Ipotesi controcorrente sul potere di Mediaset

gennaio 23, 2005


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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C’è una tesi che va per la maggiore: lo strapotere di Mediaset nella pubblicità televisiva è all’origine dello strapotere della televisione nel catturare una quota di pubblicità più alta che in tutti gli altri paesi europei, a danno della carta stampata. Ma è una tesi corretta? Ci sono molte ragioni per pensare che non lo sia, non perché non siano corretti i dati presentati a sostegno della tesi – in Italia Mediaset da sola assorbe circa il 65% della pubblicità televisiva nazionale e la televisione prende il 52,3% delle risorse contro una media europea del 33,6% , e per la carta stampata i numeri sono 40,6% contro il 54,4% – ma perché non sembra corretta la relazione di causalità che viene tracciata tra i due fatti.

Possiamo giudicare un’anomalia il nostro settore TV, e un’anomalia il modo in cui sono ripartite le quote pubblicitarie tra tv e stampa: ma non per questo un’anomalia è causa dell’altra.
Ci sono infatti ragioni per ritenere che questa situazione non sia effetto della struttura del sistema televisivo che offre spazi pubblicitari, ma della struttura del nostro sistema di imprese che investono in pubblicità; che essa non sia cioè effetto dell’offerta, ma della domanda di spazi pubblicitari.

I dati a sostegno della spiegazione dal lato della domanda sono largamente disponibili, eppure la teoria delle “anomalie simmetriche” ha corso quasi incontrastato. Probabilmente perché è in linea con un pre-giudizio diffuso e con interessi diversi. Il pre-giudizio sta nel costruttivismo ancora latente in molta nostra cultura economica, l’idea cioè che la direzione causale sia dal centro verso la periferia, dalle istituzioni (già, perché nel mondo dell’offerta c’è anche la RAI…) al mercato, e non viceversa, e che quindi la politica possa con successo modificare strutture di mercato. Gli interessi sono quelli dei giornali, che così possono addebitare a cause esterne la mancata crescita della loro diffusione; ma anche quelli di Mediaset, che può attribuire solo alla propria abilità il proprio successo. Sono quelli della sinistra, che vi trova dimostrato come il conflitto di interessi finisca per minacciare il ruolo della stampa nella vita democratica; e quelli della destra che vi trova ragioni per attribuire alla sinistra intenzioni ostili alla proprietà e all’iniziativa privata.

Il primo sospetto che quello delle “analogie simmetriche” sia solo un’elegante argomento retorico nasce dalla difficoltà di spiegare i meccanismi attraverso i quali la televisione in generale e Mediaset in particolare riescono a catturare tanta più pubblicità. Attraverso il dumping? Non si direbbe, i prezzi in Italia sono di poco inferiori a Francia e Germania, molto maggiori della Spagna e molto inferiori al Regno Unito. Il prezzo per contatto adulto di 30″, fatta 100 la media dei maggiori Paesi europei, vede: Spagna 55, Italia 83, Francia 97, Germania 107 e UK 158 dove però bisognerebbe scontare un effetto cambio. E poi sarebbe la prima volta che un market leader fa prezzi bassi.
Taluni sostengono che il market leader farebbe prezzi bassi perché, rispetto agli altri operatori in Europa, godrebbe di limiti di affollamento più permissivi, che permetterebbero un’offerta inflazionata di spazi e, conseguentemente, un maggior consumo di pubblicità televisiva. Ma l’affollamento orario per gli spot è del 18% in Italia contro il 20% in Spagna e Germania, e anche lì televendite e telepromozioni non sono conteggiate nell’affollamento orario, ma solo nell’affollamento giornaliero, pari lì come da noi al 20% (15% per gli spot, 5% per le telepromozioni).
Il market leader perseguirebbe una politica di prezzi che discrimina i grandi investitori a danno dei minori, reinvestendo extraprofitti estratti dai primi per conquistare, con offerte sottocosto, chi altrimenti andrebbe verso la carta stampata? Questo i dati di mercato non lo possono dare, per scoprirlo ci andrebbero i poteri di indagine di un’autorità: sarebbe una politica al limite della legalità e sta di fatto che l’Antitrust, nella sua recente relazione, non l’ha menzionata.
C’è da aggiungere un’osservazione: se quello della televisione è un mercato oligopolistico, è meno efficiente, consente extraprofitti (cosa che sarebbe coerente con l’eccezionale redditività di Mediaset): e questo dovrebbe andare a tutto vantaggio del settore della carta stampata, la cui offerta diventerebbe più competitiva rispetto alla tv. Le due anomalie invece che spiegarsi, si contraddicono a vicenda.

Di fronte a queste aporie logiche, ci si deve chiedere se ad essere sbagliato non sia il presupposto, e se per trovare la causa della diversità delle scelte degli investitori pubblicitari non si debba guardare proprio agli operatori, alla loro tipologia, ai loro interessi: in una parola, alla domanda.
Il mercato della domanda di inserzioni pubblicitarie mostra differenze quantitative e qualitative tra Italia e resto d’Europa. In Italia ci sono, anche al netto della piccola pubblicità, molti meno investitori: 16.000, contro i 35.000 della Francia, i 26.000 della Germania e i 41.000 della Spagna. Ma ciascuno di loro investe in media 450.000 € l’anno, un valore analogo a quello tedesco e superiore a quello europeo: dunque gli investitori che mancano sono quelli piccoli e medi, cioè proprio quelli che tipicamente fanno pubblicità sui giornali.
Inoltre i grandi investitori italiani e quelli degli altri paesi europei operano in settori merceologici diversi. Il settore alimentare conta in Italia per il 22,4% del totale investimenti pubblicitari , per il 12,3%,nel resto d’Europa; l’abbigliamento in Italia per l’8% contro il 2,2%. Invece il settore della distribuzione conta per il 2,9% in Italia, il valore più basso in un’Europa che registra un 8,9%. Quello della finanza, in Italia il 3,1% contro un 5,8% in Europa (e un 7,7% in UK!).
Differenze che hanno spiegazioni evidenti: per l’abbigliamento, l’importanza del settore in Italia. Le aziende alimentari investono molto in Italia per far prevalere il potere dei loro marchi rispetto al potere di mercato dei distributori meno forti in Italia che nel resto d’Europa; i distributori italiani, conseguentemente, investono poco in assoluto, e poco anche nella stampa quotidiana, preferita altrove perché consente flessibilità territoriale e di contenuto ( aggiornamenti di prezzi e di offerta istantanei e mirati). La clamorosa differenza negli investimenti da parte del settore finanziario riflette la bassa concorrenza reale tra le banche, dato che l’aumento del numero degli sportelli avvenuto in questi anni da noi non ha dato luogo a campagne per strapparsi i clienti con condizioni migliori, ma a un’espansione basata sulla mera fedeltà territoriale.

Certo che la struttura del nostro settore televisivo ha caratteristiche anomale: la concentrazione di potere politico e potere mediatico, la presenza di una televisione generalista pubblica finanziata dal canone. Ma la pubblicità è uno strumento oggetto delle libere scelte degli operatori. Guardare dal lato della domanda obbliga la politica a mettere in primo piano il mondo delle imprese e a valutare gli interventi legislativi per gli effetti che possono avere sui loro conti economici. Ad esempio, provvedimenti che riducessero l’offerta di spazi televisivi toccherebbero probabilmente più i conti economici dei clienti di pubblicità che quelli dei fornitori. Individua un inaspettato rapporto tra la diffusione della stampa e il basso livello di concorrenza nei settori del credito e della distribuzione. Soprattutto induce a guardare con attenzione senza pregiudizi quanto di nuovo sta accadendo nel mercato televisivo: il digitale terrestre, la diffusione del satellite, la battaglia per i contenuti. Sono questi i fatti che modificheranno i rapporti di potere tra i vari operatori, e tra fornitori ed acquirenti di pubblicità.

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