→ Iscriviti

Archivio per il Tag »Libri«

→  febbraio 28, 2023


Franco Debenedetti a proposito di “Radicalità” di Carlo De Benedetti: sì, c’è bisogno di scelte decise, ma si deve anche rimettere l’istruzione in testa a un programma di riforme. Con la giusta fiducia nell’Italia e negli italiani

Anticipandomi l’invio del suo ultimo libro, mio fratello tenne a premunirsi, avvertendomi che non sarei stato d’accordo con quanto aveva scritto. Ma è lui a ricordare che in famiglia ero noto come un bastian contrario: e quindi proprio qui lo smentisco. Condivido infatti, prima di tutto, il titolo: in quel “radicalità”, rosso al centro della copertina, riconosco il suo carattere e concordo che sia l’approccio necessario per attuare ciò di cui ha bisogno questo paese. Senza dover andare fino a pagina 103 per trovare “non credo, sotto alcuna forma, alle imprese di stato e non possono essere i governi a presidiare l’innovazione”, frase che ovviamente condivido in toto. Non sono d’accordo invece su quello che non ha scritto, cioè mettere la scuola in testa al programma di riforme. Che i risultati del nostro sistema educativo, confrontati a quelli di altri stati, siano imbarazzanti, è noto; noto che la scuola è il più sicuro strumento per favorire la crescita, e con quella abbattere un po’ per volta il nostro 156 per cento di debito in rapporto al pil. e per attivare l’ascensore sociale. Ma la nostra scuola, renitente a giudicare, rifiuta di essere giudicata: hanno messo la parola “merito” nel nome del dicastero della Pubblica istruzione, ma per superare le reazioni degli insegnanti e dei loro sindacati al solo nominare la prospettiva di introdurre criteri di valutazione del merito, sarà necessario mobilitare tutta la radicalità disponibile.

leggi il resto ›

→  maggio 3, 2021


Presentazione del nuovo libro di Franco Debenedetti “Fare profitti. Etica dell’impresa”, che si è tenuta mercoledì 28 aprile alle ore 18:00 in collaborazione con Luiss Guido Carli.

Sono intervenuti con l’autore, Enrico Giovannini, Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Veronica De Romanis, Docente Politica Economica Europea, Stanford University di Firenze e Università Luiss Guido Carli, Marcello Messori, Professore di Economia, Università Luiss Guido Carli, Giovanni Orsina, Direttore Luiss School of Government, Paola Severino, Vice Presidente Università Luiss Guido Carli.

→  aprile 27, 2021


Dott. Franco Debenedetti, Lei è autore del libro Fare profitti. Etica dell’impresa edito da Marsilio: quali responsabilità hanno le imprese per i grandi problemi sistemici della nostra epoca?
Le imprese hanno una responsabilità che sovrasta tutte le altre. quella di fare ricchezza: è il compito che assegna loro la società, se non lo fanno loro, chi d’altro lo fa? Questo vale anche per i Paesi a cui arrivavano o argento dalle colonie, come fu la Spagna, o che estraggono il petrolio dal loro sottosuolo: consumano ricchezza, non la creano.
Nel farlo le imprese impiegano ricchezze finanziarie, risorse umane, consumano beni comuni. Sono quindi corresponsabili dei grandi problemi sistemici della nostra epoca, come lo sono tutti, dagli Stati alle persone.

Con differenze sostanziali. Gli Stati non dànno nessun contributo attivo alla soluzione, possono solo fissare obbiettivi, e sanzionare chi non li rispetta. Le famiglie possono contribuire modificando i propri consumi e le proprie abitudini individuali. Le imprese sono le sole che possono dare un contributo attivo e significativo: chi se no?

Quali sfide pongono alle imprese crisi ambientale e pandemia?
Come le imprese hanno la responsabilità di creare ricchezza, così compito dello Stato è garantire le condizioni perché possano farlo: fare leggi ed amministrare la giustizia perché il mercato sia libero e concorrenziale. Sono le condizioni necessarie per produrre innovazioni. Queste aumentano la produttività, che è la chiave della “Ricchezza delle Nazioni” come aveva già capito il padre della moderna teoria economica, Adam Smith. E rispondono alle sfide, come lei le chiama. Per quelle ambientali, per trovare fonti di energia non inquinanti e rinnovabili, per produrre i mezzi che le usino, per ricatturare parte del CO2 che è stato prodotto nei secoli passati. Quanto alla pandemia le imprese rispondono producendo oggetti che riducono la probabilità di infettarsi, proponendo servizi che consentano di individuare e di isolare chi potrebbe portare il contagio, sviluppando i vaccini per immunizzare la popolazione. Mi sembra che abbiano dimostrato di saperlo fare: non altrettanto si può dire della capacità degli Stati di usarli e di dispiegarli.

In cosa consiste un’etica per le imprese?
Come dice il titolo del mio libro, nel “Fare Profitti”, e come precisa il testo usando le parole di Milton Friedman, impegnandosi in concorrenza corretta, senza frodi, e rispettando le leggi, quelle scritte e quelle incorporate nei costumi etici.

Quale ruolo dunque per le imprese nella società?
Ripeto, producendo ricchezza e risolvendo i problemi man mano che essi si presentano. Ho risposto per quello che riguarda i due problemi che ci sovrastano, il cambiamento climatico e la pandemia. Per entrambi non ci sono solo le mosse difensive, inquinare di meno e vaccinarsi, ma anche quelle in positivo: penso al lavoro in remoto, che consente di risparmiare tempo, di inquinare di meno; ma anche alle possibilità di confrontare caratteristiche e prezzi di oggetti che possiamo comperare senza muoverci da casa. In entrambi i casi, non sostituendo integralmente, ma integrandosi con i metodi tradizionali di studiare, lavorare, acquistare.

Quali rischi per la democrazia nel monopolio dei giganti del Web?
Le imprese del web sono un pericolo quando sono possedute dai governi di Paesi dove non c’è democrazia. In quel caso forniscono i mezzi per sorvegliare i cittadini e per punire quelli che, potrebbero rappresentare un pericolo al potere. I giganti del web si sono conquistate posizioni di mercato molto importanti, ma sono in concorrenza tra di loro, anche da prima che fossero minacciate dalla Cina. Condivido tuttavia l’opinione di chi avrebbe preferito che non venisse concesso a Facebook di comperare Instagram: però capisco che i contatti di Facebook trovino molto comodo potersi scambiare fotografie senza bisogno di passare su un’alta piattaforma.

Certo, c’è il problema delle fake news e degli hate speach. Gli OTT continuano a fare investimenti in intelligenze, umane e artificiali, per riconoscerli e rimuoverli, mossi dalla paura del danno reputazionale che potrebbe derivargliene. Non c’è nessuna ragione che lo Stato potrebbe fare meglio, mentre sono evidenti i pericoli di avere Stati padroni della verità e col potere di censurare le opinioni. Guardiamo solo quanto è difficile giudicare le responsabilità per l’assalto al congresso che stava assegnando la vittoria a Joe Biden: e questo in una democrazia come quella americana.

In che modo il successo delle imprese può tradursi in benessere collettivo?
Intanto non è sempre chiaro e univoco in che cosa consista il benessere collettivo. È evidente che nella fornitura di servizi pubblici è meglio se lo Stato fissa le regole e controlla il privato che ha battuto i concorrenti nella gara per aggiudicarsene la fornitura per un tempo definito. Ma la stragrande maggioranza degli italiani ha votato NO al referendum per la possibilità di assegnare ai privati la fornitura di acqua potabile, e a Roma i cittadini hanno preferito che gli autobus continuassero ad esser gestiti dall’ATAC, non certo un modello di efficienza. Un’amministrazione pubblica viene votata in base a un insieme di giudizi: alcuni relativi ai servizi che usano (l’asilo per i bambini o le buche per le strade?) altre relative alle preferenze politiche. Le imprese ogni giorno rischiano la loro reputazione: rovinarla può equivalere a perdere l’azienda. Lo rischiò la Nike quando si venne a sapere che i palloni con cui giocavano i ragazzi americani erano cuciti da loro coetanei in Bangladesh, mantenuti in condizioni di semi-schiavitù. Il giudizio sulle capacità matematiche delle donne è costato il posto al preside di Harward; un’impresa accusata di discriminare per genere, colore della pelle, preferenze sessuali rischia il boycottaggio. Il politically correct arriva agli assurdi della cancel culture.

Benessere collettivo può anche essere la somma di interessi individuali, quelli che derivano dal sapere che i propri risparmi sono investiti in, e i relativi dividendi distribuiti da aziende che non praticano attività giudicate immorali, per alcuni vendere armi, per altri diffondere mezzi anticoncezionali, all’epoca della guerra del Vietnam produrre il defoliante Agent Orange. Anche così il successo, cioè i profitti delle imprese, si traducono in benessere collettivo.

→  aprile 13, 2021


Il viaggiatore che, sceso dall’aereo a Londra di prima mattina mercoledì 18 settembre 2019, avesse preso la sua copia del «Financial Times», avrebbe strabuzzato gli occhi: su una copertina giallo canarino, a caratteri cubitali, come il famoso “Fate presto” del «Sole 24 Ore”, solo un titolo: “Capitalism. Time for a reset”. Reset si traduce con ripristinare o con azzerare: per ripristinare il capitalismo, sostiene l’editoriale all’interno, bisogna azzerare la dottrina dello shareholder value e adottare i princìpi dello stakeholderism e degli investimenti Esg (Environmental, social and governance). È un esplicito cambio di paradigma di governo societario: rinnega il principio reso popolare da Milton Friedman, per cui una e una sola è la responsabilità sociale dell’impresa: fare quanti più profitti possibile, purché «nel rispetto delle regole fondamentali della società, sia quelle incorporate nelle sue leggi, sia quelle dettate dai suoi costumi etici».

leggi il resto ›

→  marzo 15, 2021


Intervista di Matteo Martinasso

La ripresa della crescita dipenderà dall’aumento della produttività, ma per il rilancio c’è molto da correggere

Che ruolo hanno davvero le imprese nella società? Perseguire gli utili in un mondo sconvolto da crisi ambientali e pandemie è immorale o, al contrario, è proprio questa l’unica loro vera responsabilità? Prova a dare una risposta l’ingegner Franco Debenedetti che nel suo ultimo libro Fare profitti (edizioni Marsilio) guida i lettori attraverso un’analisi dell’etica dell’impresa. «L’impresa è l’unità base dell’economia capitalistica, potremmo dire il suo “mattoncino di lego”. Ad essa viene assegnata la responsabilità di creare ricchezza, producendo beni e servizi che la società vuole comprare a un prezzo superiore a quello degli imput necessari a produrli», spiega Debenedetti. «Questo surplus è il profitto, e i profitti di tutte le imprese formano la ricchezza della nazione. La pandemia distrugge ricchezza quindi a maggior ragione è necessario che le imprese che possono farlo lavorino e producano profitti, perché quelle che non ci riescono chiudono e chi vi lavorava al suo interno perde il proprio lavoro».

leggi il resto ›

→  marzo 11, 2021


di Alessandro De Nicola

«The business of business is business » , con questa frase icastica il Nobel Milton Friedman riassunse la missione delle imprese: fare affari, punto e basta. Il libro Fare profitti. Etica dell’impresa di Franco Debenedetti, imprenditore, parlamentare per tre legislature e oggi presidente dell’Istituto Bruno Leoni, prende le mosse proprio dal famoso saggio di Friedman, pubblicato circa 50 anni fa il cui titolo era Le responsabilità sociale delle aziende consiste nel far crescere i profitti.

Debenedetti ricorda che i fautori della dottrina della Corporate Social Responsability sostengono che scopo dell’impresa sia di perseguire anche fini sociali, tal che i manager dovrebbe contemperare l’interesse degli azionisti (espresso dalla locuzione shareholder value) con quello di chi si trova in rapporto con la società, i cosiddetti stakeholders, ossia i dipendenti, i clienti, i fornitori, le comunità locali, la cittadinanza che ha diritto a un ambiente pulito, e così via.

Friedman replicò che il dovere dell’impresa era di produrre ricchezza e quindi profitti, “nel rispetto delle regole fondamentali della società, sia incorporate nelle sue leggi, sia dettate dai suoi costumi etici”. Rispettare le regole del gioco voleva altresì dire “entrare in concorrenza aperta e libera con gli altri soggetti presenti sul mercato, senza inganni o frodi”. Per l’economista fare diversamente avrebbe messo in condizione i manager di “tassare” i soci per perseguire le cause sociali preferite le cause sociali preferite o peggio quelle che avrebbero solo accresciuto il loro ego. Anzi, dovendo accontentare molti padroni e molte finalità, l’amministratore di società avrebbe sempre potuto dire che si era trovato costretto a sacrificare un obiettivo (lo shareholder value) per perseguirne un altro (il reddito del fornitore, la diversity, l’inclusione, il clima). In poche parole, non avrebbe più risposto a nessuno pur agendo con soldi altrui.

Inoltre, gli azionisti di una società sono portatori “residuali” di diritti, vale a dire sono soddisfatti solo dopo tutti gli altri stakeholder. Come nota Debenedetti, ai clienti (e ai fornitori) ci pensa la concorrenza (e i contratti); delle esternalità (l’inquinamento, la più importante) si occupano le norme e la regolazione; dei dipendenti si curano i sindacati e gli accordi individuali o collettivi. È per questo che gli amministratori hanno i cosiddetti “doveri fiduciari” nei confronti dei soci i quali, peraltro, sono coloro i quali li nominano.

Il libro passa in rassegna le critiche nel corso del tempo indirizzate a Friedman, ma alla fine non le trova convincenti. La giurista Lynn Stout, ad esempio, nega l’assunto che gli azionisti siano i proprietari della società e che quindi gli amministratori debbano curarne prioritariamente gli interessi. Ammesso che sia vero, l’obiezione è semplicissima: come si pensa di convincere gli investitori a metter soldi nelle imprese se ex ante sanno che la protezione dell’investimento non è prioritaria? Zingales, poi, riconosce la validità dello shareholer value di Friedman, ma in un contesto in cui non ci siano monopoli e le imprese non si diano a pratiche lobbystiche e quindi propone di instaurare dovrei fiduciari aggiuntivi per gli amministratori, rendendoli responsabili personalmente se l’impresa inquina, influenza i legislatori o abusa del potere di monopolio. Tuttavia, regole simili già esistono e, d’altronde, una necessariamente vaga “proibizione” alle imprese di “influenzare il processo legislativo” pone seri problemi di costituzionalità (per la corruzione c’è già il codice penale).

Il volume di Debenedetti ragiona sul come evitare che in nome di una piuttosto fumosa responsabilità sociale si creino commistioni inutili o dannose. Significative, a questo proposito, le pagine di critica all’intervento delle Banche Centrali nelle questioni climatiche. Il surriscaldamento terrestre è la sfida più importante dell’umanità e le imprese possono influenzare un percorso positivo, ma con che mandato e competenza lo farebbero le Banche Centrali? In conclusione, in questo saggio, in cui la teoria si intreccia all’attualità, domina preponderante il proverbio milanese “Ofelè fa el to mesté!”. Pasticciere, fa il tuo mestiere: se persino un torinese doc lo adotta, un motivo ci sarà.