Politica e ricchezza

ottobre 10, 2018


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


Ciò che accomuna i populisti al governo agli intellettuali è la diffidenza verso i mercati

“Al MEF, i soldi che servono, devono decidersi a tirarli fuori!” “Se devo scegliere tra lo spread e gli italiani, io scelgo gli italiani.” “Bruxelles deve rendersi conto che milioni di italiani col loro voto hanno scelto una politica economica diversa”.

Per Ernesto Galli della Loggia (Le risorse contese tra i Poteri, Corriere della Sera, 1 Ottobre 2018), “la polemica in corso tra l’osservanza o meno delle regole europee in materia di deficit”, deriva da un cambiamento del rapporto tra politica ed economia, tra democrazia e potere economico. La democrazia ha bisogno di risorse in quantità sempre crescenti, e per procurarsele è spinta fatalmente a cercare di sottomettere ai suoi bisogni l’economia. Mentre fino agli anni 80 del Novecento c’era stata la prevalenza della politica sull’economia, da allora le cose sarebbero cambiate, come conseguenze di due fenomeni: primo, aver reso le Banche centrali indipendenti dal potere politico; secondo, avere liberalizzato il mercato dei capitali, rendendolo “unificato e interconnesso”. Per effetto della prima, la politica ha perso il controllo sui tassi di cambio e di interesse; per effetto della seconda, il mercato ha “accresciuto il proprio raggio d’azione e d’influenza rispetto ai bilanci statali bisognosi di credito”.

Che il dire queste cose rischi di “passare all’istante per tifosi dei partiti di governo” può preoccupare Galli della Loggia, ma non rileva per chi è interessato a capire come sia diventato maggioritario il favore per quello che succintamente chiamiamo “populismo”. E’ reazione diretta dei due cambiamenti che egli indica, oppure mediata dalle critiche che ad essi vennero mossi da quelle che allora si credevano classi egemoni nel Paese? Il populismo è figlio della reazione popolare alle dislocazioni prodotte dal liberismo, o delle critiche mosse da larga parte di intellettuali e politici al “neoliberismo”? Il populismo è endogeno o esogeno?

L’indipendenza della politica monetaria dal governo non nacque come “la rivolta delle opinioni pubbliche nei confronti degli errori, degli sprechi, della corruttela”, ma come rimedio alla stagflazione degli anni’70: furono la visione di Milton Friedman e la determinazione di Volcker a salvare l’America. Dopo di che in tutto il mondo, con poche e non commendevoli eccezioni, tutte le banche di emissione vennero rese indipendenti dal potere politico. In Italia il Tesoro pretendeva che Bankitalia comprasse i BOT lasciati inoptati da banche e risparmiatori, e Bankitalia avrebbe considerato “sedizioso” rifiutarsi di farlo: si indebitava lei, stampando moneta. Questo provocava l’aumento dei prezzi e la rincorsa di salari e pensioni, un processo che si avvita su se stesso, un tunnel con al fondo l’Argentina. La Banca d’Italia divenne indipendente nel 1981, con il “divorzio” voluto da Andreatta e Ciampi. La BCE nasce indipendente da tutti i governi dell’eurozona, con divieto assoluto di monetizzare il debito. La politica sottomessa dall’economia? E’ la politica a non riuscire a immaginare un suo ruolo che non richieda più spese; per questo ha bisogno di finanziarsi, e solo offrendo interessi elevati riesce ad attrarre coloro a cui chiede soldi. Politica può essere addossare alle generazioni future i debiti contratti oggi; politica, con pari legittimità, è garantire ai propri elettori che il valore dei loro risparmi non verrà eroso dall’inflazione.

Che la liberalizzazione dei capitali dei mercati finanziari abbia contribuito anch’essa a sottoporre la politica all’economia, e quindi a produrre la spaccatura “tra l’osservanza o meno delle regole europee in materia di deficit”è affermazione invero sorprendente. Se devo vendere la mia merce, in questo caso titoli di debito pubblico, più gente c’è disposta a comprarla, meglio è: aumenta il prezzo e quindi diminuisce l’interesse da corrispondere. Non solo, ma siccome non tutti i risparmiatori vogliono la stessa cosa, più il mercato è grande, più aumenta la probabilità di trovare qualcuno interessato proprio a un prodotto con le caratteristiche di rischio/rendimento del mio. Più gente vogliosa di investire, meno rischio che “i bilanci statali bisognosi di credito” vengano presi per il collo. Altro che “inedita condizione di tendenziale impoverimento/dipendenza economica degli Stati”.

Gli italiani detengono notoriamente un importante risparmio. Poniamo che uno abbia deciso di investirlo a reddito fisso: se gli è consentito solo di acquistare il debito voluto dalla “politica” alla condizioni volute dalla “politica” e gli è vietato cercare sul mercato mondiale il prodotto con le caratteristiche che considera più adatte al suo portafoglio, penserà che la politica ha vinto oppure che gli ha fatto perdere soldi? E’ un vantaggio per tutti che i mercati finanziari siano “unificati e interconnessi”: rende possibile ai risparmiatori di tutto il mondo di investire il proprio danaro con il rapporto rischio/rendimento preferito, e agli stati indebitati di pagare il tasso di interesse corrispondente a quello che globalmente viene considerato il rischio di non essere ripagato.

Certo che c’è diversità tra i ragionamenti di Galli della Loggia e quelli di ministri e portavoce giallo-verdi. Diverso è parlare di tensione tra politica ed economia, o contrapporre i milioni di voti ricevuti al potere dei burocrati; mettere in una prospettiva storica la cessione a banche centrali indipendenti del potere di controllare cambi e interessi, o servirsene nella contingente polemica anti-euro; giustificare il “distribuire risorse e assicurare protezione sociale” con la necessità di evitare “conseguenze funeste [per] l‘avvenire dei regimi democratici”, o voler convincere che sono un mezzo per promuovere la crescita. Ma molto più importante, ai fini dell’evoluzione del quadro politico, è riconoscere la contiguità tra l’attuale populismo e le opinioni di politici e intellettuali che l’hanno preceduto: la diffidenza verso i mercati, la resistenza a comprendere che non è il debito, ma l’impegno dei cittadini a creare la “ricchezza delle Nazioni”.

Le risorse contese tra i Poteri
di Ernesto Galli della Loggia – Corriere della Sera, 01 ottobre 2018

Una delle peggiori conseguenze dell’arrivo al potere della coalizione Lega-5Stelle è che da quel momento parlare di certe cose è diventato politicamente sospetto. Si rischia di passare all’istante per tifosi dei partiti di governo. Ma è un rischio da correre se si vuole cogliere ciò che sta dietro la cronaca politica. Se ad esempio si vuole cogliere ciò che sta dietro l’osservanza o meno delle regole europee in materia di deficit. Che è, né più né meno, la questione cruciale del rapporto tra la democrazia e il potere economico, tra la politica e l’economia.

Si tratta di un rapporto per sua natura critico. La democrazia infatti è nata per consegnare il potere politico nelle mani di coloro che non hanno il potere economico. I quali costituiscono di regola la maggioranza della popolazione, e perciò la maggioranza dei votanti. Ma è una maggioranza, quindi, che verosimilmente adopererà il potere politico così ottenuto soprattutto a un fine: quello di migliorare le proprie condizioni di vita. La duplice conseguenza è che da un lato nei regimi democratici il cuore dell’attività di governo consiste inevitabilmente nello spendere (perlopiù a favore di chi non ha), e dall’altro che il consenso elettorale dipende in misura decisiva dalla promessa di farlo (o di abbassare le tasse, il che ha in sostanza lo stesso effetto). Ne risulta che più di qualunque altro regime la democrazia ha bisogno di risorse.

Di solito di una quantità di risorse sempre crescente dal momento che sempre crescenti finiscono fatalmente per essere le aspettative dei suoi cittadini. Il secondo risultato è che al fine di procacciarsi tali risorse la politica democratica è spinta altrettanto fatalmente a cercare di sottomettere ai suoi bisogni l’economia: innanzi tutto limitando in vari modi il diritto di proprietà. Non è un caso che alle origini della democrazia moderna vi sia la lotta violenta che negli anni 30 il presidente Roosevelt scatenò contro il potere giudiziario della Corte Suprema, colpevole per l’appunto di voler difendere in nome della Costituzione l’intangibilità del diritto di cui sopra. Si sa come finì: Roosevelt non esitò a mutare la composizione della Corte e questa si rassegnò a forzare la lettera della Carta nel senso voluto dal Presidente.

Sta di fatto però che mentre fino agli anni 80 del Novecento questa tensione tra politica ed economia, tipica della democrazia, aveva visto per mezzo secolo una prevalenza della prima sulla seconda, da allora invece le cose sono rapidamente cambiate. Dapprima la sovranità politica ha preso a cedere terreno grazie alla proclamata indipendenza della Banche centrali rispetto ai governi: il che ha voluto dire la perdita da parte della politica stessa del controllo sui tassi di cambio tra le monete e sui tassi d’interesse (innanzi tutto sui titoli di Stato) a favore del mercato finanziario. Il quale, dal canto suo, pressoché contemporaneamente assisteva anche a una completa liberalizzazione dei movimenti di capitale vedendo perciò enormemente accresciuto il proprio raggio d’azione e d’influenza: innanzi tutto rispetto ai bilanci statali bisognosi di credito.

Da allora la politica è stata costretta a continui passi indietro specialmente rispetto a un mercato finanziario sempre più unificato e interconnesso, sempre più globalizzato, al cui centro si collocano oggi non più di una trentina di grandi istituti bancari, le cosiddette banche sistemiche, che naturalmente determinano in misura decisiva gli andamenti di alcuni parametri chiave. Per avere un’idea della loro stazza, e quindi del loro potere, basta pensare che nel 2012 il totale dei bilanci di 28 di tali banche, ammontante a oltre 50 mila miliardi di dollari, superava l’ammontare dell’intero debito pubblico mondiale. Si aggiunga che mentre tali banche superavano più o meno brillantemente la crisi del 2007-2009, tra l’altro venendo ricapitalizzate massicciamente dagli Stati, questi invece vedevano la percentuale del proprio debito rispetto al Pil passare a livello mondiale, tra il 2007 e il 2013, dal 53 al 70 per cento.

Il risultato è che oggi, soprattutto in conseguenza della globalizzazione, la politica ha perduto quasi interamente la sua antica sovranità monetaria — un attributo, lo ricordo, che insieme al monopolio legale dell’uso della forza ha da sempre connotato la statualità — a favore di un ristretto conglomerato di istituzioni bancario-finanziarie in larga parte deterritorializzate. Così come sono sempre più in larga parte deterritorializzate anche le grandi imprese multinazionali operanti nei vari Stati ma in grado di sottrarsi in notevolissima misura agli obblighi della fiscalità e addirittura di mettere in competizione gli Stati tra di loro per chi riesce a incamerare i loro (in genere assai ridotti) esborsi tributari. Tutto ciò mentre a livello planetario i paradisi fiscali si moltiplicano, sicché quote altissime di ricchezza privata si sottraggono a ogni dovere di solidarietà, e di fatto il carico tributario finisce sempre più per pesare sulle classi medie e lavoratrici.

Nel mondo, insomma, minaccia di crearsi una inedita condizione di tendenziale impoverimento/dipendenza economica degli Stati. Questi si sono visti e si vedono via via sottrarre la possibilità tanto di finanziarsi monetariamente quanto di ottenere per via fiscale le risorse necessarie alla vita collettiva. Con il risultato di essere viepiù costretti a indebitarsi con il sistema finanziario. Da anni, in tal modo, gli Stati, cioè i loro cittadini, perdono indirettamente anche capacità e sovranità politica. Chi, come è giusto, si preoccupa per l’ondata di antipolitica che caratterizza il nostro momento storico — cioè per il clima di sfiducia e di sprezzante disinteresse che circonda la politica — non può fare a meno di considerare quanto dietro un fenomeno del genere vi sia proprio la perdita d’incisività della politica stessa specialmente in campo economico.

Certo: un fattore scatenante dei nuovi orientamenti sopraggiunti negli anni 80 di cui ho fin qui parlato è stata la rivolta delle opinioni pubbliche nei confronti degli errori, degli sprechi, della corruttela di ogni tipo, di cui la politica si è resa responsabile nei decenni in cui ha comandato senza dover rendere conto a nessuno. Quando essa poteva abusare a suo piacere della propria sovranità monetaria. Ma tutto ciò non deve far dimenticare che alla lunga l’impoverimento tendenziale degli Stati minaccia di avere conseguenze funeste sull’avvenire dei regimi democratici. I quali hanno potuto conoscere il rafforzamento e il radicamento che hanno conosciuto, hanno potuto ottenere il consenso di massa di cui finora hanno goduto, solo grazie al fatto che tali regimi sono stati in grado di distribuire risorse e assicurare protezione sociale ai propri cittadini in una misura mai vista in precedenza.

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di Andrea Marcenaro – Il Foglio, 02 ottobre 2018

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