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Archivio per il Tag »Ernesto Galli Della Loggia«

→  luglio 30, 2020


Tornato a Roma, Conte ha perso l’occasione per confermare che quello di Bruxelles non è stato solo un successo tattico negoziale suo, ma una strada imboccata dall’Italia per “recover” dal colpo della pandemia: quella di dichiarare chiusa la polemica sul MES, accettandolo senza ulteriori discussioni. Doveva farlo non solo per coerenza con quando aveva detto quando cercava di prender tempo, e cioè che avrebbe deciso l’accesso al MES dopo aver visto l’esito delle discussioni sul Recovery Fund, e neppure per ragioni di convenienza economica: doveva farlo per ragioni di logica. Infatti per dare garanzia che l’Italia, senza bisogno di condizionalità, avrebbe usato le risorse per gli scopi per cui ci sono stati concessi e non le avrebbe sprecate in aumento della spesa pubblica, bisogna dimostrare che sono state abbandonate le cause che questo esito hanno, anche in tempi recenti, prodotto. E queste cause sono ideologiche. Mostra di averlo in mente il segretario del PD Nicola Zingaretti quando pone il loro superamento come presupposto per realizzare il vasto piano del suo articolo sul Corriere della Sera del 25 Luglio. Ideologie, come certo ricorda, le hanno (o le hanno avute) in tanti, alcune risorgono sotto nuove spoglie, come quella dello Stato, imprenditore per alcuni, salvatore per tanti. Ma il rifiuto del MES è ideologico in modo emblematico, attivarlo al ritorno da Bruxelles era una occasione per emblematicamente dimostrarlo.

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→  ottobre 10, 2018


Ciò che accomuna i populisti al governo agli intellettuali è la diffidenza verso i mercati

“Al MEF, i soldi che servono, devono decidersi a tirarli fuori!” “Se devo scegliere tra lo spread e gli italiani, io scelgo gli italiani.” “Bruxelles deve rendersi conto che milioni di italiani col loro voto hanno scelto una politica economica diversa”.

Per Ernesto Galli della Loggia (Le risorse contese tra i Poteri, Corriere della Sera, 1 Ottobre 2018), “la polemica in corso tra l’osservanza o meno delle regole europee in materia di deficit”, deriva da un cambiamento del rapporto tra politica ed economia, tra democrazia e potere economico. La democrazia ha bisogno di risorse in quantità sempre crescenti, e per procurarsele è spinta fatalmente a cercare di sottomettere ai suoi bisogni l’economia. Mentre fino agli anni 80 del Novecento c’era stata la prevalenza della politica sull’economia, da allora le cose sarebbero cambiate, come conseguenze di due fenomeni: primo, aver reso le Banche centrali indipendenti dal potere politico; secondo, avere liberalizzato il mercato dei capitali, rendendolo “unificato e interconnesso”. Per effetto della prima, la politica ha perso il controllo sui tassi di cambio e di interesse; per effetto della seconda, il mercato ha “accresciuto il proprio raggio d’azione e d’influenza rispetto ai bilanci statali bisognosi di credito”.

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→  settembre 3, 2018


L’Unione Europea e il sistema bancario tedesco
Franco Debenedetti.

La Germania, scrive Ernesto Galli della Loggia (“La scossa che manca a sinistra” del 30 Agosto) “se ne ride dei richiami di Bruxelles per la violazione del limite del suo attivo commerciale”. Non è così: a differenza delle regole sugli squilibri fiscali (i famosi parametri di Maastricht), quella sugli squilibri macroeconomici è costituita da 14 indicatori: la bilancia dei pagamenti, che non deve superare il 6% del PIL, è solo uno di essi. La Commissione, per valutare se un Paese sia in squilibrio macroeconomico, fa una valutazione complessiva di tutti gli indicatori: non risulta abbia offerto occasioni di ilarità. Altra cosa è sostenere che una politica che favorisse maggiori investimenti interni e aumenti salariali andrebbe a vantaggio di tutti, Germania compresa. Quanto all’altra accusa, di occultare “spudoratamente la situazione fallimentare di un pezzo del suo sistema creditizio”, ci si aspetta che affermazioni di tale potenziale impatto siano suffragate da qualche dato.

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→  dicembre 17, 2013


Le norme della nostra Costituzione, sostiene sul Corriere della Sera di venerdì Paolo Flores d’Arcais in polemica con Galli della Loggia, sono “inequivocabilmente prescrittive nei confronti del legislatore”, non possono essere interpretate e aggiornate alla realtà di oggi ma “costituiscono la strettissima via all’interno della quale devono muoversi legislativo esecutivo giudiziario”.

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→  dicembre 13, 2013


di Paolo Flores d’Arcais

Ernesto Galli della Loggia nel suo articolo di domenica mi accusa di “evidente contraddizione” per una interpretazione della Costituzione che ho avanzato in un trascorso numero di MicroMega (“Realizzare la Costituzione”, ormai non in edicola ma disponibile sul sito di micromega.net), che sarebbe “eversiva alla radice dell’ordine repubblicano” e “premessa per una sorta di guerra civile” e le cui “forsennate conseguenze” implicherebbero la volontà di “messa al bando per decreto” per tutti coloro che non la condividano, vale a dire “la parte riottosa ai suoi [cioè miei] precetti”, parte su cui “naturalmente” calerei ipso facto l’accusa di “fascismo”, con cui del resto bollerei “la signora Thatcher e molti degli editorialisti di questo giornale” (per quest’ultima accusa Galli usa la formula dell’interrogativo retorico).

Questa ricca giaculatoria di anatemi, solo per aver io ricordato quanto la Costituzione solennemente pone a fondamento della nostra convivenza civile. Se con l’art. 4, ad esempio, “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”, ne deriva proprio la conseguenza logica, come ho scritto su MicroMega, che “diventerebbero estranei e nemici della Repubblica” i governi che non operassero per la piena occupazione. Se con l’art. 36 “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione … in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, ne deriva la conseguenza logica che ostili alla Costituzione sono parlamentari e ministri che agiscano secondo politiche difformi da questo imprescindibile obiettivo (prosternandosi ai diktat di Marchionne, ad esempio). Se con l’art.37 “le condizioni di lavoro devono … assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”, è conseguenza logica, scrivevo, che vada “contro la Costituzione ogni politica che non assicuri a tutti gli asili nido” (Galli chiosa: “a tutti i bambini, immagino”. In effetti solo a loro pensavo, ma il suo articolo mi ha inoculato un dubbio).

Se l’art. 42, recitando che “la proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”, pone per ben due volte la proprietà privata in una posizione subordinata a quella pubblica, aggiungendo esplicitamente che “la legge ne determina [della proprietà privata] i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, ne consegue logicamente che sono fuori e contro la Costituzione le forze politiche ostili a perseguire il primato della “funzione sociale” rispetto al diritto proprietario dei privati (questo “terribile diritto”, come lo definisce un libro di Rodotà proprio in coerenza con la Costituzione). Tanto è vero che (art. 43) è previsto anche l’esproprio “salvo indennizzo” non specificato e funzionale “a fini di utilità generale”.

Non riproduco gli altri esempi fatti su MicroMega. Trovo francamente curioso che agli occhi e alla “logica” di Galli tutte queste inoppugnabili conseguenze logiche appaiano costituire una “evidente contraddizione”.

A meno di non tornare alla contrapposizione tra norme programmatiche e norme precettive con cui la Corte di Cassazione fino a tutto il 1955, zeppa di magistrati ossequienti al regime fascista e applicando norme fasciste a go go, riuscì a impedire che la Costituzione fosse davvero vigente. La sentenza numero 1/1956 della Corte Costituzionale poneva fine a questa prevaricazione giuridica, e da allora, con sempre maggiore chiarezza, sentenze della Corte e dottrina pressoché unanime evidenziano come le norme programmatiche della Costituzione non siano “libri dei sogni” o innocui “castelli in aria”: non sono direttamente e immediatamente precettive in quanto da sole non possono dar luogo a sanzioni, ma sono inequivocabilmente prescrittive nei confronti del legislatore, a cui detta le coordinate cui deve uniformarsi il lavoro parlamentare, e nei confronti dei tribunali, che devono interpretare le leggi alla luce della Costituzione.

Gli articoli della Costituzione non sono dunque “inapplicabili”, come sentenzia Galli, costituiscono anzi la strettissima via maestra all’interno della quale devono muoversi legislativo esecutivo e giudiziario se vogliono mantenersi fedeli al Patto che fonda la nostra convivenza, “giurato da uomini liberi” che venivano dalla prigione, dall’esilio, dalla lotta armata contro il fascismo. A cui dobbiamo una delle Costituzioni più avanzate del mondo, e che la vollero rigida, cioè particolarmente ardua da modificare, proprio per impedire che ne fosse stravolto o edulcorato l’imprinting.

La nostra è infatti una Costituzione che trasuda “giustizia e libertà” quasi da ogni articolo (non l’art.7, ovviamente). Per questo non piace a Galli. Il quale non l’avrebbe “a gran dispitto” se non comportasse le logiche conseguenze che ho richiamato. Del resto lo confessa, seppure con qualche obliquità: “effettivamente, a motivo di una dizione perentoriamente ancorché astrattamente prescrittiva, molti degli articoli della nostra Costituzione — specie quelli del Titolo II e III — si prestano troppo facilmente ad essere interpretati come un obbligatorio programma di governo”.

Proprio per questo l’establishment del berlusconismo e dell’inciucio, nel suo ventennio che forse si chiude, ha provato a stravolgerla: con le nomine di giudici costituzionali che sperava corrivi, o con comitati di controriforma. Inutilmente, fin qui.
Galli chiede polemicamente a Lorenza Carlassare, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky cosa pensino del mio atteggiamento “ferocemente divisivo”. Per certo don Luigi Ciotti, dal palco della manifestazione ricordata da Galli, ha usato l’espressione “Costituzione tradita” almeno sei o sette volte. Per questo resta un programma politico attualissimo. Purtroppo, visto che la nostra Costituzione antifascista dovrebbe essere l’orizzonte comune a tutti i cittadini e a tutti i politici.

Antifascista, sì. Galli sa perfettamente che ogni norma trae legittimità da una norma di livello superiore, per cui, se si vuole evitare regresso all’infinito o legittimazione circolare, la norma fondamentale (la Grundnorm di Kelsen) che regge l’intero sistema deve avere carattere extra-giuridico. Tutte le norme traggono in definitiva la loro legittimità dal fatto storico che ha dato vita a una Costituzione. Per quella Americana è la rivoluzione per l’Indipendenza, per la nostra è la Resistenza antifascista e la sua vittoria il 25 aprile, che le tre partigiane in armi della copertina di MicroMega simboleggiano.

Se la Resistenza antifascista è – come inoppugnabilmente è – la Grundnorm del nostro patto di convivenza, un ovvio sillogismo ci dice che il rifiuto dell’ethos antifascista mette a repentaglio la legittimità del nostro intero ordinamento giuridico. Ma è solo nella fantasia di Galli che io dia del “fascista” a tutti coloro che si sentono estranei o ostili alla nostra Costituzione. Non mi sognerei mai di definire fascista la signora Thatcher (e neppure Ostellino o altri editorialisti di questo giornale), ma benché non fascista la politica economico-sociale della prima resta radicalmente incompatibile con la nostra Costituzione repubblicana, verso la quale del resto l’inimicizia di Ostellino è dichiarata, reiterata e perfino ostentata.

Perciò da parte mia nessuna “geremiade sulla non avvenuta attuazione” della Costituzione, ma la consapevolezza che in Italia ci sono due grandi partiti trasversali, uno dei quali è nemico della Costituzione, e se cerca di cambiarla aggirandone il carattere rigido è anzi nemico eversivo. Da combattere con democratica intransigenza. Perché, finché c’è lotta c’è speranza.

→  dicembre 8, 2013


di Ernesto Galli della Loggia

Rallegrarsi come è giusto perché la Corte costituzionale ha cancellato il Porcellum sulla base di quanto stabilito dalla Costituzione non vuol dire che allora questa, però, non si presti in alcune sue parti ad un uso strumentale che rischia di snaturarne il significato. E che quindi, se mai fosse possibile, almeno per ciò essa andrebbe modificata. Ce lo fa capire come meglio non si potrebbe Paolo Flores d’Arcais, in un recentissimo numero di MicroMega.

Naturalmente a modo suo, e cioè tessendo un’entusiastica apologia della Carta e deplorandone la «mancata attuazione». («Realizzare la Costituzione» s’intitolano il numero e l’articolo, e a rendere più chiaro il concetto le parole sono accompagnate dalla nota immagine — peraltro falsa come si sa — di tre giovani partigiane che ci guardano dalla copertina tenendoci un mitra puntato addosso). Ciò su cui Flores non si stanca d’insistere è che la Costituzione italiana non è tanto una Costituzione bensì «un programma politico più che mai attuale», anzi «di stringente attualità»: addirittura «la cura adeguata per i mali dell’Occidente».

Che cosa significa? Prendiamo per esempio l’articolo 3 sul diritto al lavoro. Ebbene, esso costituisce, scrive Flores, un impegno «niente affatto generico bensì tassativo per tutti i governi, che altrimenti diventerebbero estranei e nemici della Repubblica». Non solo: ma visto che l’art. 36 prescrive altresì che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa», anche qui, deduce l’autore, «ogni salario che non lo garantisce è anticostituzionale». E così via di seguito: «è contro la Costituzione — per fare un altro esempio — ogni politica che non assicuri a tutti gli asili nido» (a tutti i bambini, immagino); per non dire degli articoli 1 e 4 che, sempre ad avviso di Flores, sancirebbero «l’ostilità alla Repubblica di ogni politica che non abbia al primo posto la scomparsa della disoccupazione»; o l’art. 42 che subordina «senza se e senza ma» il profitto a una non meglio determinata «funzione sociale».

Il bello è che dopo aver proclamato il carattere strettamente politico-programmatico della Carta, Flores tuttavia, non rendendosi conto della contraddizione evidente, afferma che ciò nonostante essa «dovrebbe essere l’orizzonte comune del Paese, la trama condivisa di valori» sentita come tale anche dalle «forze politiche contrapposte». Se non lo è, vuol dire — si noti il modo di ragionare dell’autore — che allora la Costituzione stessa «è stata tradita, vuol dire che l’altra parte (cioè quella in disaccordo con le opinioni costituzionali di Flores) è già eversiva di quell’orizzonte comune, è già in “guerra civile”». E poiché la nostra Costituzione è una «Costituzione antifascista» ne discende — prosegue il discorso — che la parte riottosa ai suoi precetti non può naturalmente che essere «il fascismo»: a dispetto del fatto — aggiunge Flores con il suo abituale lessico da Comitato di Salute pubblica — che con il 25 aprile «tutta la nazione abbia deciso che su di esso dovesse abbattersi la damnatio memoriae». Ancora un’ultima citazione per intendere tutta la limpidezza dell’argomentazione: «Se la Costituzione repubblicana resta una bandiera di parte, vuol dire che il fascismo ancora non è stato sepolto, non è stato archiviato nella cloaca della sua storia (…), che dunque un fascismo vivo e vegeto proietta ancora la sua ombra, l’ossequio al potere in spregio e in censura ai fatti».

Insomma: chi a dispetto della Carta pensasse, mettiamo, che il livello del salario debba essere legato alla produttività, o, per dirne altre, che la lotta alla disoccupazione debba necessariamente sottostare a certi vincoli, o, ancora, che assicurare l’asilo indistintamente a tutti i bambini non possa farsi sempre e comunque per via della spesa eventualmente insostenibile: ebbene, chi pensasse cose simili non sarebbe solo una persona ragionevole o al più, se si vuole, di orientamento conservatore. No: secondo il direttore di Micromega e il suo sobrio lessico egli sarebbe né più né meno che «contro la Costituzione», un «nemico della Repubblica», un «fascista» da mettere al bando. Il tutto, per l’appunto in nome dell’«attuazione della Costituzione».

Mi chiedo che cosa pensino Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky o Sandra Bonsanti o don Luigi Ciotti, e tante altre persone che come loro si sono battute in questi ultimi tempi in «difesa della Costituzione», che cosa pensino, dicevo, di queste forsennate conseguenze del loro impegno. Le condividono? È questa la Costituzione, è questa la sua interpretazione che vogliono difendere? In base alla quale bisognerebbe considerare fascista, tanto per dire, la signora Thatcher e molti degli editorialisti di questo giornale? O mettere fuori legge il cancelliere Schröder per la sua politica non proprio filo-sindacale?

Credo e spero di no. Ma le forsennatezze diciamo così teoriche di Flores — che pure dirige la rivista a cui le persone di cui sopra collaborano con particolare fre-quenza — dicono qualcosa di importante, di cui esse pure, forse, farebbero bene a occuparsi. E cioè che effettivamente, a motivo di una dizione perentoriamente ancorché astrattamente(prescrivere senza comminare sanzioni lascia il tempo che trova) prescrittiva, molti degli articoli della nostra Costituzione — specie quelli del Titolo II e III — si prestano troppo facilmente ad essere interpretati come un obbligatorio programma di governo. Non è un’idea nuova peraltro: già mezzo secolo fa un autorevole costituente comunista, Renzo Laconi, affermava testualmente che la Carta costituiva «un vero e proprio programma politico che impegna unitariamente tanto l’opposizione che la maggioranza» , riecheggiando le parole ancora più drastiche pronunciate da Togliatti durante i lavori della Costituente allorché aveva detto: «Tutti coloro che accettano questa Costituzione come fondamento della vita politica italiana devono essere impegnati a muoversi sulla via del rinnovamento economico e sociale». Esattamente ciò che sostiene il «libertario» Flores oggi.

Ma la domanda che tutto ciò solleva con forza è sempre la stessa: che ne è di chi per avventura non condivide tale rinnovamento? Che ne è nella Repubblica democratica di chi invece si trova ad avere un punto di vista conservatore o semplicemente moderato (cioè di una buona metà degli italiani?): è fuori della Costituzione? è un «fascista»? o che cosa? In realtà, è evidente che la concezione politico-programmatica della Carta come quella che Flores sostiene non può che essere, essa sì, ferocemente divisiva del Paese. Essa sì è eversiva alla radice dell’ordine repubblicano. Essa sì è la premessa per una sorta di guerra civile. Tale concezione, infatti, mira a null’altro che a trasferire le divergenze di opinione e di programmi tra i partiti dal terreno legittimo dello scontro politico democratico a quello della legalità costituzionale. Con ciò dunque esasperando quelle divergenze, facendone motivo di scomunica a priori dell’avversario, e riponendo le proprie speranze anziché nella sua sconfitta elettorale nella sua messa al bando per decreto.

L’odierna geremiade sulla non avvenuta attuazione degli inattuabili articoli della Costituzione serve precisamente a questo: a perpetuare l’uso della Costituzione stessa come arma della battaglia politica, travestendo ipocritamente le opzioni ideologiche di una parte nella disinteressata devozione alla legge suprema. Ed è per questo, come si capisce, che chi vuole continuare a servirsi di uno strumento così comodo non si stanca anche di sostenerne l’intangibilità in saecula saeculorum.