«Not with a bang but with a whimper», non con un botto ma con un sospiro. Il famoso verso di T.S. Eliot ben si addice alla fine dell’Iri: venduto quanto era vendibile, passato al Tesoro quanto si continua a considerare strategico, rinviato quanto non si è riuscito a risolvere, ora inizia la lunghissima dissolvenza della liquidazione.
L’Iri è stato il protagonista autentico dell’intervento dello Stato nell’economia, farne oggi il bilancio equivale a fare il bilancio di quanto di politica pianificatoria si è fatto nel nostro Paese: i salvataggi nella crisi degli anni Trenta, poi la ricostruzione, i grandi interventi strutturali (acciaio, trasporti, telefoni), la fase gloriosa in cui dall’America e dal Giappone venivano a studiare questa singolare impresa che sembrava conciliare con successo proprietà statale e mercato. Di questo è prevedibile che molto si parli nei giorni a venire. L’Iri in parte ha surrogato compiti che l’industria privata non poté o non seppe svolgere, in parte ne ha limitato lo sviluppo, sottraendo ad essa interi settori di mercato, condizionando con la sua sola presenza i comportamenti degli operatori e influenzato il panorama industriale, finanziario e proprietario del nostro capitalismo. Ma poiché sempre quello che conta è il finale di partita, chi vuole esprimere un giudizio complessivo sulla vicenda Iri deve farlo sul risultato finale, vale a dire sugli assetti proprietari e di mercato che l’Iri consegna al Paese con la sua uscita di scena.
«Politica industriale» non è solo intervenire sul mercato, è anche íl percorso inverso, restituire al mercato le imprese e alla concorrenza gli spazi occupati. D’altra parte che l’Iri avesse una funzione limitata nel tempo era nelle intenzioni dei suoi fondatori; assumere questo punto di vista, considerare cioè i 67 anni della sua esistenza una parentesi durata troppo a lungo, è coerente con il loro spirito. Per porre la questione in modo esplicito: il modo con cui le aziende Iri sono state vendute ha prodotto un aumento di concorrenza sul nostro mercato, è stata occasione per nuove forze imprenditoriali di entrare nel gioco, ha allargato il campo delle imprese e degli imprenditori? La risposta è purtroppo largamente negativa. Nel vendere le aziende Iri, i Governi che si sono succeduti hanno seguito due principi: minimizzare la possibilità di sorprese per la stabilità dell’azienda e di rischi per il mantenimento dell’occupazione; massimizzare i ricavi. Questi obbiettivi sono stati sostanzialmente raggiunti, e con una trasparenza di cui è doveroso dare atto. Ma essersi ridotti ad essi soli finisce per fare torto alla stessa storia dell’Iri.
Era inevitabile questo esito? Una volta imboccata la strada della «politica industriale» non era possibile uscirne dandone un’interpretazione più alta, assumendo un obbiettivo più ambizioso? L’unico tentativo di usare l’occasione della vendita a fini di modifica strutturale lo fece Romano Prodi da Presidente dell’Iri: vendendo Comít e Credit voleva introdurre in Italia il modello della public company. Ma questa presuppone l’esistenza di investitori istituzionali, in particolare fondi pensione, a suscitarli non basta mettere limiti al possesso azionario. Sappiamo come finì, Enrico Cuccia riuscì facilmente a riportare le due banche nell’orbita di Mediobanca. La strada più coraggiosa sarebbe stata quella di aprire a investitori stranieri, ma venne scartata. Emblematico fu il caso Alfa Romeo, che la Fiat riuscì ad assicurarsi sul filo di lana, battendo l’offerta Ford e respingendo il suo tentativo di insediarsi nel nostro mercato. Assunto il vincolo del passaporto italiano, e mancando investitori istituzionali, non rimaneva che fare ricorso ai gruppi esistenti. Questi hanno bene o male assolto al loro compito. Hanno costosamente metabolizzato le situazioni più critiche (acciaio); si sono rafforzati (auto, banche); si sono diversificati (autostrade, aeroporti). I Governi si sono preoccupati della concorrenza non in positivo, favorendo l’ingresso di nuovi operatori, ma in negativo, evitando che si formassero posizioni troppo potenti. Può apparire paradossale, ma nella sua fase terminale l’Iri ha finito per rafforzare quel capitalismo privato che Mediobanca aveva difeso negli anni di massima diffusione dello statalismo. Sono due eventi di segno affatto diverso, anzi opposto, quelli a cui la coincidenza della scomparsa di Cuccia e dell’avvio della fase di liquidazione dell’Iri conferisce un impressionante valore simbolico: il banchiere può uscire di scena, l’antagonista di sempre chiude i battenti.
In questo quadro mancano due importantissimi tasselli: Telecom e Rai. Telecom in realtà venne privatizzata sollecitando l’intervento, non proprio convinto, dei grandi gruppi, quindi seguendo i criteri di sempre. Che poi questa privatizzazione sia la sola ad aver dato luogo alla nascita di un nuovo protagonista finanziario, è stato un fatto non previsto, e neppure gradito a coloro che l’avevano avviata; è stata invece la conseguenza della legge sull’Opa, e della decisione del Governo D’Alema che ne volle il rispetto. La legge Draghi, la vendita in un solo colpo di Telecom — imposta da Ciampi a tutta la maggioranza —, la fermezza di D’Alema nel garantire il regolare svolgimento dell’Opa: l’insieme di questi fatti costituisce una delle vicende migliori di questa legislatura.
E infine la Rai: è vero che solo nominalmente è dell’Iri, e non è mai entrata in nessun piano di privatizzazione. Ma, al pari di quella delle telecomunicazioni, quella della TV è un’industria di vitale importanza per l’economia di un Paese avanzato. Ora bisogna evitare che per la Rai si realizzino gli schemi più o meno mascherati di proprietà statale di cui si parla: la Rai è l’ultima occasione per far sì che la vicenda Irí, l’esperienza dell’intervento dello Stato nell’economia nel nostro Paese, si chiuda con qualcosa di più di una dignitosa sistemazione del passato.
Questa legislatura ha privatizzato Telecom. Privatizzare la Rai è il compito che essa consegna alla prossima.
giugno 25, 2000