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→  febbraio 1, 2021


di Giuseppe Colombo

Nel saggio “Fare profitti” di Franco Debenedetti un’analisi sugli utili come ascensore sociale. E sui danni dello statalismo Covid

Se pensate che i buoni per eccellenza (leggere Papa Francesco) e i buoni del momento (il riferimento è al neo presidente degli Stati Uniti Joe Biden) possano salvarsi dalla penna arguta di Franco Debenedetti, allora siete costretti a premere il tasto “reset” prima di leggere il suo ultimo lavoro. Perché il saggio “Fare profitti. Etica dell’impresa” (Marsilio, pp.320) ha un’idea precisa e questa idea – il capitalismo è il capitalismo e le aziende devono fare profitti, sempre e comunque – viene portata avanti dall’inizio alla fine. E per arrivare al capolinea, per renderla credibile e soprattutto attuale oggi che la pandemia ha innalzato lo Stato imprenditore e guida a totem, compie una doppia operazione.

La prima è quella di ricordare le sbandate di chi capitalista lo è stato sempre, direttamente o indirettamente, per convinzione o anche solo per tradizione e status. Vacillare può capitare un po’ a tutti e allora meglio ricalibrare le origini e gli sforzi fatti per tornare a sostenere che l’azienda nasce per fare profitti. L’obiettivo, insomma, è rimpossessarsi di un dna che è venuto a mancare anche solo per un po’. La seconda operazione è quella di tirare giù dalla torre chi avversa il capitalismo con teorie e ragionamenti che secondo Debenedetti sfociano nel populismo piuttosto che nell’ambientalismo di facciata. Insomma gli avversari del capitalismo che sanno spiegare bene perché il capitalismo è il male assoluto e che però non riescono a rendere totalmente credibile uno scenario alternativo.

Il saggio non è un manuale di economia, ma un compendio di personaggi, date e situazioni capaci di entrare dentro alla prima e più delicata questione che il capitalismo genera, da secoli e ancora oggi. E se cioè l’azienda che pensa a incassare, senza farsi travolgere dai fattori esterni, in primis dalla politica, è un mostro a tre teste senza pietà o invece questa modalità è anche la sua essenza, la sua unica responsabilità. Debenedetti è un convinto sostenitore della prima opzione. Di fronte all’emergenza Covid, ma anche a quella ambientale, è immorale perseguire gli utili? “Cambiare tutto, modificare le regole di un capitalismo che ha mantenuto le sue promesse, fare profitti e creare ricchezza per tutti?”, si chiede l’autore. La risposta: “No, certo. Ci sono altri sistemi per aumentare i salari minimi, per ridurre le emissioni, per modificare il finanziamento della politica: la certezza della legge e le iniziative delle democrazie”.

Non è un caso se il saggio inizia con una citazione tratta da un articolo pubblicato dal premio Nobel Milton Friedman sul New York Magazine nel 1970. Eccola la citazione: “La responsabilità sociale delle aziende consiste nell’accrescere i profitti”. Cinquant’anni dopo inizia il viaggio di Debenedetti. E arriva fino ad oggi. Fare profitti nella pandemia? Assolutamente sì. “Proprio nella pandemia – scrive Debenedetti – è necessario che l’impresa usi le sue risorse e si impegni in attività per fare profitti; nella pandemia mostra la sua straordinaria capacità di innovare, per scoprire come combatterla con i vaccini, come renderla tollerabile con le comunicazioni, come modificarsi per le nuove esigenze”. Si innesta qui la critica all’interventismo di Stato che fagocita l’iniziativa privata e che invece di facilitare la riallocazione delle risorse rende il sistema più rigido. Un’impronta così pervasiva da mettere a rischio la più importante delle sfide che l’Italia ha di fronte: spendere bene e in tempo i soldi del Recovery Fund. Debenedetti avverte: si balla tra un’occasione sprecata e un ritrovarsi rinchiusi nel labirinto della burocrazia di Stato che si fa è fatta sempre più dirigismo.

Ma per resistere all’ondata statalista, il capitalismo non può eludere gli stravolgimenti che Covid ha causato nella vita lavorativa. A iniziare dallo smart working. Passa anche da qui – è un altro passaggio significativo del saggio – l’organizzazione, meglio la riorganizzazione capitalistica del lavoro. Ma i principi a cui guardare – dall’innovazione alla concorrenza – sono gli stessi che hanno determinato il successo della società per azioni fin dai tempi della Venezia medievale e della patente reale di Caboto nell’Inghilterra del Cinquecento. Se l’articolo di Friedman vale ancora dopo 50 anni una ragione ci sarà. Il capitalismo non è il nemico. Neppure durante la pandemia.

→  gennaio 22, 2021


di Massimiliano Panarari

Gli attacchi radicali al capitalismo – dice Franco Debenedetti – sono ciclici come le sue crisi. E oggi circolano in stile “contenuti virali”.
L’imprenditore e saggista, che dell’elogio dell’economia del mercato ha fatto una ragione di vita, dedica quindi questo libro alla difesa delle imprese finanziarie. E lo fa prendendo ile mosse da uno dei “manifesti” intellettuali di quello che sarebbe diventato neoliberismo. Ovvero il famoso articolo di Milton Friedman, uscito nel 1970 sul New York Times Magazine, nel quale asseriva “l’unica vera responsabilità delle imprese è fare profitti”.

La spinta propulsiva della “società per azioni” come motore di innovazione, cui si devono alcuni momenti centrali di quella cosa che chiamiamo modernità, rimane intatta. Così, l’autore analizza le mutazioni del modello capitalistico e dell’impresa all’indomani della rivoluzione digitale, e nel contesto globalizzato ridefinito dall’economia immateriale. Mostrando come le problematiche di questa fase – dalla tendenza verso il monopolio delle corporation high-tech alle diseguaglianze – non siano “colpa” del mercato, che si fonda sulla concorrenza e l’apertura al nuovo. Ma, in democrazia, debbano essere affrontate e risolte dalla politica e dalla rule of law.

→  gennaio 22, 2021


Estratto da “Fare profitti. Etica dell’impresa”, di Franco Debenedetti, Marsilio, 2021

È tornato di moda attribuire tutti i mali del mondo alla struttura delle imprese, tanto che si invoca un cambio di paradigma e uno stravolgimento della missione aziendale. Il nuovo saggio di Franco Debenedetti, edito da Marsilio, spiega perché queste critiche sono sbagliate

Il viaggiatore che, sceso dall’aereo a Londra di prima mattina mercoledì 18 settembre 2019, avesse preso la sua copia del «Financial Times», avrebbe strabuzzato gli occhi: a racchiuderla, una copertina giallo canarino recante un solo titolo, a caratteri cubitali, come l’ormai famoso Fate presto del «Sole 24 Ore», quando lo spread era a 575: Capitalism. Time for a reset.

Reset si traduce con ripristinare o con azzerare: per «ripristinare» il capitalismo – spiega sul retro una lettera del direttore Lionel Barber – bisogna «azzerare» la dottrina dello shareholder value, secondo cui la responsabilità sociale delle imprese, in particolare di quelle che hanno la forma di società per azioni, è la massimizzazione dei profitti. Questo principio è stato punto di riferimento, soprattutto nei paesi anglosassoni, per quasi mezzo secolo.

Certo, c’erano voci di dissenso, ma ora siamo a un dichiarato cambio di paradigma, che l’edizione fuori norma del «Financial Times» rende ufficiale.

Chi, nell’Italia dell’Iri prima e della Cdp oggi, per decenni ha letto il quotidiano rosa come la bibbia del libero mercato, la voce del mercato finanziario moderno nel paese del capitalismo delle scatole cinesi e delle partecipazioni incrociate, avrebbe ben di che strabuzzare gli occhi.

L’articolo del «Financial Times» riprendeva e amplificava la dichiarazione resa un mese prima dai 181 capi delle massime aziende americane alla Business Roundtable, che portava in calce, a renderla più solennemente impegnativa, le loro 181 firme autografe.

Questa a sua volta discendeva dal manifesto, redatto da Martin Lipton su richiesta del World Economic Forum, pubblicato nel 2016 e poi nell’edizione del manifesto di Davos del 2020. Che vi affermassero l’impegno a trattar bene i dipendenti, a non discriminare per colore della pelle o per preferenze sessuali, e che la soddisfazione dei loro clienti fosse in cima ai loro pensieri, non parve una novità sconvolgente.

La novità era la sottoscrizione di un nuovo paradigma di governo societario, che adotta i principi dello stakeholderism e degli investimenti Esg (Environmental Social Governance) rinnegando il principio che aveva tenuto banco almeno dal 1970, quando la pubblicazione sul «New York Times Magazine» di un articolo di Milton Friedman aveva reso popolare la sua dottrina: una e una sola è la responsabilità sociale dell’impresa, fare quanti più profitti possibile, purché, aggiunge, «nel rispetto delle regole fondamentali della società, sia quelle incorporate nelle sue leggi, sia quelle dettate dai suoi costumi etici».

Una novità, quella del nuovo paradigma, non priva di contraddizioni. Infatti, attirando a Davos i capi delle massime aziende del mondo per catechizzarli e convertirli allo stakeholder capitalism, Klaus Schwab fa aumentare lo shareholder value del suo World Economic Forum.

E, a sua volta, se i catecumeni ivi convenuti adotteranno il nuovo verbo stakeholderista, sarà solo perché pensano che, in questo modo, o aumenterà lo shareholder value delle loro imprese, o diminuiranno i rischi a cui possono andare incontro (o semplicemente saranno più liberi dalle pretese degli shareholder). E anche la direzione del «Financial Times» deve aver pensato che attribuire alla massimizzazione dei profitti delle aziende la responsabilità delle diseguaglianze di redditi, della precarietà del lavoro, dei problemi ambientali, potesse essere il modo per conquistare nuovi lettori e inserzionisti massimizzando così i profitti. (Poi devono aver temuto di passare da bibbia del mercato a corano del socialismo e, ricordando la prima norma del marketing – non perdere i clienti che si hanno – il 7 ottobre 2019 pubblicavano un articolo a firma di Jesse Fried dal titolo inequivocabile: “Gli shareholder vengono sempre prima, ed è un bene che sia così”).

Insomma, nei club, o nei templi, del capitalismo è un susseguirsi di autodafé, comprensibili solo come riti scaramantici.

a sua «prima e principale responsabilità», come scrive Archie B. Carroll, «è di natura economica. […] l’impresa è l’unità base nella nostra società. Come tale ha la responsabilità di produrre beni e servizi che la società desidera e di venderglieli con profitto. Tutti gli altri ruoli dell’impresa sono basati su questo fondamentale assunto». La misura è lo shareholder value. Invece lo stakeholder value richiede di scegliere tra le varie constituency, in base a criteri arbitrari che sovente finiscono per essere dettati dalla politica.

Non restare in conformità ai «costumi etici», anche senza violare la legge scritta, può avere conseguenze molto gravi: un’azienda può perdere i clienti e i collaboratori più qualificati, quindi veder diminuire il suo shareholder value. C’è però anche un rovescio della medaglia: intercettare per primi il sentimento della gente, mettersi in sintonia con le loro speranze e le loro paure, può consentire di conquistare clienti e collaboratori, magari perfino di spuntare un prezzo migliore, tutto a vantaggio dello shareholder value. Perseguirlo può consentire di raggiungere obiettivi che sfuggono ai governi.

È il caso del cambiamento climatico e della decarbonizzazione dell’economia. La Tesla nel 2019 rischiava di fallire, un anno dopo la sua capitalizzazione in Borsa superava quella della Toyota: non per i suoi utili, ma perché, seguendo il principio «siliconvallico» del move fast and break things, ha trascinato l’elettrificazione delle auto, sicché oggi non c’è pubblicità di costruttore che non esibisca in prima fila i modelli elettrici.

In generale, sono le scelte degli investitori a decretare il successo delle imprese con credenziali Esg e le preferenze dei clienti quello dei prodotti sostenibili. Mentre i governi non riescono a mettersi d’accordo sul protocollo di Parigi.

Le riflessioni raccolte in questo libro nascono proprio da quella che a chi scrive sembra una contraddizione che la latitudine semantica del verbo reset consente: tra critica di quanto vada «rimesso a posto» in un paese capitalistico, o anche in tutto l’Occidente, e «azzerare» il modo di funzionare delle società per azioni.

Ci sono ragioni anche evoluzionistiche, sostiene Michael Jensen, per cui gli esseri umani devono simultaneamente esistere in due ordini, che Hayek chiama il micro e il macrocosmo. Applicare a entrambi il nome di società serve a poco ed è perlopiù fuorviante. Dobbiamo continuamente aggiustare le nostre vite, i nostri pensieri, le nostre emozioni, per vivere in diversi tipi di ordine secondo diverse regole. Bisogna considerare, oltre al sistema nel suo complesso, le strutture sottostanti, passando dalla società civile alla società per azioni, il mattoncino di Lego del capitalismo, cioè dai governi alle imprese, dalla macro alla microeconomia, dalle decisioni del regolatore ai comportamenti del regolato, dalla political economy alla corporate governance.

Il capitalismo, innanzitutto: che è sotto accusa. Non solo vengono disconosciuti i suoi più evidenti successi (Mariana Mazzucato), non solo viene condannato per il suo intrinseco modo di funzionare (Thomas Piketty): è rigged (Martin Wolf), è gone wild (John Mauldin), necessita di una cassetta degli attrezzi per ripararlo (Joseph Stiglitz), ha creato un nuovo materialismo (Greg Jaffe).

Non stupisce che accusarlo sia diventato, come si diceva una volta, un luogo comune, o come si dice oggi, nell’epoca dei social media, un contenuto virale. Quelle che si rivolgono alle grandi aziende di internet, più che accuse sono condanne in attesa di esecuzione; l’intera cultura degli algoritmi è vista con sospetto; contro robot e intelligenza artificiale si scatena il nuovo luddismo.

Eppure in poco più di un secolo la percentuale di persone che viveva in condizioni di estrema povertà è passata dall’85% al 4%; il 40% dei bambini moriva prima del quinto anno di età, oggi solo uno su 25; nel tempo della mia vita la popolazione del mondo è cresciuta più di tre volte e contemporaneamente il Pil pro capite è passato da circa 3 mila dollari a circa 15 mila.

Nel 1800 la schiavitù era legale quasi ovunque, oggi è (formalmente) illegale in tutto il mondo; le donne non votavano, oggi lo fanno ovunque si voti; infine, nel 1800 quasi nessuno viveva in una democrazia.

Per alcuni le difficoltà che incontra il capitalismo, invece che sfide da affrontare, sono segno di degenerazione: le diseguaglianze in primo luogo, che in alcune società raggiungono livelli difficili da giustificare; la dislocazione di attività, che ha interessato imprese e professionalità, soprattutto nelle industrie tradizionali; la finanziarizzazione dell’economia; una caduta del tasso di crescita della produttività. Sotto accusa è anche l’antitrust americano che, dopo la svolta di Robert Bork, ha consentito che crescessero monopoli nel paese che era stato modello di mercato concorrenziale.

La grande crisi finanziaria e le sue conseguenze hanno lasciato la sensazione che il sistema sia truccato, che ci sia una relazione diretta tra gli eccessi dei servizi finanziari e i disagi economici che i cittadini hanno dovuto sopportare.

Anche il decennio di interessi bassi che ne è seguito è andato a vantaggio della speculazione piuttosto che dei cittadini ordinari. Il modello capitalistico di produrre e di consumare – questo il verdetto – esaurisce le risorse del pianeta e lo sta distruggendo: ha creato le condizioni di un pericolo esistenziale a cui non si sa come porre rimedio. E poi la pandemia da Covid-19, ad acuire i problemi, compresa la diseguaglianza.

In passato le sirene del thatcherismo e del reaganismo avevano cantato che si sarebbe ripetuto quanto era avvenuto per le rivoluzioni tecnologiche e le globalizzazioni precedenti, che le imprese avrebbero risolto i problemi del mondo, assicurando crescita e diffondendo benessere.

Ora invece la politica si impadronisce dei problemi, ma non ce la fa a individuare le soluzioni, non riesce a redigere un programma, a riempire di contenuti le grandi questioni delle diseguaglianze, del welfare, della tecnologia.

Scaricare le colpe di tutto sul neoliberismo può andar bene per deviare le proteste e farle convergere su un costrutto retorico. Ma quanto a indicare soluzioni, il sistema è troppo complesso, sia per chi crede nella sua capacità di rispondere ai problemi, come è sempre stato finora, sia per chi vorrebbe abbatterlo, nonostante i disastri provocati da chi ci ha provato.

I governi impongono i tributi, intermediano una larga parte del prodotto, forniscono direttamente servizi essenziali; pubblica è la politica monetaria; la politica estera influenza scambi commerciali e investimenti; il potere legislativo può determinare i rapporti di concorrenza tra le aziende, i diritti generali di shareholder e stakeholder. Le società per azioni devono «entrare in concorrenza aperta e libera con gli altri soggetti presenti sul mercato, senza inganni o frodi», ma è compito dello Stato garantire la libertà dei mercati e la concorrenza sul mercato di prodotti e servizi, e la contendibilità del controllo societario.

E siccome la concorrenza è, come dice Friedrich von Hayek, un processo di scoperta, in questo modo si pongono le condizioni per la crescita dell’innovazione.

Passando ora di livello, dalla società civile alla società per azioni: per quale motivo le cose dovrebbero andar meglio se creare la ricchezza della nazione non fosse responsabilità delle società per azioni? A tutte le scale, gli esperimenti per assegnarla, quella responsabilità, allo Stato hanno dato risultati che dissuadono dal riprovarci. Anche chi ha perso (o non ha mai avuto) fiducia nel capitalismo, deve riconoscere che la società per azioni a responsabilità limitata ha avuto un ruolo da protagonista per il successo delle economie di mercato: ha convogliato il risparmio verso gli investimenti e ha favorito la crescita dei paesi dove ha avuto origine e dai quali si è diffusa nel mondo.

Che cosa supporta la convinzione che i grandi problemi sistemici – della crescita, della distribuzione della ricchezza, della formazione, del welfare, e ora della cura dell’ambiente – abbiano origine proprio nelle società per azioni e poi si aggreghino a livello delle società in senso lato?

Ci deve essere, sostengono alcuni, una causa generale e strutturale se qualcosa è andato storto, se si è verificata una distonia tra il funzionamento delle imprese e quello del mondo che esse stesse hanno costruito, e pensano che questa sia l’obiettivo che esse perseguono. Per cui vorrebbero che le imprese cambiassero la loro funzione obiettivo; basterebbe questo, dicono, perché riprendessero il compito di creare innovazione e ricchezza, in modo virtuoso.

Era già accaduto: con la grande depressione e la conseguente crisi di fiducia nel capitalismo, si guardò alle grandi imprese per continuare a diffondere in tutta l’economia il corporativismo del New Deal, legittimandolo con la teoria della Corporate Social Responsibility (Csr). Ed è proprio per rimediare alle degenerazioni che ne derivarono nei decenni successivi che Milton Friedman riportò la responsabilità sociale dell’impresa alla sua funzione: fare quanti più profitti possibile.

Shareholder e stakeholder value sono diventati simboliche astrazioni, termini sintetici di visioni politiche e sociali contrapposte, anche in modo esasperato. Ma essi hanno un significato preciso all’interno di una teoria dell’impresa a forma societaria. Il fatto che questo costrutto giuridico sia presente in tutte le economie del mondo, mantenendo un’impressionante uniformità di caratteristiche e andando incontro fondamentalmente agli stessi problemi giuridici attraverso le varianti delle giurisdizioni nazionali, testimonia che è elemento imprescindibile dell’economia di mercato.

Le imprese entrano in numerosi rapporti contrattuali, con fornitori, dipendenti, clienti, anche terze parti quali le comunità locali, i beneficiari dell’ambiente naturale.
A far sì che l’impresa possa svolgere il ruolo di coordinamento agendo come controparte unica distinta dagli individui che la possiedono e che la gestiscono, così consentendo loro di impegnarsi insieme in progetti comuni, provvede la corporate governance.

Secondo la definizione che ne dà l’Ocse, essa è «il sistema con cui le imprese sono gestite e controllate; specifica la distribuzione dei diritti e delle responsabilità tra i vari partecipanti nella società, consiglio di amministrazione, manager, azionisti e altri titolari di diritti; precisa le regole e le procedure per prendere decisioni negli affari societari; fornisce la struttura con cui vengono stabiliti gli obiettivi dell’impresa e i mezzi per raggiungere questi obiettivi e per controllare l’efficienza».

Questo sistema si è andato evolvendo e raffinando per oltre un secolo, adeguandosi al mutamento delle tecnologie e dei mercati, quelli dove si scambiano beni e servizi e quelli dove si scambiano i diritti di proprietà.

Finché, con il saldarsi dei progressi delle tecnologie informatiche a quelli delle comunicazioni, siamo entrati nell’economia digitale. Una rivoluzione, la quarta, dopo quelle delle applicazioni industriali della macchina a vapore, dell’elettrificazione, dell’automazione e, delle precedenti, più rapidamente dilagante.

Questa rivoluzione, che quelli della nostra generazione hanno visto formarsi ed espandersi fino a interessare il vivere sociale in tutti i suoi aspetti, e la politica nel senso sia di relazioni tra Stati sia del governo negli Stati, è probabilmente la più formidabile rivoluzione che l’uomo abbia mai sperimentato. (E questo è solo l’inizio, se pensiamo alle applicazioni dell’intelligenza artificiale, ai quantum computer, all’Internet of Things). Lo è per la velocità con cui si è manifestata: un paio di decenni dalle prime applicazioni di internet alla connettività universale.

Essere disruptive è la caratteristica delle imprese del digitale, deliberatamente perseguita come chiave di successo. E pervicacemente denigrata da coloro che non riescono ad adattarvisi, fino a contestarne il modello di business.

Molte delle accuse mosse alle imprese Big Tech finiscono per essere rivolte al capitalismo in generale: l’aumento delle diseguaglianze, la tendenza al monopolio, l’evasione fiscale. E non senza qualche ragione, non fosse che per motivi statistici, dato che le società del digitale capitalizzano (a metà 2020) il 24,5% dell’indice S&P 500.

Dei 181 Ceo firmatari della famosa dichiarazione della Business Roundtable, la gran parte sono, direttamente o indirettamente, «digitali».

La pandemia da coronavirus, che dal dicembre 2019 si è propagata in tutto il mondo, potrebbe divenire un termine a quo si racconta la storia, forse come lo sono state le grandi guerre, certamente come lo sono state la grande depressione del 1929 e la grande recessione del 2007. Ha sconvolto le nostre vite, le nostre attività, le nostre relazioni, i nostri affetti. Ha devastato le attività economiche di tante imprese, che di questo libro sono le protagoniste.

È da loro, da quelle che avranno superato la crisi, e da quelle che dalla crisi nasceranno, che ci aspettiamo il ritorno alla normalità e la ripresa del percorso di crescita che lo renda possibile. Perché sono le imprese che hanno la responsabilità di produrre beni e servizi che la società desidera e di venderglieli con profitto.

→  gennaio 19, 2021


Intervista a RaiNews24


RaiNews24, 17 gennaio 2021

Franco Debenedetti presenta il suo nuovo libro “Fare profitti. L’etica dell’impresa”.

Per lettura personale. Vietato divulgare


Franco Debenedetti: «Capitalismo sotto attacco ma lo Stato aiuta i perdenti»



di Francesco Specchia, 4 febbraio 2021

L’unica responsabilità per l’impresa è quella di fare profitto», scriveva il profeta del liberismo Milton Friedman sul New York Magazine, anno 1970.A quel tempo, FrancoDebenedetti era un ingegnere e manager in una media conglomerata, si apprestava a diventare amministratore delegato dell’Olivetti; ma quella frasetta l’aveva stampata in testa. Oggi, dopo una parentesi da senatore (tre legislature nel centrosinistra),da saggista e presidente dell’Istituto Bruno Leoni, mai avrebbe pensato di rievocare Friedman, rendendolo l’incipit del suo libro Fare profitti (Marsilio pp 320, euro 18) che spazia dal digitale a Papa Francesco), per trasformarsi nel templare di un mercato oggi preso d’assaltato dal Covid.

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Il capitalismo per uscire dalla crisi



di Roberto Roveda, 21 febbraio 2021

Come in ogni momento di crisi da un secolo a questa parte anche oggi, di fronte alle difficoltà economiche legate alla pandemia, il capitalismo è sotto accusa. Riemergono con più forza quelle voci ricorrenti che vorrebbero “resettarlo” e vorrebbero imporre nuove forme di responsabilità sociale per le aziende, in particolare quelle per azioni.
In direzione opposta va invece Franco Debenedetti nel suo ultimo libro dal titolo già di per sé esplicativo: Fare profitti (Marsilio, 2021, pp. 208, anche e-book). Per Debenedetti, una lunga carriera di imprenditore e di dirigente d’azienda alle spalle, il ruolo delle imprese all’interno della società non è certo quello di abbracciare la cosiddetta “decrescita felice”.

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FRANCO DEBENEDETTI: «Etica dell’impresa e pandemia: l’importanza di continuare a produrre profitti»



di Matteo Martinasso, 15 marzo 2021

Che ruolo hanno davvero le imprese nella società? Perseguire gli utili in un mondo sconvolto da crisi ambientali e pandemie è immorale o, al contrario, è proprio questa l’unica loro vera responsabilità? Prova a dare una risposta l’ingegner Franco Debenedetti che nel suo ultimo libro Fare profitti (edizioni Marsilio) guida i lettori attraverso un’analisi dell’etica dell’impresa. «L’impresa è l’unità base dell’economia capitalistica, potremmo dire il suo “mattoncino di lego”. Ad essa viene assegnata la responsabilità di creare ricchezza, producendo beni e servizi che la società vuole comprare a un prezzo superiore a quello degli imput necessari a produrli», spiega Debenedetti. «Questo surplus è il profitto, e i profitti di tutte le imprese formano la ricchezza della nazione. La pandemia distrugge ricchezza quindi a maggior ragione è necessario che le imprese che possono farlo lavorino e producano profitti, perché quelle che non ci riescono chiudono e chi vi lavorava al suo interno perde il proprio lavoro».

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Fare profitti, l’etica dell’impresa



di Andrea Cabrini, 1 aprile 2021

Andrea Cabrini intervista il presidente dell’Istituto Bruno Leoni Franco Debenedetti a Class CNBC Speciale

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“Fare profitti. Etica dell’impresa” di Franco Debenedetti



di Redazione, 27 aprile 2021

Dott. Franco Debenedetti, Lei è autore del libro Fare profitti. Etica dell’impresa edito da Marsilio: quali responsabilità hanno le imprese per i grandi problemi sistemici della nostra epoca?
Le imprese hanno una responsabilità che sovrasta tutte le altre. quella di fare ricchezza: è il compito che assegna loro la società, se non lo fanno loro, chi d’altro lo fa? Questo vale anche per i Paesi a cui arrivavano o argento dalle colonie, come fu la Spagna, o che estraggono il petrolio dal loro sottosuolo: consumano ricchezza, non la creano.
Nel farlo le imprese impiegano ricchezze finanziarie, risorse umane, consumano beni comuni. Sono quindi corresponsabili dei grandi problemi sistemici della nostra epoca, come lo sono tutti, dagli Stati alle persone.
Con differenze sostanziali. Gli Stati non dànno nessun contributo attivo alla soluzione, possono solo fissare obbiettivi, e sanzionare chi non li rispetta. Le famiglie possono contribuire modificando i propri consumi e le proprie abitudini individuali. Le imprese sono le sole che possono dare un contributo attivo e significativo: chi se no?

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War Room Books, Barbano intervista Franco Debenedetti, autore di “Fare profitti”, ingegnere, manager e Presidente Istituto Bruno Leoni



di Alessandro Barbano, 14 maggio 2021

Un viaggio al cuore dell’impresa, per definirne la natura, i soggetti, i diritti e gli interessi al tempo delle aziende Big Tech e della pandemia. Lo propone Franco Debenedetti, ingegnere, manager e Presidente Istituto Bruno Leoni nel suo ultimo libro “Fare profitti” edito da Marsilio. Lo ha intervistato Alessandro Barbano in questa puntata di War Room Books.

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Conversazione con Cesare Salvi sul libro di Franco Debenedetti “Fare profitti. Etica dell’impresa” (Marsilio)



di Claudio Landi, 07 giugno 2021

“Conversazione con Cesare Salvi sul libro di Franco Debenedetti “Fare profitti. Etica dell’impresa” (Marsilio)” realizzata da Claudio Landi con Cesare Salvi (giurista, già ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale).

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→  gennaio 18, 2021


di Giuseppe Pennisi

“Fare profitti – Etica dell’impresa”, Marsilio, è il nuovo libro dell’ingegnere Franco Debenedetti che dà spunti per una nuova linfa industriale che sembra persa nel nostro Paese. Un volume che il prof. Pennisi suggerisce di leggere insieme ad altri due scritti dagli economisti Ciocca e Zecchini, per completare un messaggio forte rivolto all’imprenditorialità italiana

Il nuovo saggio di Franco Debenedetti (“Fare profitti – Etica dell’impresa”, Marsilio Editori, 2021, € 18) esce al momento giusto. In Italia si sta tentando di riprendere la via dello sviluppo che pare smarrita da vent’anni. Il documento che dovrebbe tracciarne la rotta (il Piano Nazionale di Rilancio e di Ripresa, Pnrr) è in ritardo; secondo economisti di varie “scuole” è lacunoso e carente.

Lo stesso Pnrr, già nella sua introduzione, spezza una lancia a favore del capitale e dell’investimento pubblico, dichiarandolo più socialmente efficiente di quello privato.

Spira, in generale, da qualche tempo un’aria poco favorevole all’imprenditoria privata: se ne è fatta portavoce a livello internazionale Mariana Mazzucato, docente all’Università di Essex, molto apprezzata del governo Conte (nonostante uno dei suoi ultimi libri sia stato “stroncato” su The Economist del 16-22 gennaio 2021). Questo vento è molto seguito da alcuni cenacoli intellettuali come il Forum delle Diseguaglianze composto da economisti e giuristi che hanno proposto di recente “nuove missioni strategiche per le imprese pubbliche”, in sintesi una nuova combinazione di Iri ed Efim. In effetti, la Cassa Depositi e Prestiti sta da qualche anno silenziosamente trasformando la propria finalità da quella di essere il depositario ed il custode del risparmio postale degli italiani (e soprattutto dei ceti a reddito medio-basso) in qualcosa che assomiglia ad una nuova Iri-Efim- Gepi, affiancata in questo compito da altre holding come Invitalia. Gli esempi potrebbero continuare.

In questo contesto, giunge come “un rompiscatole” ed una “voce fuori dal coro” Franco Debenedetti a rivendicare il ruolo dell’impresa ed a ricordare che il suo primo dovere – un dovere “etico” – consiste nel “fare profitti”. È una massima cardine di tutte le scuole economiche, anche di quella marxista- Ricordatevi il “compagni contadini, arricchitevi!”, slogan di Bucharin nel lontano 1925. Ma che spesso da qualche tempo chi professa di essere economista dimentica.

Franco Debenedetti non è un economista, ma un ingegnere che ha guidato e fondato importanti imprese industriali, spesso in settori innovativi. Dopo la sua carriera industriale ed imprenditoriale, si è posto al servizio del Paese in modo differente di quanto lo aveva fatto da imprenditore. È sceso in politica ed è stato senatore per tre legislature. Non nei banchi della destra o del centro ma in quelli della sinistra. Terminata questa non breve esperienza politica, presiede un think tank, collabora a quotidiani e riviste e, giovanissimo più di prima, scrive saggi in cui mette a disposizione degli altri la propria esperienza.

Il libro, di trecento pagine a stampa fitta (escludendo gli indici), si legge tutto di un fiato anche e proprio perché non è un libro di economia ma il frutto di una vita di lavoro, oltreché di studio e di riflessioni. È in cinque parti, ciascuna costituita da agili capitoletti. La prima parte è quella che più fa riferimento alla teoria economica. In essa si enuncia, prendendo il là da Milton Friedman, come “fare profitti” sia la prima, anzi l’unica responsabilità sociale dell’impresa e si passano in rassegna i “favorevoli” ed i “contrari” di questa ipotesi per poi illustrare come l’impresa nasce, cresce e funziona. La seconda parte analizza come l’obiettivo di massimizzazione del profitto debba e possa realizzarsi “nel rispetto delle regole fondamentali della società sia quelle incorporate nelle sue leggi sia quelle dettate nei suoi costumi etici”. Viene, quindi, tracciata una netta demarcazione tra il diritto/dovere dell’impresa e quello della politica che deve stabilire le regole ed assicurare che esse vengano osservate. La terza parte affronta il problema delle diseguaglianze, spesso indicate come conseguenza del “fare profitti”: circa quaranta pagine dense non di teoria ma di esempi dalla storia recente spiegano come un’impresa che massimizza i profitti è anche il miglior “ascensore sociale” come indicato che quasi il 70% delle persone considerate da Forbes come le più ricche del mondo hanno fondato e guidato la propria impresa.

La quarta parte riguarda l’impresa e le tecnologie. Solo un cenno alla «prima rivoluzione industriale» per introdurre come la società e le imprese cambiano nell’età della tecnologia dell’informazione e gli inquietanti interrogativi che essa pone sia a chi deve regolare (e vigilare) le imprese sia a chi intende crearle e condurle. Ancora più inquietanti quelli posti dal “fare profitti” dalla pandemia sia dal prender spunto da quest’ultima per un’avanzata dello Stato, e della mano pubblica nell’economia in generale.

Da un lato, ci sono i “profittatori”, come in tutte le guerra (quella in corso e contro un nemico sconosciuto, subdolo ed in continua mutazione). Da un altro, lo spirito imprenditoriale viene stimolato dalle infauste circostanze: si pensi al breve periodo in cui centri di ricerca, principalmente di impresse, hanno sviluppato e messo in produzione vaccini. La net economy e la pandemia stanno anche modificando i paradigmi d’organizzazione e conduzione imprenditoriale. Ma l’obiettivo e la finalità etica non cambiano: fare profitti.

Questo è un brevissimo sunto di un libro ricco in cui le trecento pagine, organizzate in venti capitoli scritti in stile più giornalistico che accademico, si leggono agevolmente e volentieri. Anche se il loro sottostante ha ragionamenti densi sulla base di esperienze e di studi.

Potrà contribuire a sconfiggere l’offensiva anti-impresa guidata da Mariana Mazzucato, dal Forum delle Diseguaglianze e da tanti altri in questo primo scorcio di 2021? Potrà soprattutto contribuire a forgiare una nuova migliore politica economica rispetto a quella senza bussola che pare da qualche tempo dominare l’Italia? Molto dipende da chi lo leggerà ed in quale contesto. Il saggio scritto in uno stile piacevole ed accessibile tale da essere una lettura attraente per quelle che un tempo venivano chiamate “persone colte” è chiaramente diretto a quello che veniva definito il “ceto dirigente”.

Meriterebbe di essere letto insieme a due libri recenti, ambedue pubblicati da Donzelli Editore, di autori che non possono essere definiti contigui alla destra: “Tornare alla crescita: perché l’economia italiana è in crisi e cosa fare” di Pierluigi Ciocca e “La politica industriale nell’Italia dell’euro” di Salvatore Zecchini. Ciocca e Zecchini, a differenza di Debenedetti, non provengono dal mondo dell’imprese, ma da quello di grandi istituzioni economiche sia nazionali (Banca d’Italia) sia internazionali (Fondo monetario, Ocse) ed insegnamento universitario. I tre lavori si integrano e lanciano un forte messaggio: un Paese, tendenzialmente caratterizzato da lunghe fasi di stagnazione, ha avuto periodi di crescita nell’età giolittiana e dopo la Seconda guerra mondiale e può averne nell’Europa della moneta unica perché un diritto dell’economia semplice e trasparente, certezza delle regole ed apertura dei mercati hanno stimolato e stimolano l’imprenditorialità a svolgere al meglio i propri compiti e la propria missione.
Occorre chiedersi se è ciò che è avvenuto negli ultimi anni e se è alla base delle politiche pubbliche in gestazione.

Leggi la versione originale sul sito formiche,net

→  gennaio 12, 2021


di Alberto Mingardi

Dai vaccini alle piattaforme online: le imprese orientate al profitto hanno risposto “presente”

Le case farmaceutiche che hanno prodotto a tempo di record i vaccini, i fornitori di servizi digitali che ci hanno aiutato a lavorare da casa, le catene industriali che ci hanno permesso di continuare ad avere quello che ci serviva: tutti hanno agito secondo logiche di mercato e profitto. Quelle che molti dibattiti post pandemia vorrebbero «correggere» in nome del bene comune. Non è del tutto saggio.

Un osservatore ingenuo penserebbe che, da quando la Food and Drug Administration americana ha autorizzato i vaccini di Pfizer/BioNTech e Moderna, il corso della pandemia sia cambiato. Ora abbiamo un’arma, che può aiutarci a ridurre in modo importante diffusione e letalità. Se l’arma, finalmente, esiste, tutti gli sforzi dovrebbero essere concentrati su come portarla su quanti più campi di battaglia possibile.

Israele a parte, i Paesi occidentali sembrano avere tutti problemi con l’organizzazione di una grande campagna di vaccinazioni. C’è però anche un problema di obiettivi e di sensibilità. Che coi vaccini si debba fare presto è il corollario di una visione per la quale l’obiettivo è tornare quanto prima alla «normalità». Cioè a una situazione in cui le persone possono esprimere quelle domande che da mesi vengono, purtroppo, compresse. Il bisogno di socialità. I viaggi: non verso mete esotiche, ma semplicemente verso una città in un’altra regione. Uscire la sera. Andare a teatro o al cinema.

Lo stato delle cose
Purtroppo, negli scorsi mesi molti governi non sono riusciti a investire su iniziative volte, appunto, a garantire quanto più possibile la vita consueta delle persone (per esempio, tamponi rapidi e test di massa). E c’è anche chi pensa che alla normalità non si debba proprio tornare. Il World Economic Forum ha per esempio inaugurato una discussione su quello che il suo fondatore, Klaus Schwab, chiama «the great reset». Reset è parola con la quale tutti abbiamo familiarità informatica e allude a un azzeramento. Mettere un punto e andare a capo, tirare una riga. La sede e il promotore del dibattito sono bastati a molti per imbastire una polemica di sapore complottista.

Il punto di partenza di Schwab e i suoi rasenta l’ovvietà: la pandemia ha esposto problemi e punti deboli dei diversi Paesi, bisognerebbe cercare di imparare la lezione del 2020. A Davos però ci si concentra su lezioni che hanno ben poco a che fare con la gestione del contagio. Si parla semmai di cambiamenti che, adeguatamente assistiti dalle politiche pubbliche, realizzino un «capitalismo sostenibile». Non è solo questione di sensibilità ambientale, ma proprio di quello che Franco Debenedetti («Fare profitti», Marsilio, 2021) chiama il «mattonino di Lego del capitalismo»: l’impresa. L’idea che essa debba fare profitti a vantaggio dei suoi azionisti è considerata una sorta di minaccia: il profitto di alcuni può mettere a repentaglio il benessere di tutti. Per questa ragione vanno imposte alle aziende metriche diverse, che le allontanino dall’ossessione del breve termine e le si rendano pienamente «compatibili» col benessere sociale. Queste metriche coincidono con un aumento della libertà d’azione del management, a spese degli azionisti (i cui interessi vanno subordinati a una qualche idea di utilità sociale) e dei consumatori (le cui esigenze possono non essere esaudite, se considerate non «sostenibili»).

La pandemia è la grande occasione per fare questo passo, non perché il motivo del profitto abbia mostrato i suoi limiti: se ne potremo uscire, è in buona misura grazie ad imprese orientate al profitto (Big Pharma). Se milioni di ragazzi hanno potuto, in qualche modo, seguire delle lezioni, è grazie a imprese orientate al profitto (Microsoft, Zoom, Cisco). Se durante il confinamento abbiamo potuto continuare ad avere certi consumi, è stato grazie a chi, facendo il proprio interesse, ci ha portato a casa ciò che desideravamo. La pandemia è la grande occasione perché sempre le crisi concentrano potere nelle mani delle autorità pubbliche, e questa concentrazione di potere non deve andare sprecata. L’impressione, fastidiosa, è che le vaccinazioni lente e che non cambiano la convivenza con il virus finiscono per fare il gioco di chi propugna azzardati esperimenti di ingegneria sociale.

L’esperimento
Questi esperimenti coincidono con una riduzione dei consumi possibili per ciascuno di noi. Come scrive Andrea Miconi («Epidemie e controllo sociale», Manifestolibri, 2020), la rappresentazione dell’emergenza ha fatto perno sulla «colpevolizzazione del cittadino». Scelte e abitudini fra le più semplici sono diventate, nel discorso pubblico, «peccati» da evitare per allontanare il male. Moralizzazione dell’epidemia e ambizioni di riforma del sistema capitalistico scommettono che il Covid ci segnerà in profondità. La pandemia ci impoverisce, e quindi potremo permetterci meno viaggi, meno cene fuori, e di cambiare l’automobile più tardi di quanto desiderassimo. Probabilmente saremo orientati a risparmiare di più che in passato, come capita quasi sempre a coloro che hanno subito uno choc molto forte.

Le conseguenze
Ma una cosa è questa ragionevole previsione, altra pensare che la forza della legge e la retorica dell’emergenza possano «raddrizzare» il presunto legno storto dei bisogni umani. E’ vero che non c’erano i social ma, con l’eccezione della peste, i grandi eventi pandemici del passato non hanno segnato la memoria collettiva proprio perché la voglia di vivere è più forte. In Cina, durante la «settimana dorata» (che coincide con la celebrazione della fondazione del regime) di ottobre, si sono spostati circa 630 milioni di persone. Non l’hanno fatto perché glielo ha imposto il partito ma perché hanno approfittato, appena è stato loro possibile, della libertà dalle misure di contenimento. Spostarsi, viaggiare, vivere la propria socialità. I bisogni dei cinesi non sono cambiati, e nemmeno i nostri.