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→  giugno 26, 2015


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Singolar tenzone fra l’interventista Mucchetti e il liberista Giavazzi sulla politica industriale ai tempi del governo Renzi. Dalla rivoluzione in Cdp al nuovo ruolo dello stato e del mercato

Due giorni fa, nella redazione del Foglio, si è svolto un forum con la partecipazione di Francesco Giavazzi, professore di Economia all’Università Bocconi ed editorialista del Corriere della Sera, e Massimo Mucchetti, senatore del Partito democratico. Il tema è quello della politica industriale del governo di Matteo Renzi, e in particolare dei recenti cambiamenti che stanno investendo la Cassa depositi e prestiti (Cdp). Proprio ieri il Consiglio di amministrazione della Cdp, riunitosi sotto la presidenza di Franco Bassanini, ha convocato l’assemblea in sede straordinaria e ordinaria per l’approvazione di modifiche statutarie concordate dai soci e per l’adozione di decisioni sugli amministratori. L’assemblea è stata convocata per il 10 luglio e il 14 luglio. Alla guida della cassaforte del Tesoro, secondo le indiscrezioni emerse finora, dovrebbero arrivare Claudio Costamagna (presidente) e Fabio Gallia (amministratore delegato).

Su questo e su molto altro si è ragionato a ruota libera tra Giavazzi e Mucchetti. Per il nostro giornale, a moderare, c’era Marco Valerio Lo Prete.

Il Foglio. Il senatore Massimo Mucchetti una volta, su queste colonne, ha definito la Cassa depositi e prestiti (Cdp), come quella “dotazione finanziaria che serve a reagire al Tradimento del Capitale” privato italiano. Il professor Francesco Giavazzi, sul Corriere della Sera, ha ipotizzato che, se è vero che la Cdp può investire solo in aziende sane, allora può fare quello che possono fare i privati, quindi tanto vale privatizzarla. La Cdp, nel 2015, serve ancora?

Mucchetti. La Cassa, in teoria, potrebbe essere liquidata, ma non privatizzata, perché i cinque sesti della sua raccolta sono garantiti dallo Stato. In pratica, credo che serva. Esiste anche in Francia, Germania, Spagna, Polonia, tutti paesi importanti. La Cassa dovrebbe investire, avendo il capitale necessario per farlo, nelle aziende che possono richiedere un supporto di questo genere per le ragioni più svariate.

Faccio un esempio: in Telecom, abbiamo avuto tutte le forme possibili di investimento da parte del settore privato, e il risultato è che la Telecom non ha fatto molto bene. L’Italia ha una infrastruttura debole, l’azienda è molto indebitata e fatica ad andare avanti. Il mio ragionamento non c’entra con il nazionalismo: si può immaginare pure una Telecom italiana che poi si sposa con la Orange francese e con la Deutsche Telekom tedesca, in modo da avere una stazza sufficiente a intavolare un negoziato serio con gli over-the-top; in un caso del genere, avere una presenza di rilievo, anche pubblica, dentro Telecom Italia, servirebbe a sedersi al tavolo con gli altri nelle stesse condizioni. Per dirne una. E Telecom non è un’azienda fallita, ma un’azienda in cui il capitalismo italiano ha fatto fallimento. Dall’altra parte, invece, abbiamo il caso dell’Ilva, dove c’è stato uno choc dovuto a un’emergenza ambientale e a indagini giudiziarie che hanno messo in ginocchio un’azienda altrimenti profittevole.

Senza impiccarsi alla formula del “Tradimento del Capitale italiano”, la mia impressione è che l’Italia abbia un mercato dei capitali povero, per tante ragioni. Preso atto di questo, bisogna cercare di offrire una soluzione pragmatica. Negli ultimi 6-8 anni, tutte le aziende di un qualche rilievo che hanno dovuto affrontare una transizione proprietaria, sono tutte state acquistate da investitori esteri. Non è un male che un investitore estero acquisti un’azienda italiana. Bisogna vedere caso per caso se c’è un progetto industriale, una solidità finanziaria, per dire se è bene o male. Ma se non c’è mai un soggetto italiano che si assume questo rischio, uno si domanda se l’Italia industriale, sulla grande dimensione, è capace o no di fare il suo lavoro.

Giavazzi. Io ho una preoccupazione più generale: che l’operazione del governo Renzi sulla Cassa depositi e prestiti abbia lo sguardo troppo breve e rivolto soprattutto a Ilva oppure a un’altra crisi come quella di Whirlpool, cioè che si voglia disporre di uno strumento affinchè lo Stato possa intervenire in queste situazioni. Il rischio quindi è che si faccia un passo dalla valenza istituzionale, cambiando lo statuto della Cdp, con l’obiettivo di risolvere una vicenda contingente. A mio parere bisogna invece partire da un’idea di quello che si pensa debba essere il ruolo dello Stato nell’economia.

Un economista si chiede: esistono dei “fallimenti del mercato”? Perché, se non esiste un fallimento del mercato, e il mercato funziona, allora non c’è bisogno di intervenire. Oggi, di fallimenti del mercato ne esistono molti, quindi ci sono molte occasioni per un intervento dello Stato nell’economia. Ma c’è un passo successivo: la maggior parte dei fallimenti del mercato si possono correggere con la regolamentazione, non con la proprietà pubblica. Le reti – quelle elettriche, del gas, la stessa banda larga – creano un’esternalità e devono essere ben regolate, perché c’è un problema di servizio universale e la necessità che non si trasformino in rendite monopolistiche per i privati che le posseggono. Ciò richiede autorità di regolamentazione forti. Non è richiesta la proprietà pubblica; la rete può essere tutta del Fondo sovrano di Singapore, ma se io ho una regolamentazione forte non c’è alcun problema. Quindi l’idea che lo Stato debba essere presente con la proprietà pubblica delle reti non è il modo corretto per correggere l’esternalità. E così in altri campi. Il problema italiano è che abbiamo una regolamentazione debole e oscillante. Il caso di Autostrade è illuminate; abbiamo una regolamentazione che spesso cambia in corso d’opera; poi siccome cambiare le regole “in corsa” danneggia i concessionari, lo Stato dice “è vero che vi ho danneggiato, quindi vi compenso allungando la concessione di altri dieci anni senza metterla a gara”, e così si finisce per creare una rendita inappropriata. La regolamentazione dev’essere forte e non volatile.

Esistono situazioni in cui la proprietà pubblica è giustificata? Secondo me solo in casi come quello di Chrysler nel 2008. Un’azienda che versava in una crisi gravissima, in un momento in cui non esistevano acquirenti privati; perdere quell’azienda avrebbe voluto dire perdere un capitale di conoscenze non facilmente recuperabile. Però stiamo attenti a non generalizzare. La crisi di Chrysler è avvenuta nel momento più grave della crisi finanziaria peggiore degli ultimi 80 anni, non capita tutti i giorni. In quel caso ci possono essere argomenti per un intervento pubblico temporaneo nella proprietà. Ma non tutte le crisi sono come quelle di Chrysler. Inoltre il governo americano, entrato in Chrysler nel dicembre 2008, ha cominciato a vendere azioni nel giugno 2009, e ne è completamente uscito nel 2011. Devono esserci vincoli temporali precisi su quanto può durare la presenza pubblica nel capitale, altrimenti lo Stato entra e ci resta per sempre; negli Stati Uniti non ce n’è bisogno, vista la cultura del paese, ma da noi occorre stare molto attenti. E per Ilva: c’è anche qui bisogno dell’intervento pubblico? Io ragiono così: in Italia non possediamo la materia prima, cioè il minerale di ferro, per il quale siamo dipendenti dalle importazioni. Mi chiedo: che differenza c’è tra importare minerale di ferro e importare il tondino o il laminato già fatto? L’idea che devi produrre qua la lamiera non la capisco. Non vedo il problema se il laminato viene dal Venezuela dove c’è la materia prima, e lo si trasporta direttamente in Europa . Produrlo qui non mi pare fondamentale. In giro per il mondo c’è un grande eccesso di capacità di prodotto laminato. Poi ci sono i problemi occupazionali e di altro tipo, ma queste sono questioni da affrontare nel breve periodo; se è soltanto questo il problema, allestiamo una cassintegrazione speciale e si può chiudere l’azienda.

Due precisazioni, poi. Sul fatto che una Cdp c’è anche in altri paesi, come la Germania, no per favore; se altri fanno stupidaggini, non è una buona idea copiarle. E a proposito di Telecom: noi stiamo in un mondo in cui il telefono fisso lo useremo sempre meno; a proposito dei cellulari, le privatizzazioni hanno generato un fenomeno meraviglioso, il nostro è uno dei primi paesi per utilizzo di cellulari, con grande concorrenza. Per la banda larga, il doppino di rame ha una capacità fino a 30 Mbps; davvero c’è bisogno di andare a 100 Mbps? Io non sono mica sicuro. Si dice che lo Stato in Italia ci metterà 7 miliardi di euro di fondi europei o giù di lì, ma è veramente una priorità consentire ai ragazzini di fare lo streaming delle partite di calcio? Perché tutto il resto si può fare anche con il doppino di rame, incluso l’uso che della banda fa la gran parte delle imprese. Poi ci sono anche aree del paese dove nemmeno il doppino di rame arriva, e quel problema va risolto. Ma un grande investimento in banda larga non sono sicuro sia la priorità oggi per questo paese con i problemi che ha.

Il Foglio. Per il professor Giavazzi non è un problema che non si facciano avanti capitali italiani nei momenti di transizione proprietaria di un’impresa. Nemmeno sull’Ilva il professore sostiene che si possa ipotizzare lo “scenario Chrysler”, con la giustificazione di un intervento straordinario della Cassa depositi e prestiti.

Mucchetti. Vorrei ricordare alcuni dati di storia americana. La Chrysler è stata salvata due o tre volte dal governo americano, anche quando era fallita da sola e le altre case automobilistiche andavano bene: all’inizio degli anni 90, anche la Fiat venne coinvolta in un tentativo di salvataggio che poi non andò avanti perché Washington preferì sostenere la Chrysler stand-alone. Ricordo che accanto alla Chrysler è stato salvato, con un intervento pure più invasivo, anche il gruppo General Motors che contende a Toyota e Volkswagen il posto di primo gruppo mondiale. Ricordo che a tutt’oggi nel Regno Unito lo Stato è ancora dentro le principali banche. Questo per dire non che lo Stato è bello o brutto, ma che queste cose vanno viste con grande pragmatismo. Se l’Italia è un paese non più in grado di esprimere proprietà italiane in tutte le grandi aziende che si trovano davanti a questo problema, sia che vadano bene sia che non vadano bene, credo che questo sia un fallimento del mercato italiano, cui dobbiamo cercare di dare una risposta.

Per quanto riguarda l’Ilva, il discorso che fa Giavazzi è interessante, analogo nel merito a quello che fa il Movimento 5 Stelle. I clienti dell’Ilva, che sono in buona misura le grandi manifatture italiane, dall’auto agli elettrodomestici passando per il mobilio, ritengono però che l’Ilva faccia molto comodo perché, per le sue caratteristiche specifiche, quest’azienda di Taranto, di fatto, fa il prezzo dei laminati in Europa. Inoltre non ci sono soltanto i francesi e i tedeschi che mantengono una rilevante attività siderurgica, ma anche gli inglesi, gli spagnoli e perfino gli olandesi… Cioè in tutti i paesi dove esiste una forte manifattura meccanica e affini, esiste anche una siderurgia. Anticamente la siderurgia aveva un significato strategico-militare, perché con l’acciaio si facevano le corazzate e i cannoni; oggi questo per fortuna è un elemento del tutto minore e non rilevante. Ma il tema di dire “importiamo le lamiere” è relativo; già oggi un po’ le importiamo e un po’ le esportiamo; è un’attività come un’altra, ed è un’attività che, senza lo choc ultimo, ha generato profitti ingenti, perciò non capisco perché non dovremmo continuare a farla, avendo anche questo effetto “positivo” nella formazione dei prezzi dei prodotti siderurgici in Italia.

Detto questo, io vedo oggi altre aziende multinazionali, che hanno il quartier generale in Italia e vasti siti produttivi e commerciali all’estero, con proprietà già in vendita o potenzialmente in vendita come Saipem, Prysmian, Magneti-Marelli, Pirelli. Sarebbe poco utile per noi se trasferissero il proprio quartier generale all’estero. Perché il quartier generale è il luogo in cui si formano le professionalità più raffinate e meglio pagate. L’Italia è povera di grandi imprese; queste sono grandi imprese che hanno proprietà variamente instabili: la Saipem è dell’Eni ma l’Eni vuole deconsolidarla, ecco un campo in cui il Fondo strategico potrebbe intervenire; Prysmian è in mano ai fondi di private equity che hanno lavorato bene ma, come tutti i fondi del genere, sono destinati a vendere; Magneti-Marelli fa parte del gruppo Fiat, io mi preoccuperei che, nelle grandi ristrutturazioni che Fiat andrà a fare, questo gruppo della componentistica possa continuare a svilupparsi per quello che oggi è e può diventare. Su Telecom, vorrei ricordare che la Tim la fecero due grandi boiardi di stato, uno si chiamava Ernesto Pascale e l’altro Vito Gamberale, e poi è andata avanti. Oggi constato che alcuni dei paesi più efficienti e progrediti del pianeta – il Giappone, la Corea del Sud e Singapore – già alla metà del primo decennio del secolo hanno cablato l’intero loro territorio e connesso in banda larga e ultra larga l’intera popolazione. Essendo modesto, in queste cose tengo a copiare; negli altri paesi europei, d’altra parte, la banda larga è molto più diffusa che da noi perché nel tempo, alle telecomunicazioni classiche, avevano affiancato la televisione via cavo, ed è banda anche quella, perciò hanno infrastrutture molto più potenti delle nostre grazie al fatto di non aver avuto il duopolio Rai-Mediaset che in Italia ha imposto di non avere la tv via cavo. Tv via cavo che era alla base del Piano Socrate di Pascale, bloccato in vista della privatizzazione. Per dire che non c’è il pubblico che è buono o cattivo sempre, e il privato che è buono o cattivo sempre. Volta per volta, caso per caso, bisogna essere in grado di fare gli interventi utili.

Il Foglio. Mentre il professor Giavazzi chiede di fissare dei criteri quanto più precisi per limitare il campo degli interventi, criteri così stringenti che forse nemmeno l’Ilva rientrerebbe tra questi, quali sono invece secondo Mucchetti i criteri che la Cdp dovrebbe seguire e che il governo Renzi dovrebbe fissare, visto che le risorse della stessa istituzione sono ovviamente finite?

Mucchetti. Il criterio è indicato nel decreto legge che ha costituito la Cdp Spa, cioè “le aziende di rilevanza nazionale”. Stabilire che ci sono settori “migliori di altri” è assai superficiale. Negli anni 70, si diceva che l’auto era superata, era un prodotto maturo, poi oggi le auto si producono ancora in tutto il mondo. Esistono i settori che hanno un mercato e quelli che non ce l’hanno; esistono le aziende capaci e quelle incapaci; io credo che l’emergenza del sistema industriale italiano sia che a fronte di un sistema distrettuale e di un mondo della media e medio-grande impresa ottimi, abbiamo un sistema di grande impresa debole per numero e capacità prospettiche. Il Fondo strategico dovrebbe, laddove il mercato dei capitali faccia intravvedere delle debolezze, intervenire in maniera intelligente senza aspettare i tracolli. Lei dice: con quali soldi? Allora la Cassa oggi non ha pronti i denari per fare chissà che cosa. Ricordo che ha 30 miliardi di partecipazioni e 21 miliardi di mezzi propri, già questo dà il senso di uno squilibrio. Quindi la Cassa deve essere ricapitalizzata, se vuole adempiere a una funzione nuova e più ampia.

Mucchetti. Per ricapitalizzare la Cassa depositi e prestiti (Cdp) esistono svariati modi, non necessariamente l’aumento di capitale che mi sembra improprio; per esempio, nel 2003, lo stato conferì alcune partecipazioni, ora potrebbe conferire altri asset vendibili in modo che la Cassa faccia del denaro; oppure riformulando il Testo unico della finanza, aggiornandolo alle nuove esigenze, migliorando lo strumento delle azioni a voto plurimo e quant’altro, lo stato potrebbe anche cedere buona parte delle attuali partecipazioni, continuando a esercitare la capacità di orientare l’assemblea degli azionisti.

A proposito dei tempi da rispettare negli interventi della Cdp, infine, dico che sono un criterio utile ma che non può essere granitico. Faccio un esempio. La ragione per cui l’Ilva è invendibile in questo momento, è che ha dei contenziosi con la magistratura. Fintanto che tali contenziosi non saranno risolti, non ci sarà un privato interessato. Quindi come faccio a dire “due anni e stop”? La scelta va lasciata alla forte volontà politica di riprivatizzare appena utile e possibile.

Il Foglio. Professor Giavazzi, qui ci si preoccupa addirittura di trovare altre risorse per la Cdp…

Giavazzi. Due precisazioni. A proposito del triplo salvataggio di Chrysler. Come detto prima a proposito dell’esistenza di una Cassa pure in Francia e Germania, il fatto che gli Stati Uniti facciano degli errori non vuol dire che li dobbiamo ripetere. Io credo che la vicenda Chrysler del 2008 sia un fatto abbastanza unico.

A proposito dell’Ilva: cos’è questa storia della specificità delle lamiere dell’Ilva? Se c’è un mercato mondiale dove si fanno le lamiere, i produttori che usano prodotti siderurgici li compreranno in giro per il mondo. Tanto più se riteniamo che l’impianto di Taranto generi un problema ambientale insormontabile, chiudiamolo e compriamo il laminato in Venezuela.

Sul voto plurimo. Quest’ultimo ingessa le imprese, le rende meno contendibili perché vuol dire che chi è lì da più tempo ha più diritti di voto di chi è arrivato per ultimo. La scarsa contendibilità delle nostre imprese è uno dei motivi per cui in questo paese c’è poca produttività. In un recente rapporto del Fondo monetario internazionale su quanto aumenterebbe la produttività in Italia se capitale e lavoro potessero essere riallocati lì dove sono più efficienti, e sul lavoro questo inizia a essere consentito con il Jobs Act, si calcola di quanto crescerebbe il reddito se il capitale fosse riallocato in modo più efficiente. Se ingessiamo le imprese, il capitale non si può riallocare, e spesso finiscono per essere ingessate le imprese che sono gestite male. Negli Stati Uniti, il grande boom della produttività alla metà degli anni 90 non a caso si verificò dopo che, alla fine degli anni 80, quei famosi signori che hanno ispirato “Barbarians at the gate”, hanno comprato le imprese, le hanno tagliate con le forbici a pezzettini e le hanno riorganizzate in modo più efficiente; è lì che è nato il grande boom di produttività americana; senza quella riallocazione del capitale, l’Information technology non sarebbe stata di per sé sufficiente perché le imprese non erano adatte a recepirne i benefici.

Per tornare al nostro paese: non c’è alcun teorema economico secondo il quale le imprese debbono essere grandi. Il paese deve fare quello che sa fare. Siamo un paese con la bilancia commerciale in attivo; il che vuol dire che ci sono abbastanza imprese che esportano, tipicamente quelle piccole e medie, per pagare il petrolio che importiamo e tutto il resto. Un paese può crescere con molta vitalità nelle piccole imprese. Allora – si dice – non potrà essere fatta ricerca. Ma per fare ricerca occorrono buone università, e lì bisognerà investire di più, anche qui cominciando dalle regole prima che dal denaro. Contribuisce di più alla ricerca applicata italiana l’Istituto italiano di Tecnologia (Iit) di Genova che non tutte le grandi imprese. Quanto ricerca ha fatto la Fiat negli ultimi sessant’anni?

Un’ultima cosa, a proposito delle possibilità d’intervento del Fondo strategico. Io ricordo che dieci anni fa il presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac, commissionò un rapporto a Jean-Louis Beffa, un grande manager francese, un progetto in cui Beffa faceva l’elenco dei circa 20 settori in cui lo Stato francese doveva investire. Perché il signor Beffa? E’ il mercato che deve decidere. Altrimenti succede come con i pannelli solari in Italia. Li abbiamo sussidiati, ci abbiamo riempito il paese, con alcuni risultati: una rendita che ai contribuenti costa circa 10 miliardi di euro l’anno ed è difficile da smantellare; abbiamo riempito i tetti dei capannoni di questi pannelli, senza preoccuparci di chi dovrà occuparsi dello smaltimento; mentre oggi la tecnologia è già cambiata e in America già esistono start up che utilizzano delle vernici con capacità di catturare l’energia solare e costi e impatto ambientale molto inferiori. Quindi c’è anche il rischio di fare investimenti che sono sbagliati.

La banda larga, per esempio: tra dieci anni potremmo scoprire che, con nuovi telefoni cellulari, si navigherà dieci volte più velocemente. Sarei un po’ cauto a prevedere gli sviluppi tecnologici.

Il Foglio. Un punto d’accordo mi pare ci possa essere. Entrambi ritenete che, in un momento così importante di cambiamento per la Cdp, il governo Renzi dovrebbe essere più chiaro sul mandato dei nuovi manager.

Mucchetti. In questo sono d’accordissimo con Giavazzi. Il governo deve chiarire quali sono le finalità di questo cambio della guardia, per poterne valutare la congruità. Quando si cambia a un anno dalla scadenza un vertice aziendale del quale non si dice altro che bene, chiarire il futuro è un obbligo. Aggiungo che le modalità del cambio della guardia alla Cdp non sono state le più eleganti. Si poteva procedere in maniera più rispettosa del pluralismo dell’azionariato della Cassa e della dignità professionale delle persone.

Ma sono d’accordo anche su un altro punto sollevato da Giavazzi: la questione degli incentivi. Gli incentivi al fotovoltaico sono di circa 6,7 miliardi all’anno, c’è un tetto fissato per legge, ma è un incentivo che dura 20 anni; sono altrettanto rilevanti gli incentivi alle altre fonti non fotovoltaiche; il totale, l’anno scorso, è stato di 14,7 miliardi. Moltiplicatelo nel tempo. Stiamo parlando di un sussidio che è un multiplo dei fondi di dotazione, a valore attualizzato, dati dallo stato dal 1933 (anno della fondazione dell’Iri) al 2002 (anno di liquidazione dell’Iri) non solo all’Iri ma a tutti gli enti pubblici economici: quindi l’Iri, l’Eni, l’Enel, ma anche le malfamate Egam ed Efim, la Gepi… Tutto questo complesso è costato meno dei sussidi alle rinnovabili. Questo per dire che un intervento serio, mirato, della Cdp, andando a affrontare le difficoltà dove ci sono, costa infinitamente meno di certi incentivi erga omnes, e ha ritorni sull’economia reale infinitamente superiori.

Giavazzi sostiene che un paese può vivere anche senza grandi imprese. Beh, l’Italia più o meno ci sta arrivando. Però è abbastanza un classico che dalle grandi imprese, per esempio, originino poi i piccoli imprenditori, cioè ingegneri, manager che si mettono in proprio, oltre a quelli che nascono dal nulla certo. Dalle grandi imprese c’è una importante ricaduta tecnologica. Nelle grandi imprese si crea pure lavoro manageriale, servizi a valore aggiunto, che nelle piccole imprese non ci sono. Quindi un paese, senza grandi imprese, è un paese debole, che arriva dopo. Quando l’Italia va in Cina, in prima battuta ci va con le sue grandi imprese; solo che la Germania ci va con 200 grandi imprese, noi ci andiamo con 20! Io sono contro la retorica anti-piccoli che c’è in molta accademica italiana, preferisco in questo campo l’ufficio studi di Mediobanca a quello, ottimo per tante altre cose, della Banca d’Italia. Però, allo stesso tempo, considero un valore le grandi imprese attuali, e quelle che potranno venire domani.

Il Foglio. La Cdp quali “grandi imprese” italiane ha creato o favorito finora nei suoi quasi 15 anni di vita? Esiste cioè – per parafrasare il titolo del celebre libro di Mariana Mazzucato, “Lo Stato innovatore” – una Cdp innovatrice? E se il governo ha fatto finora intendere, quantomeno, di volere una Cdp più interventista nell’economia, perché lei, senatore Mucchetti, è scontento di questa scelta?

Mucchetti. La Cdp non è lo Stato cui fa riferimento Mariana. Del resto, ha cominciato ad assumere partecipazioni dal 2003, non da molto, e non è suo compito creare imprese. E’ suo compito sostenerne lo sviluppo. Poi certo, a proposito del Fondo strategico, credo di poter fare considerazioni critiche analoghe a quelle del professor Giavazzi. Ma il punto è che la Cdp finora non ha avuto un mandato chiaro, vedi il caso delle due Ansaldo, dentro nell’Energia e fuori da Sts, ha vincoli statutari, regole Eurostat, quindi il rinnovamento in Cdp va fatto in modo ponderato e non impressionistico.

Il Foglio. Come valutate le professionalità dei nuovi manager di cui si fanno i nomi, Claudio Costamagna per la presidenza e Fabio Gallia per il ruolo di amministratore delegato?

Mucchetti. Sono entrambi banchieri di ottima reputazione. Non so cosa voglia fare Renzi della Cdp. Certo, se seguisse la linea di condotta che ho provato a descrivere, ci vorrebbero anche altre competenze. Quella finanziaria va benissimo, ma poi serve competenza giuridica per fare le cose giuste in Europa; e poi competenza industriale perché, quando si tratta di stabilire dove andare a mettere dei quattrini, bisogna essere in grado di capire i piani industriali. Un tempo c’erano l’Imi e Mediobanca. Oggi non so.

Giavazzi. Sui sussidi con il senatore Mucchetti siamo d’accordo. Io per il governo Monti stilai un rapporto nel quale suggerivo di azzerarli; ovviamente è stato dimenticato. La differenza tra di noi è che io userei le risorse liberate dai sussidi per abbassare le tasse, una cosa molto più importante che non dare allo stato la possibilità di decidere in quali progetti investire, progetti decisi da burocrati o da politici che comunque, se sbagliano, non rischiano nulla. Sull’iPhone, visto che avete citato la Mazzucato, smettiamola di dire stupidaggini. Il fatto che nel 1945 il Pentagono abbia investito in progetti che sono poi diventati Internet, mi sembra avere una relazione assai debole con quanto ha fatto Steve Jobs.

Sul perché è stato fatto questo cambio repentino in Cdp. Io penso che, dal punto di vista istituzionale, un governo che è azionista quasi totalitario della Cdp, può fare dunque quel che vuole, però deve spiegare con trasparenza quale è il suo progetto. Ho un dubbio che in particolare vorrei fosse fugato: che tutta questa operazione è stata fatta solo perché l’attuale amministratore delegato della Cdp, Giovanni Gorno Tempini, con l’appoggio delle Fondazioni, ha detto “no” all’intervento Nell’Ilva, che poi si è riusciti comunque a fare facendo i salti mortali. Spero invece ci sia un progetto generale.

Se io fossi al posto di Renzi, mi chiederei: cos’è che oggi manca più di tutto all’Italia? C’è scarsa concorrenza troppo poche liberalizzazioni. E’ difficile liberalizzare perché quando liberalizzi porti via delle rendite e giustamente il tassista che ha comprato la licenza ieri dice: perché ci devo perdere i 100 mila euro che ho speso? Quindi bisogna compensare chi perde delle rendite. Usiamo i soldi della Cdp per creare un fondo per compensare chi perde la propria rendita, e così liberalizziamo il paese. Questo avrebbe un impatto di un ordine di grandezza superiore a qualsiasi intervento nell’impresa X o Y, o dal salvataggio dell’Ilva.

Sulle competenze dei nuovi vertici, io sono un ingegnere e attorno al tavolo vorrei solo ingegneri! Però noto che molti manager italiani del settore privato, incluso Andrea Guerra, hanno sviluppato una visione per cui i privati sono sostanzialmente degli incapaci e ci vuole lo Stato. Sulla prima parte possiamo essere pure d’accordo, ma sul fatto che ci voglia lo Stato… Quindi bisogna stare attenti.

Mucchetti. Non liquiderei così la Mazzucato. L’elenco dei risultati della ricerca pubblica confluiti nell’Iphone sono veramente tanti e non tutti remoti. Ma sono d’accordo anche io sul fatto che liberalizzare sia un bene. E tuttavia le aziende di cui abbiamo parlato prima operano su mercati globali in cui tutto è già liberalizzato, cioè hanno duemila dipendenti in Italia e 30 mila all’estero. La manifattura è super liberalizzata, non esistono vincoli.

Il Foglio. Proprio a partire da una valutazione del curriculum vitae di Costamagna, è circolata anche l’ipotesi che la Cdp possa essere usata per intervenire sul dossier bad bank e puntellare in qualche modo gli istituti di credito italiani.

Mucchetti. Premesso che il governo sta adottando misure per accelerare il recupero dei pegni e per la deduzione fiscale delle sofferenze, sulla bad bank abbiamo perso un sacco di tempo. Me la cavo con una battuta: si può fare, e si può fare anche senza regalare denari ai banchieri. Come? Il veicolo che acquista i crediti deteriorati dal sistema bancario pagherà un prezzo, che sarà una frazione del valore facciale di questi crediti, ma siccome non sarà stracciato per non affondare le banche, sarà pure parzialmente assistito da una garanzia. Cos’è la garanzia? Un quid che viene messo a copertura del rischio che gli incassi del recupero dei crediti non ripaghino il prezzo. Questa garanzia la potrebbe mettere la Cassa ma dovrebbe essere pagata dalle banche che diluirebbero così nel tempo l’eventuale perdita. La Cassa potrebbe anche avere un ruolo nel veicolo che dovrebbe avere anche la presenza delle banche beneficiarie e di investitori privati specializzati. Costruire simili congegni, a ben vedere, è il mestiere di Costamagna.

Giavazzi. Anche in questo caso, a dire il vero, c’è un mercato. Ci sono investitori specializzati nell’acquistare pacchetti di crediti incagliati o a vario livello di rischio d’insolvenza, e nel rivenderli. Perché oggi le banche italiane non ne vendono a sufficienza? Perché in questo paese escutere una garanzia richiede tempi biblici; se il piccolo imprenditore ha messo la sua casa a garanzia del credito, quando diventa insolvente è come se la garanzia non ci fosse, perché quasi 10 anni per un investitore internazionale sono troppi. Occorre dunque cambiare le regole e far sì che l’escussione delle garanzie avvenga come nel resto dell’Europa, che i tempi siano 1 o 2 anni. Altrimenti metteremmo una pezza a questo problema, dopodiché con la prossima crisi saremo punto e daccapo.

C’è invece un fallimento del mercato – e lì una garanzia pubblica sarebbe importante – dovuto al fatto che abbiamo un sistema bancario vecchio che non presta senza garanzie, che non è capace o abituato a finanziare le idee; ci sono invece bravissimi imprenditori che non hanno le garanzie sufficienti, almeno dal punto di vista di queste banche, e che quindi non riescono a realizzare i loro progetti; in questo caso una garanzia pubblica servirebbe; questo è un fallimento del mercato che non si cambia nel giro di pochi giorni, perciò un intervento pubblico di questo tipo – ripeto, una garanzia, che non ha nulla a che vedere con l’ingresso di fondi strategici pubblici in queste imprese – per le piccole e medie imprese sarebbe giustificato.

→  giugno 14, 2015


articolo collegato di Luigi Zingales

L’articolo di Francesco Giavazzi sulla Grecia, apparso sul FT, ha scatenato un sacco di reazioni viscerali, ma non è stato analizzato per ciò che significa rispetto al cambiamento di atteggiamento dell’élite europea nei confronti del progetto europeo.

Si capisce che un ideale è in difficoltà quando anche i più convinti sostenitori cominciano a prenderne le distanze. Per questo motivo, l’articolo di Giavazzi suona come una campana a morto per l’ideale di un’Europa unita. A lungo collaboratore e amico di Carlo Azeglio Ciampi (che ha portato l’Italia nell’euro) e del presidente della BCE Mario Draghi, Giavazzi è stato, appunto, uno dei più convinti sostenitori dell’euro e del processo di unificazione europea. Sostegno e convinzione entrambi difficili da scorgere nel suo articolo (anche se immagino che negherà).

L’articolo tocca diversi punti importanti: che il debito greco è insostenibile, che la sola riduzione di questo debito non produrrà automaticamente ricchezza, che il resto d’Europa non può imporre riforme in Grecia e che anche gli europei hanno commesso errori. Ma questi punti sono inseriti in un contesto che da un lato sembra ignorare il “peccato originale” della zona euro e dall’altro cerca di scaricare tutte le responsabilità sul comportamento dei greci. Questo atteggiamento non solo non è giusto nei confronti della Grecia, ma è pericoloso per l’Europa perché porta alla conclusione – sostenuta nell’articolo – che amputando l’arto greco canceroso, si risolve il problema europeo. Questa è un’enorme illusione, dato che il problema non è solo in un arto, ma pervade l’essenza dell’unione monetaria.

Espellere la Grecia non risolverà il problema, solo ne rinvierà la necessaria soluzione.
Non vi è dubbio che i governi greci abbiano mentito (più di quelli di altri paesi) e che la situazione fiscale greca nel 2010 fosse insostenibile, dentro o fuori dall’euro. Tuttavia, in situazioni analoghe la ricetta del FMI ha comportato austerità più un generoso taglio del debito. Perché in questo caso il taglio non è stato imposto? Se non lo si è fatto per preservare la stabilità del sistema finanziario europeo, perché l’intero costo di questo intervento è stato fatto pagare alla sola Grecia? Negli Stati Uniti – che correttamente Giavazzi indica come riferimento di unione che funziona – il costo del piano di salvataggio delle banche è stato sostenuto da tutti i contribuenti, non solo da quelli del Nevada e della Florida, dove la crisi è stata più grave.
In una vera e propria unione monetaria – come gli Stati Uniti – la redistribuzione fiscale non è limitata all’unione bancaria, ma comprende anche trasferimenti fiscali automatici (come l’assicurazione federale contro la disoccupazione) e trasferimenti ad hoc. Un terzo del pacchetto di stimolo da 800 miliardi di dollari approvato da Obama nel 2009 conteneva trasferimenti eccezionali agli stati.

Cosa e quanto ha fatto l’Unione europea per i paesi più colpiti dalla crisi?
Nel suo confronto con gli Stati Uniti, tuttavia, Giavazzi ha un lapsus freudiano molto rivelatore, quando confronta Angela Merkel con Barack Obama. A differenza di Obama, Angela Merkel, non è il presidente legittimamente eletto dell’Unione, ma semplicemente il capo dello Stato più potente. È più come Andrew Cuomo, governatore dello stato di New York, o Jerry Brown, governatore della California. Che lei sia responsabile dei negoziati rivela l’errore fondamentale dei padri fondatori dell’euro: realizzando l’unione monetaria prima dell’unione politica, hanno creato non un’unione democratica, ma una egemonia tedesca.
Negli Stati Uniti anche gli stati più piccoli hanno due senatori, lo stesso numero di quelli più grandi. Questo dispositivo costituzionale assicura che sarà fatto l’interesse di tutto il popolo americano, non solo di quello dello stato economicamente più potente. Al contrario, l’approccio intergovernativo europeo, fa sì che l’Unione europea sia gestita principalmente nell’interesse di tedeschi e francesi. E non dei popoli tedesco e francese, ma delle banche tedesche e francesi. Nel 2010, quando queste erano pesantemente esposte verso la Grecia, “salvare” la Grecia era una priorità. Ora che hanno scaricato il loro discutibile credito sulle spalle dei contribuenti europei, sono felici di lasciare andare la Grecia.

Il merito dell’articolo di Giavazzi è quello di rendere molto chiara la posizione dell’élite pro-Europa. La Grecia non è essenziale per salvare il progetto europeo nella forma attuale. Si sta quindi cercando di correggere un errore con un altro errore. Il progetto europeo nella forma attuale non è sostenibile e non per colpa della Grecia.
È arrivato il momento di riconoscerlo e fare del nostro meglio per risolvere il problema.

→  giugno 14, 2015


di Francesco Giavazzi

Da oltre 5 anni è la Grecia il problema che più preoccupa l’Europa: non il lavoro, non l’immigrazione e nemmeno la Russia di Putin, ma un Paese che rappresenta meno del 2 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) delle nazioni che partecipano all’unione monetaria. Sarebbe interessante calcolare quante ore la signora Merkel ha dedicato ad Atene in questi 5 anni. Che penseremmo se scoprissimo che il presidente Obama dedica altrettanto tempo ai problemi del Tennessee, uno Stato che conta, nella federazione americana, un po’ più della Grecia nell’eurozona?
In questi 5 anni il mondo, soprattutto in Oriente, è cambiato. In Cina e India sono saliti al potere politici nuovi, che hanno rotto con il passato. A Pechino il presidente Xi Jinping ha avviato un processo di riforme che ha un solo precedente: Deng Xiaoping all’inizio degli Anni 90. In India Modi ha messo fine a sei decenni di predominio politico della famiglia Gandhi e soprattutto rivendica la matrice induista del Paese. Noi invece, anziché chiederci quale Europa possa far sentire la propria voce e difendere i propri interessi, economici e militari, in un mondo geograficamente e politicamente in forte mutamento, passiamo le giornate a parlare di Grecia.

Dopo 5 anni di discussioni che non hanno prodotto alcuna riforma significativa – le poche fatte, come il tentativo di ridurre il numero di dipendenti pubblici, sono state in gran parte rovesciate da Tsipras – è ormai evidente che i greci non pensano che la loro società debba essere modernizzata e resa più efficiente. Sembrano non preoccuparsi di un sistema che per oltre quarant’anni, dagli anni 70 ad oggi, ha aumentato il numero degli occupati nel settore privato al ritmo dell’uno per cento l’anno, mentre i dipendenti pubblici crescevano del quattro per cento l’anno con un sistema di reclutamento fondato per lo più sulla raccomandazione politica.
Certo, anche gli europei hanno sbagliato. Da quando, nel 2002, Atene è entrata nell’unione monetaria abbiamo prestato alla Grecia oltre 400 miliardi di euro (circa due volte il Pil del Paese) senza chiederci se quella cifra sarebbe mai stata ripagata. È però inutile oggi sprecar tempo, coltivando l’illusione, che ha sfiorato i finlandesi, che forse potremmo venir ripagati in natura, con la cessione di qualche isola. Le cannoniere britanniche dell’Ottocento fortunatamente non ci sono più. Il passato è passato, meglio metterci una pietra sopra.

E se i greci non vogliono modernizzarsi, inutile insistere: d’altronde hanno votato a gran maggioranza un governo che continua ad essere popolare. Hanno scelto, spero consciamente, di rimanere un Paese con un reddito pro capite modesto, metà dell’Irlanda, inferiore a Slovenia e Corea del Sud, che fra qualche anno verrà superato dal Cile. Spero che però nessuno ad Atene si illuda che fuori dall’euro, anche una volta cancellato il debito, inflazione e svalutazione possano essere un’alternativa a rendere l’economia più efficiente.

Penso sia venuto il momento di chiederci quanto sia importante per noi tenere la Grecia nell’Unione Europea, perché di questo si tratta: se Atene abbandonasse l’euro dovrebbe anche uscire dall’Ue. Il criterio non può essere la difesa dei nostri crediti, che comunque non potranno essere recuperati. A guidarci non può essere nemmeno quanto rischi l’unione monetaria che ormai, grazie alla Banca centrale europea, è sufficientemente robusta per poter affrontare l’uscita di un Paese come la Grecia.

La vera domanda è quanto ci interessa mantenere in Europa non tanto il museo della nostra civiltà, quanto soprattutto la delicata cerniera geopolitica fra Europa e Paesi islamici, in primis la Turchia. Il che non significa cedere al ricatto di Tsipras, ma accettare il rischio che comporta la condivisione della moneta con un Paese che ha liberamente deciso di non volersi modernizzare. Ma il salto politico necessario per porci questa domanda non siamo in grado di farlo. L’unione monetaria ha avuto il grande merito di accelerare l’integrazione economica – si pensi al trasferimento a Francoforte della vigilanza sulle banche – ma non può essere un sostituto dell’integrazione politica. Se la crisi greca ci aiuterà a comprenderlo, non saranno stati 5 anni spesi invano .

→  giugno 14, 2015


di Francesco Giavazzi

Il governo si appresta a sostituire i vertici della Cassa depositi e prestiti, la più grande istituzione finanziaria italiana. Per avere un’idea delle dimensioni, si pensi che il suo bilancio è dieci volte quello di Unicredit e Intesa Sanpaolo messe insieme. Lo Stato ne possiede oltre l’80 per cento, il capitale restante è detenuto da alcune fondazioni: Cariplo, Fondazione San Paolo, e altre. Che il governo desideri «metterci la faccia» assumendosi la responsabilità della gestione (il presidente, Franco Bassanini, e l’amministratore delegato, Giovanni Gorno Tempini, furono nominati ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, anche se scadrebbero solo l’anno prossimo) è non solo naturale, ma anche opportuno. Infatti, diversamente da altre aziende, come l’Eni, di cui lo Stato detiene il 30%, ma investitori privati detengono il 70%, la Cassa non ha veri soci privati. È quindi opportuno che il ministero dell’Economia eserciti pienamente i suoi doveri di azionista quasi totalitario. Ma nel momento in cui lo fa deve spiegare con grande trasparenza quali sono gli obiettivi che intende perseguire con questa enorme quantità di denaro generata dai nostri risparmi.
Negli ultimi anni la Cassa ha operato con obiettivi diversi. Nel caso di Ilva, ad esempio, si è opposta ad intervenire nell’azienda pugliese. H a ritenuto che sarebbe stato preferibile che lo Stato accettasse l’offerta di Mittal, il grande operatore siderurgico indiano, interessato ad acquisire il laminatoio di Taranto. Una scelta «di mercato» che non fece piacere al governo Renzi. In quella, come in altre vicende simili, il fatto che lo statuto della Cassa le vieti di investire in aziende in perdita ha consentito agli amministratori di opporsi a estemporanee sollecitazioni della politica che chiedevano interventi a prescindere dalla redditività economica.
Contemporaneamente la gestione di Bassanini e Gorno Tempini ha fatto anche investimenti discutibili. Ad esempio entrando (seppur non direttamente ma attraverso il suo Fondo strategico, del quale però la Cassa controlla oltre i due terzi del capitale) nella società Rocco Forte Hotels, con la scusa che gli alberghi sono un «settore strategico»; nella Cremonini, con la scusa che la filiera della carne è anch’essa «strategica» per il settore agroalimentare; nella Trevi, un’azienda di ingegneria; nella Sia, una società di servizi bancari, e così via. Investimenti dei quali si fa fatica a comprendere la strategia, a meno che essa non consista nel fare le medesime scelte che farebbe un investitore privato ma con l’immenso vantaggio di una raccolta che non costa quasi nulla perché garantita dallo Stato e di un azionista, sempre lo Stato, che non esige rendimenti particolarmente elevati.
Tre sono le domande cui il governo dovrebbe rispondere prima di metter mano al dossier Cassa.
Prima domanda: perché l’utilizzo di questa straordinaria quantità di risparmio delle famiglie deve essere decisa dalla politica, anziché da investitori privati? Quali obiettivi intende perseguire? Il governo è disposto ad impegnarsi a far sì che la Cassa intervenga solo là dove si verificano dei chiari «fallimenti del mercato», il che evidentemente esclude l’investimento in alberghi o in società di ingegneria? Impegnerà la Cassa a non detenere le azioni delle aziende acquisite per più di tre anni, dando così credibilità all’impegno che l’intervento pubblico, là dove giustificato da un fallimento del mercato, sia propedeutico ad una successiva privatizzazione? Ad esempio, la Cassa vuole acquisire aziende pubbliche locali (già partecipa agli aereoporti di Napoli, Torino e Milano, ad un termovalorizzatore a Torino, eccetera) in modo da favorirne l’aggregazione e poi la privatizzazione. Ma senza un vincolo su quanto a lungo ne potrà detenere le azioni, da queste aziende la Cassa non uscirà mai con la scusa che sono uno strumento per fare «politica industriale». Insomma, il rischio è che la disponibilità di uno strumento di intervento tanto ricco dia luogo ad una continua ricerca di ambiti nei quali utilizzarlo. È come dare 100 euro ad un ragazzino chiedendogli di usarli solo per le emergenze: quanto passerà prima che li usi per cambiare il suo smartphone ?
Altrettanto importante è impedire che la Cassa pompi ricavi esagerati dalle sue partecipazioni in alcuni monopoli naturali, come le reti elettriche e del gas, a scapito dei consumatori. Il che significa impedire che la Cassa sia, come è oggi, un’interfaccia opaca fra mercato e regolamentazione con conflitti di interesse ubiqui. Si pensi ad esempio al caso del risparmio postale: quando la Cassa fissa le commissioni per la raccolta, di fatto determina il risultato economico delle Poste, a scapito del consumatore.
La seconda domanda riguarda lo statuto della Cassa e il ruolo delle fondazioni. La loro definizione di azionisti «privati» è evidentemente una foglia di fico: le fondazione bancarie tutto sono tranne che azionisti che operano con criteri di mercato. Ciononostante esse oggi svolgono, come azionisti della Cassa, due ruoli importanti. Innanzitutto la loro presenza, fosse anche con una sola azione, evita che il bilancio della Cassa sia consolidato nei conti dello Stato. Se ciò accadesse il governo non potrebbe più «privatizzare» aziende pubbliche, come ha fatto con Eni ed Enel, semplicemente spostandone il possesso dal ministero dell’Economia alla Cassa. In secondo luogo, senza il consenso delle fondazioni è impossibile cambiare lo statuto della Cassa. Questo è un problema perché, come già accennato, lo statuto attuale non consente di intervenire in aziende in perdita. Se quindi il governo volesse usare la Cassa anche per risolvere crisi industriali – come ha dimostrato di voler fare nel caso dell’Ilva – dovrebbe cambiarne lo statuto. Per farlo, o estromette le fondazioni o le convince obtorto collo ad accettare una modifica dello statuto. Che intende fare?
La terza domanda è più generale. Vorrei che il presidente del Consiglio, prima di nominare il nuovo vertice della Cassa, spiegasse che cosa pensa del rapporto fra Stato e mercato. Ad esempio, si sente spesso dire che senza sussidi pubblici non ci può essere innovazione. A questo proposito alcuni citano il caso dell’iPhone che a loro parere non esisterebbe se 70 anni fa il Pentagono non avesse investito nella tecnologia da cui poi è nata la Rete. Innanzitutto qualunque cosa abbia fatto il Pentagono 70 anni fa, senza l’intuizione di Steve Jobs certo non avremmo l’iPhone; inoltre vi è un’enorme differenza fra mettere in gara imprese private per una fornitura militare o assegnarla a Finmeccanica, un’azienda di cui lo Stato è il maggior azionista. Che pensa Matteo Renzi di queste discussioni?
Pare che il prossimo investimento della Cassa sarà nella banda larga, con la giustificazione che Telecom non la vuole fare – se non addirittura un ingresso diretto nell’azionariato della società (cioè una ri-nazionalizzazione) per propiziare una decisione in quel senso. Telecom ritiene che un investimento nella banda larga non produrrebbe un sufficiente rendimento economico, e quindi distruggerebbe valore per gli azionisti. Può darsi che si tratti di un caso evidente di fallimento del mercato che giustifica l’intervento pubblico. Ma ne siamo proprio sicuri?
Qualche anno fa, per favorire gli investimenti in energie rinnovabili – un caso, si disse, di fallimento del mercato – il governo decise di sussidiare l’installazione di pannelli solari. Furono così concessi incentivi che oggi, a pannelli installati, si traducono in una rendita di circa 11 miliardi di euro l’anno: pagati dalle famiglie, nelle loro bollette elettriche, a poche migliaia di fortunati. E non solo si è creata un’enorme rendita che durerà per un ventennio: si è favorita una tecnologia che a distanza di pochi anni è già vecchia. Oggi l’energia solare si può catturare semplicemente usando una pittura sul tetto, con costi e impatto ambientale molto minori. Ma i pannelli sussidiati dallo Stato rimarranno lì per vent’anni e nessuno si è chiesto quanto costerà e che effetti ambientali produrrà la loro eliminazione.

→  settembre 17, 2014


Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia.
di Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri
Rizzoli, 2014
pp. 235


MoSE, Expo e Tav. Tre casi di scuola sulle “poche parole che valgono milioni” analizzate da Giavazzi e Barbieri

Di corruzione si può scrivere con la lente del magistrato, con i modelli dell’economista, con la gioia perversa del moralista. Se ne può scrivere anche con amore e dolore, amore per una delle più straordinarie città del mondo, dolore per gli scempi, morali e fisici, che in suo nome si sono compiuti: Venezia. E’ quello che fanno Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri in “Corruzione a norma di legge”.

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→  marzo 18, 2014


di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Se Matteo Renzi fosse un ciclista giudicheremmo il suo inizio in questo modo. È partito, si impegna, pedala con entusiasmo, ma per ora è in pianura. Le salite devono ancora arrivare. Non è chiaro che cosa riuscirà a fare, perché con le montagne il ciclista Renzi non si è ancora cimentato. E in questa corsa ci saranno tante salite e avversari difficili.

La prima è la riforma del mercato del lavoro. Renzi ha proposto varie semplificazioni dei contratti a tempo determinato e dell’apprendistato: bene, ma era relativamente facile. La salita arriverà quando si dovrà decidere se abolire l’articolo 18 per i nuovi assunti. Ovvero, se si vorrà adottare il modello proposto da Pietro Ichino: un contratto uguale per tutti, senza differenziazione fra lavoratori a tempo determinato e indeterminato, e che consenta alle aziende di licenziare con costi crescenti, ad esempio facendo pagare loro una quota del sussidio di disoccupazione tanto più elevata quanto maggiore era l’anzianità del lavoratore licenziato. Come osservava Maurizio Ferrera (Corriere , 14 marzo), il sussidio dovrà essere esteso a tutti, sostituire la cassa integrazione e prevedere regole chiare che costringano i disoccupati a cercare ed accettare nuovi lavori. Con più del 40 per cento di disoccupazione giovanile, e imprese che non assumono perché attanagliate dall’incertezza, questa maggior flessibilità non può che far bene all’occupazione. Limitarsi a spostare l’applicazione dell’articolo 18 al terzo anno successivo all’assunzione significa solo rinviare il problema, come notava Franco Debenedetti (Corriere , 15 marzo).

La Cgil si opporrà a una vera riforma del mercato del lavoro, che pure consentirebbe a tanti giovani di uscire dall’incubo dei contratti a tempo determinato. Evidentemente i giovani interessano poco alla Cgil, i cui iscritti sono per circa una metà pensionati. Ma riuscirà Renzi a superare in questa salita la Cgil, o rimarrà indietro?

Seconda salita: come finanziare la riduzione delle imposte sul lavoro e sui redditi più bassi e il sussidio di disoccupazione universale. Riuscirà Renzi a imporre tagli di spesa adeguati? Per ora non è chiaro. Il suo silenzio può voler dire due cose. Che ha ben chiaro che fare, ma non lo vuole rivelare troppo presto per non dare un vantaggio a chi si opporrebbe a qualunque taglio, in primis gli alti funzionari pubblici e i membri del suo stesso partito. Lo farà, ma senza dirlo prima, e quindi senza compromessi. L’altra ipotesi e che non sappia da che parte cominciare. Insomma, o il ciclista Renzi ha una strategia per la salita della montagna «spesa pubblica», ma strategicamente la tiene nascosta ai suoi avversari, oppure sta arrancando ed è già senza fiato.

Terza salita: la tassazione delle rendite finanziarie. Renzi ha preso una scorciatoia: l’aumento dell’imposta su alcuni titoli, continuando a privilegiare i debiti dello Stato rispetto a quelli di famiglie e imprese. Ma le scorciatoie sono spesso poco lungimiranti. Come suggerivamo in un editoriale del 21 febbraio, la delega fiscale che il Parlamento ha appena approvato offre un’occasione unica per rivedere in modo complessivo il nostro sistema impositivo. Prendendo spunto dai migliori esempi esteri come Gran Bretagna e Stati Uniti. Tassare il reddito da lavoro in modo progressivo e quello da capitale in modo proporzionale (indipendentemente dall’aliquota) è ingiusto. Le montagne si scalano con metodo e determinazione. Scorciatoie e accelerate improvvise mettono solo a rischio il risultato finale.