Il conflitto d’interessi? E’ un’epidemia

luglio 8, 2003


lastampa-logo
Il nuovo saggio di Guido Rossi

Un filo sottile ma tenace unisce tra loro le due ultime fatiche del professor Guido Rossi. Il precedente saggio sul Ratto delle Sabine poteva sembrare un colto divertissement, rispetto al grido di dolore che ” Il conflitto epidemico” (Adelphi) alza oggi sul male oscuro che mina l’economia mondiale, il conflitto di interessi. Eppure, non è così: perché l’auri sacra fames, che nella sua precedente opera poneva in testa al capitoletto finale su Tarpea che per avidità tradisce, e l’esaltazione che là faceva della diligenza del pater familias, sono le pietre angolari anche del suo ultimo lavoro.

“Radice di tutti i mali è l’avidità del denaro”: con questa sconsolata citazione di Martin Lutero si chiude l’analisi del conflitto di interessi; e la visione di un ordinamento che tuteli “i diritti diffusi degli interessi più deboli” é quella che ha spinto ilo professor Rossi per una vita a ispirare leggi e riforme -e più spesso a criticare quelle da cui ha dissentito. Oggi quella visione gli appare sconfitta da fenomeni “inesorabili nel dissolvere nel nulla tutti i meccanismi di autoregolazione, i valori correnti, persino le istituzioni che avevano sin qui reso possibile il controllo del sistema”.

Resterebbe deluso chi cercasse taglienti giudizi sul conflitto di interessi italiano per antonomasia. Qui il conflitto di interessi viene posto al centro della natura stessa del capitalismo dei nostri giorni. E’ giustificato tanto pessimismo? Vediamo. Oggi, dice Guido Rossi, il conflitto d’interessi opera una vera e propria “rottura con la storia del capitalismo recente…nelle crisi precedenti aveva intaccato soltanto l’attività di qualche protagonista del mercato…oggi simili comportamenti caratterizzano tutti gli attori dei nostri mercati”. Ma – viene da obbiettargli – da sempre i conflitti di interessi sono nell’interrelazione degli attori del mercato e dei milioni di loro quotidiane decisioni; anzi l’asimmetria informativa, pur con tutti i limiti che gli scandali hanno messo in evidenza, é attenuata rispetto al passato.
Per Rossi é quando il capitalismo, da industriale e commerciale, diventa finanziario, che il conflitto di interessi, come un virus latente, da endemico diventa epidemico: “situati al centro del sistema, i mercati finanziari [...] si comportano in modo imprevedibile, sottraendosi a qualsiasi controllo”. La finanziarizzazione è per lui ciò che accresce la sperequazione di reddito all’interno dei paesi, e che, attraverso i “derivati”, vera “bomba di distruzione finanziaria di massa”, ottiene l’effetto di cancellare “la percezione della differenza tra interesse individuale e interesse collettivo”.
Anche qui l’obbiezione é nei fatti. Le bolle speculative sono sempre di natura finanziaria, da quella dei tulipani del 1636, a quella della Banque Générale e dello “schema del Mississippi” di John Law. E quanto al fatto che il profitto vada inevitabilmente a danno dei salari, basta ricordare Henry Ford, che 80 anni fa mostrava come nel mercato profitti crescenti si realizzino anche attraverso salari crescenti. La finanziarizzazione coglie solo un aspetto parziale di quella complessa trasformazione dell’economia di mercato che va sotto il nome di globalizzazione, fonte di crescita e di emancipazione per centinaia di milioni di umani (si veda “Globalizzazione e sviluppo” di Federico Bonaglia e Andrea Goldstein, Il Mulino). Torna alla mente il von Hayek di “Legge, legislazione e libertà”: “quando si esaminano le ragioni che i giuristi hanno regolarmente dato per i grandi mutamenti nel diritto dell’economia [...] quasi senza eccezione essi basano le loro argomentazioni sulla fable convenue che la libera impresa opera a svantaggio dei lavoratori manuali, e assumono che il primo capitalismo o il nuovo liberalismo abbia condotto e conduca a un declino della classe lavoratrice e all’affermazione della legge del più forte. Questa leggenda, sebbene del tutto falsa, è parte del folkore del nostro tempo”.

E qui lo scontro non potrebbe essere più radicale. Rossi imputa proprio alle tesi liberali del diritto societario di aver aperto quelle “smagliature” nel diritto che ne hanno alla fine “realizzato e mascherato l’impotenza”. Dai neoistituzionalisti alla Ronald Coase, alla scuola Law and Economics, ai contrattualisti, ai teorici dei codici di autoregolamentazione: nessuno si salva dalla furia polemica pessimista di Rossi. In questa cavalcata, egli scrive naturalmente capitoli da par suo. Quello sull’inefficacia del possibile ripristino delle sanzioni penali, sarebbe di buona lettura a tanti enragés. Quelle sulle contraddizioni cui va incontro con l’esportazione di legislazioni “forti” come quella statunitense, o con schemi di governance affidati ad autorità indipendenti transnazionali, sono le pennellate di chi in poche pagine semina pillole di futuro. Ma resta il contrasto sulla tesi di fondo. Dopo aver preso di petto ciò che il pensiero liberale ha prodotto negli ultimi 50 anni – compresa la globalizzazione e le aperture dei mercati – a Rossi non resta che rifugiarsi in un “virtuismo” individuale, non più codificabile né in leggi né in contratti.

E’ qui, in questa conclusione, che si trova il riferimento vero alla attuale realtà politica italiana. Perché questa é la stessa matrice culturale che porta alcuni, a sinistra, a teorizzare la necessità di preservare con mezzi e iniziative eccezionali il diritto quando – a loro detta – la legge non più lo difende. Così il lavoro di Rossi è stato accostato alla denuncia di Gustavo Zagrebelsky ( Antigone e l’alba della Legge): “Avventurieri del potere [...] hanno preteso legittimità per le loro azioni alla stregua di leggi fatte da loro stessi per mezzo del controllo totale del potere e delle condizioni della produzione legislativa”. Aldilà della denuncia, resta il problema di indicare una soluzione. E se si rifiuta che questa stia proprio nel lasciare confliggere gli interessi, nell’inseguire con modi via via più sofisticati le nuove forme in cui si presenta l’asimmetria informativa, non resta, ultima trincea di resistenza, che il giudizio di una ristretta cerchia di autoproclamatisi “depositari della virtù”. In una “cultura della vergogna e dell’ostracismo”, a colpire chi sgarra, non sarà più la sanzione di una norma ormai svuotata, ma il bando di chi detiene la virtù.

Ma la virtù contrapposta agli interessi non ha mai portato molto bene alla sinistra. Nell’autunno 1792, Saint Just era ancora d’accordo coi ministri girondini che “la libertà del commercio è la madre di ogni abbondanza”. Il 2 dicembre, Robespierre virò. Per non perdere la guida delle sezioni parigine, Robespierre si pose alla testa degli enragés chiedendosi “in nome della virtù perché le leggi non fermano la mano del monopolista come quella di un volgare assassino?”. Un anno e mezzo dopo vennero i prezzi controllati, gli scrutins épuratoires sugli illeciti arricchimenti, le redistribuzioni ai poveri delle confische dei profittatori. I girondini liberisti erano ghigliottinati, ma Danton pure. Robespierre e Saint Just dovettero ghigliottinare anche gli enragés, ma ciò non li salvò poi dalla lama del Termidoro. Se il criterio è la virtù, c’è sempre qualcuno più virtuoso che ti epura. Duecento anni di insuccessi dell’estremismo virtuista dovrebbero convincere menti fini che a predicare “epidemici conflitti” li si eccita, talvolta, e la parola passa dai saggi ai violenti. Se oggi non c’è più rischio di violenti che taglino la testa a riformatori liberisti, di spazio per violenti della parola che a sinistra, in giornali e movimenti, si dedicano alla pratica dell’ostracismo ce n’è sin troppo.

Per coloro ai quali non piace la realtà com’è, non c’è però solo la ridotta virtuista e luterana di Rossi. C’è una strada per tutelare gli interessi deboli, per aprire il mercato del controllo proprietario, per accrescere la trasparenza delle società, per spezzare le intese tra manager e controllanti: soprattutto, per strappare il velo che copre il ruolo esercitato in tutto questo dalle nostre banche. Si tratta di non dimenticare che ogni obiettivo si può raggiungere solo a patto di mettere in campo uno strumento specifico e adeguato: è impossibile chiedere che da misure sul rispetto degli obblighi di trasparenza si deducano conseguenze nella redistribuzione del reddito. Soprattutto, in un Paese come il nostro, non c’è da bandire il meglio che la teoria liberale ha messo in campo come possibile rimedio al conflitto d’interessi, ma invece da battersi per introdurlo in concreto nella vita italiana. Altrimenti si finisce per citare, come unica grande crisi nostrana a fianco dei grandi scandali Tyco, Enron e compagnia, la Fiat, facendo dunque anche di quella una figlia “dell’avidità di danaro”, dell’auri sacra fames. Magari fosse il prodotto di profitti in eccesso! vien voglia di obbiettare. Invece, essa descrive un Paese dove le coalizioni a non decidere sono da sempre più forti, anche di quelle a raggirare.
E dove la risposta da dare, per una sinistra riformista, è mercato mercato mercato.

Invia questo articolo:
  • email
  • LinkedIn



Stampa questo articolo: