli quando la banca ha bisogno di capitale fresco. La Libia è solo un pretesto. Il vero scontro che oppone Profumo ai grandi azionisti della banca è la sua decisione di trasformare Unicredit da una somma di feudi locali (Monaco di Baviera, Verona, Torino, Modena, Treviso…) in una struttura unica, come lo sono le grandi banche internazionali, ad esempio Hsbc (Hong Kong and Shanghai Banking Corporation), la più estesa e la migliore banca al mondo.

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→  novembre 29, 2009

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di Francesco Giavazzi

La cultura: protagonisti, libri, arte, dibattiti, racconti. Prospettive: chi deve pagare il prezzo del benessere. Il modello organizzativo in vigore ha forti riflessi anche sul mercato del lavoro, con una serie di difficoltà di accesso. Un saggio di Alberto Alesina e Andrea Ichino pone l’ interrogativo sul rapporto tra il prezzo e i benefici e sulla coscienza che ne abbiamo.

La centralità della famiglia nella società italiana è un valore che ci avvantaggia rispetto a Paesi in cui i legami familiari sono più attenuati o pressoché inesistenti, come ad esempio negli Stati Uniti, oppure è una palla al piede? Il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, non ha dubbi: nel «Libro Bianco» sul futuro del modello sociale italiano, scrive: «Esiste un legame inscindibile tra il benessere della famiglia e quello della società. Famiglia vuol dire tessitura di legami verticali, solidarietà intergenerazionale, relazioni che danno il senso della continuità temporale; vuol dire rapporti di prossimità e parentela, che consentono la coesione comunitaria. La famiglia trasmette ai figli il patrimonio, ma anche la cultura, la fede religiosa, le tradizioni, la lingua, e crea quel senso profondo di appartenenza, di consapevolezza delle origini così necessario all’identità di ciascuno. La famiglia è anche il nucleo primario di qualunque Welfare, in grado di tutelare i deboli e di scambiare protezione e cura, perché è un sistema di relazioni, in cui i soggetti non sono solo portatori di bisogni, ma anche di soluzioni, stimoli e innovazioni». Così poste sono affermazioni che ciascuno di noi può valutare solo alla luce dei propri valori religiosi, delle proprie convinzioni politiche. Un cattolico dirà: «È certamente così». Un laico osserverà che in altri Paesi, ad esempio quelli scandinavi, la famiglia non è il perno centrale del Welfare, e ciononostante la società pare funzionare bene, talvolta persino meglio della nostra. Privi di evidenza empirica, di fatti e di analisi con cui formarsi un’opinione, i cittadini si divideranno – come accade ormai su ogni argomento in Italia – in due fazioni opposte, pronte ad aggredirsi, incapaci di ragionare perché prive degli strumenti per farlo. Il libro di Alberto Alesina e Andrea Ichino L’Italia fatta in casa (Mondadori) è uno strumento per capire. Non se la famiglia sia un valore, non è di questo che si discute. Bensì quali siano i vantaggi, e anche i costi, della scelta (che è quella che fa Maurizio Sacconi) di affidare alle famiglie, anziché al Welfare pubblico, un ruolo tanto importante nella tutela di chi perde il lavoro, di chi è anziano, dei bisognosi.

Per capirlo il libro di Alesina e Ichino parte da un fatto. In Italia il 45% delle coppie sposate di età inferiore ai 65 anni vive entro un raggio di un chilometro dai propri genitori. La vicinanza rende possibili aiuti reciproci: assistenza dei figli ai genitori anziani e dei genitori ai figli per la cura dei nipoti. Ma anche scambi monetari: una famiglia ogni dieci dichiara di aver ricevuto un aiuto dai genitori (solo una su venti in Spagna e una su cento in Gran Bretagna) e la frequenza di questi aiuti cresce quando qualcuno nella famiglia perde il lavoro. Quindi in Italia non solo i trasferimenti finanziari fra parenti sono più frequenti che altrove, ma il soccorso dei parenti viene invocato e offerto proprio quando qualcuno perde il lavoro. Osservate che l’aver spostato l’assistenza (dei bimbi, degli anziani, dei disoccupati) a carico delle famiglie, non ci ha consentito la costruzione di un Welfare «leggero»: il nostro Stato sociale è tutt’altro che leggero, costa oltre un quarto del reddito nazionale, più o meno come nel resto d’Europa. Ma mentre negli altri Paesi l’assistenza alle famiglie rappresenta il 20% della spesa per il Welfare, in Italia è solo il 6%. Il nostro Welfare si limita sostanzialmente a pagare pensioni. Perché abbiamo fatto queste scelte? Le istituzioni di un Paese non sono casuali, bensì riflettono le preferenze dei cittadini. Agli italiani piace una società costruita intorno alla famiglia e nel tempo hanno creato istituzioni che consentono il perpetuarsi del ruolo centrale della famiglia. Nel secolo scorso l’emigrazione era una necessità: rompeva le famiglie, sia che si emigrasse in America o a Torino, ma non vi erano alternative. Diventati più ricchi, non abbiamo utilizzato la maggior ricchezza per costruire reti di protezione sociale che si sostituissero alla famiglia, ad esempio asili nido o sussidi di disoccupazione per tutti. Al contrario le istituzioni si sono evolute proprio per consentire alla famiglia di divenire il maggior erogatore di servizi sociali. Pensioni e Statuto dei lavoratori sono un esempio. Molte famiglie italiane possono contare sul reddito di almeno un «maschio adulto» protetto. Alesina e Ichino osservano che ciò trasforma la famiglia in un magnete che la tiene unita. La loro ricerca stima che se in una famiglia italiana il padre perde non il lavoro, ma semplicemente la certezza di essere occupato nell’anno successivo, la probabilità che i figli escano di casa aumenta del 40%. Lo stesso potrebbe dirsi a proposito della «cronica assenza» di asili nido. Se ce ne sono pochi non è perché «politici cattivi» non vogliano costruirne, ma perché razionalmente valutano che destinare miliardi di euro alla costruzione di un ponte sullo Stretto di Messina paghi di più, in termini di voti, che destinarli agli asili. La medesima osservazione aiuta a comprendere come mai il ministro del Welfare si opponga con tanta violenza alla costruzione di un Welfare moderno, mentre difende a spada tratta il diritto ad andare in pensione prima dei sessant’anni di età. Pensioni sicure e assenza di asili nido rendono la centralità della famiglia al tempo stesso possibile e necessaria.

È questo che gli italiani vogliono, ed è questo che Sacconi offre loro. Se si riflette su questo punto, forse si capisce perché il centrodestra vince le elezioni. Ma acquisito che ci ritroviamo le istituzioni che ci soddisfano, la domanda successiva è: quali sono i costi di questo modello e dove ci sta portando? Vi sono almeno quattro conseguenze: la scarsa mobilità geografica che dà luogo al fenomeno che Edward Banfield – un politologo dell’università di Chicago che studiò attentamente l’Italia – cinquant’anni fa definì «familismo amorale»; il precariato, cioè un mercato del lavoro diviso fra un gruppo di super-tutelati e un esercito senza alcuna protezione; la difficoltà delle nostre imprese di crescere e un peso straordinario a carico delle donne. «Non a caso le cosche mafiose si definiscono famiglie». In una società centrata sulla famiglia, le persone tendono a fidarsi dei propri parenti e a diffidare degli estranei. In una serie di lavori di ricerca molto interessanti, tre economisti italiani, Paola Sapienza, Luigi Guiso e Luigi Zingales, costruiscono una misura del «capitale sociale» in diverse regioni italiane (il capitale sociale è proprio ciò che il familismo non consente di accumulare) utilizzando come indicatore il numero dei donatori di sangue. Ne emerge che nel Mezzogiorno, dove la famiglia è più centrale e la mobilità inferiore, vi sono meno donatori di sangue che, ad esempio, in Friuli. La scarsa mobilità influenza anche l’accesso al mercato del lavoro. «In una società fondata sulla famiglia, il primo passo è trovare un lavoro, anche precario, ma vicino a casa per poter essere aiutati dai genitori. Poi si aspetta un posto stabile, che generalmente si trova attraverso i contatti familiari e quindi sempre vicino a casa. A questo punto nascono i figli e i genitori, per fortuna, sono vicini, aiutano ad accudirli. Poi i figli, diventati adulti, accudiranno i genitori anziani. La famiglia italiana è il complemento perfetto del mercato del lavoro duale, fondato sull’immobilità geografica». Quando la ricerca del lavoro si limita ad un intorno della propria famiglia, conoscenze e raccomandazioni contano più di meccanismi che consentono un’allocazione efficiente tra lavoratori e imprese, a esempio utilizzando i servizi forniti dal sito www.monster.com. Altri tre economisti, Samuel Bentolilla, Luigi Pistaferri e Claudio Michelacci mostrano che la ricerca del lavoro tramite le amicizie dei parenti consente di trovare un posto relativamente presto, ma con una retribuzione inferiore rispetto ai lavori trovati al di fuori della cerchia delle amicizie familiari. Ma poiché il lavoro trovato dai parenti consente di vivere vicino alla famiglia, lo stipendio inferiore è compensato dai molti servizi offerti gratis dai genitori. Ma che occasioni ha perso quella ragazza che ha rinunciato alle opportunità che avrebbe potuto offrire il mercato del lavoro di un’altra regione? Lo stesso si può dire per le aziende: «Mio figlio è purtroppo un pessimo ragioniere, ma se riesco a farlo assumere dall’azienda del mio amico (magari promettendogli un piccolo aiuto nella sua pratica in Comune), troverà prima un lavoro». Ma quanto costa questo scambio all’azienda dell’amico, che su monster.com avrebbe potuto trovare un ottimo ragioniere, certo, pagandolo abbastanza per convincerlo a muoversi da una città lontana? Francesco Caselli e Nicola Gennaioli mostrano che in Italia la frequenza con cui la proprietà delle imprese viene trasferita dai genitori ai figli è particolarmente elevata perché la giustizia civile rende più difficile far rispettare i contratti. Familismo amorale e giustizia civile inefficiente fanno sì che la proprietà delle aziende rimanga all’interno della famiglia. Alla luce di quanto sopra osservato sulle istituzioni, viene da chiedersi se l’inefficienza della giustizia civile non rifletta semplicemente le preferenze degli italiani. Ma poi non dobbiamo lamentarci se le aziende non crescono, rimanendo piccole non sono in grado di investire in ricerca e sviluppo e prima o poi non ce la fanno più. Ma il costo maggiore di una società centrata sulla famiglia è il peso straordinario che incombe sulle donne. Non può esservi centralità della famiglia se la casa è vuota. E chi la riempie in Italia è la donna. In Italia le donne che lavorano lo fanno in media per 7,1 ore al giorno, contro le 8,8 dei maschi. Rientrati a casa, gli uomini aggiungono 2 ore di lavoro, le donne 4,3. Sommata sull’arco di un anno questa differenza significa che le donne in un anno lavorano 27 giorni (di 8 ore) più degli uomini. In Spagna, un Paese per molti aspetti simile, la differenza è la metà.

Siamo sicuri che questo squilibrio sia un bene? È un bene che tante donne intelligenti scelgano il part-time e addirittura abbandonino il lavoro per poter accudire figli, suocere, genitori e nipotini, o magari semplicemente per tenere la casa pulita anziché assumere un collaboratore domestico? L’Italia fatta in casa si chiude con due vignette suggestive che confrontano la sera in una casa americana e in una italiana dove la donna, nonostante i suoi quattro lavori, mantiene sempre il sorriso – ma prima di addormentarsi si chiede se anni prima abbia fatto bene a rinunciare alla promozione che le era stata offerta dall’azienda per poter trascorrere più ore a casa. Quanto siano scelte libere e quanto imposizioni di una società centrata sulla famiglia e sui maschi adulti è difficile dire. Certo, come ho osservato, la risposta che tutto dipende dalla scarsità dei servizi pubblici non tiene. Le donne sono una maggioranza. Se considerassero questi servizi essenziali, nel tempo avrebbero votato per chi si impegnava a fornirli. È più probabile che il ruolo delle donne dipenda da tratti culturali che hanno radici profonde ed è difficile cambiare. Studiando il comportamento negli Stati Uniti d’America di immigrati provenienti da diversi Paesi, tre giovani economiste, Raquel Fernandez, Alessandra Fogli e Claudia Olivetti (anche gli economisti talvolta aiutano a comprendere la società!) hanno scoperto che, nonostante l’esperienza di una società tanto diversa, le caratteristiche culturali del Paese d’origine (in particolare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro) sono molto persistenti, non scompaiono neppure dopo due o tre generazioni. È possibile che la mia sia un’interpretazione tutta sbagliata. Se le lettrici lo pensano, le invito, dopo aver letto L’Italia fatta in casa, a spiegarmi perché le donne italiane accettano di sopportare un peso tanto sproporzionato. Se non si capisce questo punto, discutere delle «quote rosa» non porta molto lontano.

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→  febbraio 21, 2009

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di Francesco Giavazzi

Ci siamo infilati in una situazione assurda. I prezzi delle attività finanziarie, e quindi la ricchezza delle famiglie, sono precipitati, quasi che le economie del mondo fossero state tutte rase al suolo da un bombardamento globale, come la Germania nel 1945. In pochi mesi nel mondo è stata bruciata ricchezza per un valore di circa 40 mila miliardi di dollari. In una settimana Wall Street ha perso il 13 per cento; in poco più di un anno il valore delle azioni americane si è dimezzato. Ma non c’è stato alcun bombardamento: le aziende sono ancora tutte lì, anche le case, anche le nostre risorse naturali e i lavoratori hanno la medesima esperienza oggi che avevano ieri. È la sfiducia che ha trascinato il mondo in questa situazione assurda ed è da lì che occorre partire. La prossima sarà una settimana cruciale.

Se la caduta di Wall Street non si arresta, il vortice rischia di accelerare: un’ulteriore caduta della ricchezza delle famiglie americane rallenterebbe ancor più i consumi e cancellerebbe gli effetti dello straordinario piano fiscale approvato la scorsa settimana dal Congresso. Che fare? Innanzitutto non dimenticare che (grazie alla globalizzazione) mai il mondo era cresciuto tanto rapidamente quanto nel decennio precedente la crisi. E non solo i Paesi ricchi: per la prima volta anche l’Africa sub-sahariana aveva cominciato a crescere. Certo, c’erano molte debolezze: il prezzo delle abitazioni in qualche Paese era salito troppo; negli Stati Uniti ad alcuni immigrati recenti erano stati concessi mutui che non potevano permettersi; le banche si erano illuse di aver diversificato il rischio e invece spesso non lo avevano fatto; la regolamentazione faceva acqua; il Congresso aveva consentito che Fannie Mae e Freddie Mac, istituzioni che avrebbero dovuto essere dei semplici fondi di garanzia, si trasformassero in speculatori aggressivi, trasferendo il rischio su contribuenti ignari.

Ma tutto questo non giustifica l’abisso in cui siamo caduti. I mutui negli Stati Uniti oggi non valgono praticamente più nulla e tuttavia il prezzo delle case è sceso del 20-30%, non si è azzerato. Nelle città americane le abitazioni non sono scomparse, sono ancora tutte lì: varranno meno di due anni fa, ma dubito che non valgano più nulla. Come riportare il mondo alla ragionevolezza, come arrestare questa spirale perversa? È possibile e potrebbe non costare nulla. Il vortice in cui sono entrate le Borse dipende dalle banche: in una settimana Citigroup ha perso metà del suo valore e un’azione oggi vale meno di due dollari (ne valeva 50 un anno e mezzo fa). Ma la banca non è fallita: lo sarebbe se davvero pensassimo che le case e le aziende americane non valgono più nulla, ma così non è. Per far uscire i mercati dal vortice della sfiducia il governo americano dovrebbe garantire tutte le attività finanziarie collegate al mercato immobiliare, cioè impegnarsi ad acquistarle a un prezzo prefissato, superiore all’attuale prezzo di mercato.

Una simile garanzia rialzerebbe immediatamente i prezzi e con essi la ricchezza delle famiglie. Risolverebbe anche i problemi delle banche. Come per Citigroup, se le banche americane siano, o meno, fallite, dipende dai prezzi delle attività che hanno in bilancio: se il prezzo di questi titoli è zero sono tutte fallite; se il prezzo è ragionevole non lo è nessuna (ieri il governatore Draghi ha proposto garanzie pubbliche non sullo stock di attività oggi detenute dalle banche, ma sui nuovi prestiti, un intervento che va nella medesima direzione e aiuterebbe a far ripartire il credito alle nostre aziende). A quale prezzo dovrebbero essere offerte queste garanzie? Certo non ai prezzi precedenti la crisi, ma nemmeno ai prezzi di oggi, che per molti titoli sono prossimi a zero. Una possibilità è usare i prezzi precedenti il fallimento di Lehman, cioè quando i mercati già scontavano la crisi, ma prima del crollo.

E quanto costerebbero le garanzie ai governi? È probabile che su alcuni titoli il governo perda, cioè che i prezzi di realizzo siano inferiori al valore della garanzia. Ma per la maggior parte — quando il mondo tornerà alla ragionevolezza — il prezzo salirà ben oltre il valore della garanzia: in questi casi si potrebbe tassare la plusvalenza. Non solo le garanzie potrebbero non costare nulla: per i contribuenti potrebbero rivelarsi un grande affare. In questo fine settimana a Washington si è fatta strada anche un’altra idea: essa pure potrebbe spegnere il vortice senza costare nulla. Sul Washington Post Ricardo Caballero, economista del Mit, ha proposto che il governo si impegni ad acquistare fra due anni il doppio delle azioni delle quattro maggiori banche al doppio del prezzo di oggi. Il primo effetto sarebbe quello di raddoppiare il capitale delle banche tramite fondi privati.

Nello stesso tempo il prezzo delle azioni salirebbe immediatamente vicino al livello della garanzia pubblica, sollevando tutto il mercato. Anche questo provvedimento non costerebbe nulla ai contribuenti, a meno che davvero pensiamo che l’economia americana sia come la Germania del ’45. Il vantaggio rispetto alle garanzie sull’attivo delle banche è che in questo caso basta un annuncio: potrebbe accadere già domani. Delle garanzie sull’attivo delle banche ci sarà comunque bisogno, ma per quelle c’è un po’ più di tempo (qualche giorno, non qualche mese). Ciò che invece accelera il vortice è parlare di nazionalizzazioni. Nazionalizzare una banca significa azzerare (o almeno diluire) il capitale degli azionisti: non c’è da sorprendersi se questo rischio fa crollare le Borse. Fortunatamente ieri l’amministrazione Obama ha preso le distanze da chi chiede nazionalizzazioni.

Nella scena più famosa di Mary Poppins, Mr Dawes, l’anziano impiegato di banca, spaventa il piccolo Michael tentando di sottrargli un penny. La gente non capisce, si impaurisce e travolge la banca. È per evitare questi panici che sono nate le garanzie pubbliche sui depositi bancari. La prossima settimana il mondo potrebbe avvitarsi in una depressione, ma se accadrà sarà solo responsabilità nostra, cioè dei nostri governanti. Il mondo non è radicalmente diverso oggi da quanto fosse un anno fa, tranne che si è persa la fiducia. È da questa osservazione che deve partire l’opera di ricostruzione.

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→  settembre 16, 2007

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Destra e sinistra nell’era globale

«I frutti delle liberalizzazioni maturano in fretta», scrivono Alberto Alesina e Francesco Giavazzi alla fine del loro Il liberismo è di sinistra (Il Saggiatore, Milano). Una chiusa ottimista, coerente con lo stile di scrittura del libro, in cui ben si riconoscono la dispiegata chiarezza e il vigore argomentativo, cifre stilistiche dell’uno e dell’altro autore. «Ma quanto in fretta?», vien da chiedersi parafrasando uno slogan di qualche anno fa.

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→  gennaio 27, 2007

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di Francesco Giavazzi

I fondi che investono in infrastrutture (autostrade, porti, aeroporti, ma anche ospedali, reti elettriche e per la distribuzione del gas) sono sempre più numerosi. Solo negli ultimi mesi ne sono nati 5 o 6, ad esempio quello lanciato dalla società americana Carlyle, con una dotazione iniziale di oltre un miliardo di dollari. I fondi dell’australiana Macquarie (che in Italia possiede il 44,5% degli Aeroporti di Roma) investono nel mondo un totale di circa 40 miliardi, abbastanza per costruire otto ponti sullo Stretto di Messina.

In Italia accade raramente che opere pubbliche siano finanziate ricorrendo a questi fondi: il motivo per cui esse non decollano è l’incertezza regolamentare. Esemplare è il caso Autostrade: dopo aver firmato una concessione trentennale, oggi il governo ha deciso di riscriverla. E’ vero che quella concessione era forse troppo favorevole ai privati, ma lo Stato avrebbe dovuto pensarci prima: rinnegare un contratto firmato ha effetti deleteri e tiene alla larga gli investitori. E quando ciò accade, per finanziare opere pubbliche non rimane che ricorrere alle tasse dei cittadini.
La scorsa settimana il governo ha creato un fondo per le infrastrutture nel quale investiranno la Cassa depositi e prestiti, le nostre banche maggiori e le fondazioni bancarie. Ce n’era davvero bisogno? E perché le banche, anziché creare un proprio fondo, come Macquarie o Carlyle, ne sottoscrivono uno la cui regia è saldamente in mano al governo e la cui guida è affidata a Vito Gamberale, già manager delle Partecipazioni statali, poi passato dalla parte dei «cattivi rentier » di Autostrade e ora redento?

Il motivo contingente che ha indotto a creare il nuovo fondo è la decisione dell’Antitrust che impone alla Cassa depositi e prestiti di cedere o la partecipazione in Enel o quella in Terna, la società che possiede la rete elettrica. Per non perdere il controllo né dell’una né dell’altra, Terna sarà trasferita al nuovo fondo e quindi rimarrà nella sfera pubblica. Ma a che prezzo avverrà la cessione? Se fosse troppo basso ci perderebbero i contribuenti, se fosse troppo alto a perderci sarebbero gli azionisti delle banche che partecipano al fondo. Per garantire entrambi ci vorrebbe una gara aperta ai fondi internazionali. Ma di gare non si parla.

Senza gare e finanziato da banche amiche (ora si capisce perché il governo ha applaudito alla nascita di Intesa-San Paolo) il fondo crescerà: dopo Terna, acquisterà la partecipazione dell’Eni in Snam Rete Gas, poi la rete fissa di Telecom Italia, secondo il principio che le reti devono essere separate dai gestori dei servizi. Questo è giusto. Ma non c’è ragione che siano anche pubbliche. E così, grazie alla tenacia di Prodi, il piano di settembre del suo (ex) consigliere Rovati — che prevedeva appunto la nazionalizzazione della rete fissa di Telecom — arriverà in porto.
Vent’anni fa Prodi, allora presidente dell’Iri, cercò di togliere ai privati il controllo di Mediobanca. Non ci riuscì. La nuova Mediobanca nasce oggi, sotto l’ala protettiva di Palazzo Chigi e degli azionisti bresciani di Intesa-San Paolo. Non mi sorprenderei se il prossimo passo fosse la nomina all’Antitrust e all’Autorità per l’energia di qualche commissario perbene, che tuttavia nutre dubbi sulle proprietà taumaturgiche del mercato. Autorità amiche non obietteranno a canoni un po’ più alti per l’accesso alle reti possedute dal nuovo fondo. Le risorse del fondo cresceranno e così i suoi orizzonti, per arrivare ad altre mete più ambiziose. Può darsi che tutto ciò sia nell’interesse del Paese ma è legittimo chiedere che un passo tanto importante sia preceduto da una grande e libera discussione.

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