Meloni e la rete TIM: Botta e risposta

agosto 15, 2023


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio

il “ruolo decisivo del governo nella decisione delle scelte strategiche” attribuito al 20% della rete TIM che la Meloni ha acquistato da KKR equivale, secondo me, a “un altro anello alla catena di aziende nazionalizzate dal suo governo”.

Sul tema si è sviluppato un doppio botta e risposta con il Foglio. Alla Meloni, sostiene Cerasa, sarebbe riuscito il gioco di prestigio, far sì che lo Stato non sia sovrano pur avendo il potere di “decidere sullo stato di eccezione” e lo stesso sarebbe successo con Alitalia. E la redazione fa il titolo mettendo un paragone con Draghi, abbastanza fuori luogo e del tutto fuori dal mio testo.

Quello che è certo è che lo scherzetto costerà ai contribuenti più di 2 miliardi di €.

Su Tim e Ita, Meloni ha fatto ciò che a Draghi non è riuscito


Il Foglio, 15 agosto 2023

Al direttore.
“Se è caro, dev’essere strategico”: era la battuta che circolava tra i top manager di una grande azienda per cui ho lavorato, quando non riuscivano a trovare una spiegazione per investimenti decisi dalla proprietà e di cui si stentava a trovare la razionalità. Si adatta a pennello alla decisione del governo di acquisire la maggioranza di controllo della rete Tim, con la differenza che qui è il governo stesso a invocare questa giustificazione ai 2 miliardi che si vogliono spendere per avere il controllo della rete. D’altronde è dal 1997, quando Tim fu privatizzata, che si parla della sua presunta strategicità. Presunta, perché se ci si riferisse ai contenuti dei programmi televisivi, agli scritti dei social, ai dati delle app, e ora alle decisioni dell’intelligenza artificiale, i pericoli vengono piuttosto da governi democraticamente eletti (vedasi l’esempio della Rai); mentre se il riferimento fosse a interruzioni della rete fisica provocate da malintenzionati, italiani o stranieri, strategici sarebbero i carabinieri.

Strategica divenne poi la banda larga, per un confronto (improprio) con gli altri paesi europei: a provvedere a colmarlo sarebbe stata la costituenda Open Fiber. Largamente ne scrissi, della fantasiosa sinergia con la posa dei contatori elettrici, delle connessioni dichiarate quando in realtà il cavo terminava appeso al più vicino palo della luce, dei bandi di gara per portare la fibra anche nelle zone bianche scritti in modo che Open Fiber li vincesse con certezza. Oggi è Maurizio Gasparri a parlare di sperpero di danaro pubblico, ad attirare l’attenzione della Corte dei conti, a denunciare che “a fine 2023 le unità immobiliari collaudate sono 2.841.663 contro le 6.411.150 che si sarebbero dovute connettere”. Perché questi altri 2 miliardi? Qual è l’obbiettivo pubblico di assumere il controllo della rete di Tim? E’ promuovere la banda larga? Quando sono anni che buttiamo via soldi. E’ giocare con gli investimenti strategici? Un po’ caro come gioco. E’ chiudere con una decisione simbolicamente molto rilevante quella che tutti (gli altri) ormai considerano l’infausta stagione delle privatizzazioni? Un prezzo carissimo per piantare una bandierina.
Vivendi non è riuscita a ridurre i debiti finanziari ereditati dalla privatizzazione e ora ha dato a Kkr il diritto esclusivo per trattare l’acquisto del 100 per cento di Netco, la società che possiede il 100 per cento della rete primaria, della rete secondaria e dei cavi sottomarini di Sparkle , grazie a un’offerta non vincolante da 21 miliardi (10 di capitale e 11 di trasferimento debiti), elevabile fino a 23 nel caso di future nozze con Open Fiber (che fa capo al 60 per cento a Cdp, e al 40 per cento al fondo australiano Macquarie). Il Tesoro ha prenotato una quota fino al 20 per cento della Netco ma “i rapporti tra le parti prevedono un ruolo decisivo del governo nella definizione delle scelte strategiche”. Inoltre dall’inizio dell’estate c’è anche il fondo F2i seduto intorno al tavolo per valutare l’ingresso nella Netco con una quota fino al 10-15 per cento. All’esborso del Tesoro tra i 2 e i 2,6 miliardi si sommano quindi da 1 a 15 miliardi di danaro pubblico. Con il 35 per cento in mano italiana, l’offerta Kkr è al riparo anche dalle norme del golden power.

Ancora: Open Fiber è passata da Enel a Cdp, Tim ha Cdp tra i suoi azionisti: perché partner di Kkr stavolta è il Tesoro e non la Cassa, con F2i come junior partner? Una questione strategica che mi è sfuggita?

Il risultato netto è che Tim non solo perde la rete (alleggerendo la sua posizione finanziaria), ma perde anche la definizione delle scelte strategiche. Quel ruolo sarà del Mef in una cordata dove non c’è un solo industriale ma solo banche, grandi intenditori di tlc, di cui si ricordano i disastri in Telco quando dovevano fare la guardia a Telefónica. Quella che era una delle poche grandi aziende italiane si riduce a una rete di vendita di abbonamenti e di accessori, con un multiplo dei dipendenti di Vodafone, che pure naviga in acque difficili. Il governo cosiddetto di destra può aggiungere un altro anello alla catena di aziende nazionalizzate. Con i contribuenti che devono tirar fuori da 2 a 3 miliardi. Indubbiamente una grande operazione strategica.

La risposta di Claudio Cerasa
Il risultato dell’operazione da lei descritta indica una dinamica simile a quella che lei descrive, con lo stato che avrà più peso di prima nella rete, che ora Tim non avrà più. Non esistono effettivamente in Europa casi simili a quello italiano, di società private che perdono la propria rete a favore di una cordata partecipata dallo stato. Eppure, una volta maturata l’operazione, occorre anche dire che la stessa operazione la voleva fare anche un governo non esattamente statalista, come quello Draghi, e occorre riconoscere che anche in questa partita, dopo quella di Ita, ceduta a Lufthansa, il governo Meloni è riuscito a fare quello che a Draghi non è riuscito. Far vendere la rete di Tim, per cederla a Kkr, senza nazionalizzare la rete. E cedere Ita a Lufthansa senza nazionalizzarla. Non male in fondo, no?

Tim nazionalizzata? Non proprio, nonostante le promesse meloniane


Il Foglio, 17 agosto 2023

Al direttore.
La questione delle governance della rete è sempre stato l’ostacolo alla vendita di una sua quota: Tim la perseguiva per alleggerire la sua situazione finanziaria, ma poneva la condizione di mantenere il controllo sulle scelte strategiche.
Di questo stava discutendo il 13 agosto 2020, quando il governo Conte II entra a piedi giunti in consiglio di amministrazione di Tim che stava deliberando sull’offerta di Kkr per una quota della rete: il punto critico era la governance, che Tim voleva assolutamente mantenere.

Nel comunicato del Mef dell’11 agosto scorso viene precisato che il Tesoro sarà accanto a Kkr investendo fino al 20 per cento di Netco, ma che, a garantire gli interessi nazionali su un asset strategico, saranno i poteri diretti attribuiti a Via XX Settembre: “I termini dell’offerta dal punto di vista dei rapporti tra le parti prevedono un ruolo del governo nella definizione delle scelte che sarà DECISIVO per la definizione delle scelte strategiche”. A questo 20 per cento potrebbe aggiungersi un 10-15 per cento di F2i che dall’estate ne discute con Kkr.

Se qualcuno avesse qualche dubbio che questo significhi la nazionalizzazione di fatto di Tim, si rilegga le parole di Giorgia Meloni, che fin dal 22 dicembre 2022 aveva precisato: “Questo governo si dà l’obbiettivo duplice di avere il controllo della rete, per una questione strategica, e di lavorare per mantenere i livelli occupazionali”. Tim ha più del doppio dei dipendenti Vodafone.
Che la maggioranza delle azioni della rete non sia passata al governo è formalmente vero: che Tim abbia ceduto al governo il controllo sulla strategia della società, sarà la realtà di un’azienda di fatto nazionalizzata: nella catena di negozi potrà ancora definire piani tariffari e prezzo di vendita degli accessori. “Non male in fondo”, scrive il direttore: ma raccontiamola giusta fino in fondo.

La risposta di Claudio Cerasa
Spunto magnifico, caro Franco, come sempre. Invito però a rileggere senza polemica e con affetto quanto promesso da Meloni & co. in campagna elettorale. Punto diciotto del programma: “Potenziamento e sviluppo delle infrastrutture digitali ed estensione della banda ultralarga in tutta Italia. Tutela delle infrastrutture strategiche nazionali: garantire la proprietà pubblica delle reti sulle quali le aziende potranno offrire servizi in regime di libera concorrenza, a partire da quella delle comunicazioni. Clausola di salvaguardia dell’interesse nazionale, anche sotto l’aspetto economico, per le concessioni di infrastrutture pubbliche, quali autostrade e aeroporti. Tutela delle aziende strategiche attraverso un corretto ricorso al golden power”. Un anno fa, in effetti, Alessio Butti, responsabile innovazione di Fratelli d’Italia, disse esplicitamente che il progetto di Fratelli d’Italia era far controllare la rete unica da Cdp, dopo aver concentrato tutta la rete in Tim. In pratica: far comprare Open Fiber a Tim (azienda quotata, con un pacchetto del 90 per cento in mano ai privati) e poi far comprare Tim a Cdp. Il programma di Fratelli d’Italia sulle telecomunicazioni, come scrivemmo sul Foglio all’epoca, era dunque ispirato più che al modello “wholesale only” (che vuol dire tra l’altro l’opposto di quello che lei sostiene: divisione tra chi si occupa di rete e chi si occupa dei servizi) al modello Maduro (nazionalizzare tutto). Nei fatti oggi le cose un po’ diversamente, forse, sono andate. Ma il suo appunto è prezioso. Grazie.

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