→ luglio 5, 1993

Lo storico accordo sul costo del lavoro segna la fine dei meccanismi automatici di adeguamento dei salari, e la modifica dei rigidi rituali di contrattazione: ma diventa, inevitabilmente, l’inizio della riforma dello Stato sociale. La concertazione salariale non può non legarsi al rapporto prestazioni-prezzi di quanto è fuori dalla busta paga, a incominciare da previdenza, sanità e fisco; e quindi logicamente estendersi all’istruzione e ai trasporti; per poi rimandare al decentramento amministrativo e impositivo. Un nesso, logico ed economico, lega la riforma alla busta paga a quella dello Stato sociale e questa alla’ riforma della pubblica amministrazione: problema disperarne.
Eppure val forse la pena dare uno sguardo indietro, E` finora riuscita, e pareva impensabile, una svalutazione (in parte competitiva) senza inflazione. Pur con le sue vaghezze sul piano implementativo, il processo di privatizzazione dovrebbe essere al riparo da pregiudiziali ideologiche e da escamotages trasformistici. Con tutti i suoi difetti, la legge elettorale consentirà una maggiore rispondenza tra società civile e rappresentanza politica. La lezione di Tangentopoli dovrebbe, almeno per un po’, introdurre maggiore correttezza nei rapporti con la pubblica amministrazione. La debolezza del Parlamento prefigura di fatto i poteri di un esecutivo direttamente eletto. Perché non pensare che si riesca ad attaccare anche il problema della burocrazia amministrativa?
La crescita dello Stato sociale si è realizzala caricando l’amministrazione di sempre maggiori compiti. Dottrina sociale cristiana e ideologie collettivistiche si sono saldate in pratiche di intervento diretto dello Stato nell’economia. E le amministrazioni hanno perso per strada il significato anche etimologico de termine governare, dal latino gubernum, timone: si sono abituate più a faticare sui remi che a usare la capacità di guidare la rotta. Il tipico modo di agire è secondo catene aperte: si stabiliscono regole e si dispone che ad esse si obbedisca; il modello ideale è l’uguaglianza, gli stessi servizi a tutti. Ma al differenziarsi della società, all’aumento dei compiti richiesti alle amministrazioni, questo modello si è inceppato: oggi, in tutto il mondo, la gente vuole più servizi con le stesse risorse.
Sul problema della riforma della burocrazia si sono spese invano intelligenze illustri e competenze predare. Non si tratta sole, di riformare istituti specifici: e prima di tutto un problema di metodo. Bisogna introdurre nell’amministrazione spirito imprenditoriale, spostare cioè risorse economiche da un’area di bassa ad una di maggiore produttività e resa.
Non si vorrebbe generare un equivoco: le amministrazioni non sono imprese. Non per le motivazioni (la misura del successo per gli amministratori è essere rieletti, per gli imprenditori il profitto), né per i modi di operare (i governi sono democratici ed aperti, le imprese devono prendere decisioni rapide in condizioni di incertezza), né per gli obiettivi (il bene per tutti contro i profitti per alcuni). Privatizzare è una delle soluzioni, non è la soluzione: si possono privatizzare alcune funzioni, ma ci sono compiti (introdurre equità, evitare discriminazioni e sfruttamenti, promuovere la coesione sociale) che solo il pubblico può garantire.
Governare significa fare lavorare la burocrazia pubblica e il settore privato, insieme al terzo settore, quello del volontariato o delle attività non-per-profitto: settore questo che in tutte le società complesse tende ad assumere un ruolo sempre più importante, il solo che sappia trattare problemi in cui è necessaria attenzione individuale, capacità di raggiungere strati sociali diversi, introducendo elementi di fiducia, di coesione, di impegno personale.
Per introdurre spirito imprenditoriale nell’amministrazione non basterà (anche se non par
cosa da poco) mutuare le metodologie che le imprese dinamicamente sviluppano, autonomia decisionale e motivazione delle persone, qualità e misurazione dei risultati; introdurre criteri di decentramento, di concorrenzialità (magari tra le stesse funzioni svolte e dal pubblico e dal
privato), di attenzione alle necessità dei clienti, di orientamento agli obiettivi più che alle norme. Diventare imprenditoriali significa utilizzare in modo innovativo gli strumenti di autoregolazione e di incentivo del mercato. Non è la vecchia ricetta «meno Stato più mercato»; le amministrazioni possono modificare i mercati, stabilendo regole, indirizzando la domanda, agendo da catalizzatori, introducendo l’arte di saper misurare; non solo l’efficienza di un servizio, ma l’efficacia del suo risultato.
Il problema della riforma amministrativa scoraggia per vastità e complessità. E allora una proposta: perché non incominciare dai Comuni? Certo, il grosso dei problemi riguarda l’amministrazione centrale: ma la riforma è nel metodo. Il dilemma meno tasse e meno servizi o più tasse e più servizi, non si risolve (solo) chiedendo maggiore efficienza, o selezionando secondo criteri economici o egualitari o di popolarità, ma reinventando il modo di governare. La dimensione delle nostre città, l’autorità che la nuova legge elettorale conferisce ai sindaci, la partecipazione civile con cui sono stati eletti, potrebbero fare dei Comuni il luogo da cui iniziare a por mano alla più difficile di tutte le riforme.
→ giugno 24, 1993

Lo spettro si aggira per l’Europa: la crescente disoccupazione. 18 milioni di persone, il 10 per cento della popolazione attiva, sono esclusi dal diritto al lavoro: il problema è stato al centro del vertice della Comunità Europea a Copenaghen.
Il fenomeno presenta in Europa caratteristiche particolarmente inquietanti, anche perché, mentre in Usa la disoccupazione diminuisce alla ripresa del ciclo economico, in Europa essa cresce costantemente: dieci anni fa era del 2 per cento, nel 1979 era del 5,4 per cento, nel 1990 era dell’8,3 per cento. E’ un fenomeno chi cui anche le cause restano sfuggenti.
Certo gli sviluppi della tecnologia e dell’automazione hanno ridotto il numero dei posti di lavoro: ma l’Europa è cresciuta proprio grazie alla introduzione di nuove tecnologie. Se questa fosse la causa, la disoccupazione dilagherebbe in Europa da un secolo.
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→ giugno 17, 1993

Le astensioni potrebbero, domenica prossima, essere numerose: se così fosse, si tratterebbe di un fatto in controtendenza rispetto al processo in atto.
Il voto referendario del 18 aprile è stato notevole non solo per la percentuale del sì (83 per cento) ma anche per l’altissima Percentuale dei votanti (77 per cento). Secondo l’analisi che ne fanno Corbetta e Parisi (Il Mulino, maggio ’93) questo dato, depurato dell’astensionismo aggiuntivo tipico dei referendum, equivarrebbe ad un tasso di votanti, proiettato su elezioni politiche, superiore al 90 per cento.
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→ giugno 14, 1993

Perché allora no ed ora, , forse, sì? Per scongiurare il decreto Conso-Amato ci fu, quel memorabile venerdì 5 marzo, uno straordinario episodio di mobilitazione popolare. A distanza di poche settimane, sembra invece che un più largo consenso si stia formando sulla proposta Di Pietro-Conso: perché?
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→ maggio 31, 1993

Gli ultimi mesi hanno visto il polarizzarsi dell’attenzione sui mutamenti politici che dovranno consentire la fine della prima repubblica e la nascita della seconda. Tuttavia le discussioni sulle leggi elettorali, l’urgenza di rinnovare un ceto politico, il formarsi nuove aggregazioni del consenso, non devono far perdere di vista il vero obbiettivo, un nuovo modo di funzionare delle istituzioni, in un nuovo rapporto tra cittadini e stato. Questo obbiettivo sarà raggiunto, ed in modo duraturo, solo se le trasformazioni del sistema politico si accompagneranno ad analoghe trasformazioni nel mondo economico.
Le corrispondenze sono puntuali: alla fine della democrazia bloccata e del consociativismo necessario dovranno corrispondere alleanze più libere tra strati sociali portatori di interessi economici omogenei; alla formazione di maggioranze stabili di governo dovrà corrispondere una politica di bilancio che reperisca ed allochi risorse secondo un progetto di società, e non per promettere tutto a tutti. Soprattutto al ritrarsi dei partiti dalle gestione diretta di tanta parte dell’attività economica dovrà corrispondere l’eliminazione di posizioni monopolistiche, la liberazione del mercato e la creazione di spazio per l’iniziativa d’impresa.
Sotto questo aspetto la nomina di Prodi alla presidenza dell’IRI si pone per significato politico sullo stesso piano della nomina del governatore della Banca d’Italia a capo del governo. La nomina di Ciampi sta a ricordarci che l’urgenza di procedere alla riforme istituzionali si accompagna alla necessità di riparare i danni che il sistema partitico ha portato al bilancio dello stato; e la tensione che anima il suo programma nasce proprio dal sovrapporsi di questi due obbiettivi, della contrapposizione tra le esigenze a breve e quelle di lungo periodo. Analogamente la nomina di Prodi proietta i problemi urgenti del maggiore gruppo industriale italiano sulla necessità di realizzare, attraverso le privatizzazioni e l’eliminazione delle situazioni di monopolio, l’allargamento ed il rafforzamento della struttura imprenditoriale privata. Come Ciampi non presiede solo alla liquidazione di un ceto politico, così il compito di Prodi non è solo quello di procedere alla liquidazione dell’IRI.
Nodi dell’economia, nodi della politica e loro interdipendenza sono anche il punto di partenza della relazione di Abete all’assemblea di Confindustria: entrambi propone di risolvere nella razionalità della sua proposta programmatica, là dove afferma: “il sistema bipolare è in sé finalizzato allo sviluppo”.
“L’impresa tesa ad unificare gli interessi legittimi del profitto con i vincoli dei doveri verso gli altri”: la relazione, un grande discorso di rilegittimazione, in presenza dei massimi rappresentanti e del mondo politico e di quello imprenditoriale, è tutta nello svolgimento di questa impostazione: la solidarietà come premessa allo sviluppo; i tre pilastri del risanamento economico, innovazione-formazione-internazionalizzazione; la fiscalità equa; il rientro in Europa; la fine del periodo delle sovvenzioni e degli interventi speciali; perfino il tema dell’accordo sul costo del lavoro viene spostato sul piano dell’interesse generale dalla proposta di comprenderlo in un patto sociale per il rilancio degli investimenti e dell’occupazione.
Chi potrebbe dissentire? Quello di Abete è il programma obbligato di ogni stato industriale moderno: per questo si può dichiarare indifferente ai programmi “delle due formazioni politiche o coalizioni che si affronteranno volta per volta su programmi competitivi;…. è relativamente indifferente chi governa; sarà sempre più fondamentale come governa”. È in questo senso che Confindustria si dichiara per il futuro “agovernativa”: l’indifferenza al tipo di governo deriva dalla convinzione dell’identità tra il proprio programma e l’interesse generale. “Gli esecutivi …si legittimeranno col tasso di efficienza nei risultati”: è perchè gli esecutivi non avranno altra scelta che di differenziarsi all’interno della razionalità del programma esposto, che Confindustria può fare la scelta di essere agovernativa. La classe imprenditoriale rilegittimata dalla legittimità del proprio programma, diventa agovernativa perchè ardisce proporsi come classe generale.
Oggi, a differenza di venticinque anni fa, è possibile che la razionalità di questo programma venga più largamente condivisa: ma il problema non sta nella coerenza e legittimità del programma, quanto nella distanza che ancora ci separa da quel mondo virtuoso in cui potere essere virtuosi. In campo politico c’è da fare la legge elettorale; ci sarà da provvedere al ricambio di una classe politica; a detta dello stesso on.le Segni ci andranno da 3 a 5 anni perchè possano prendere forma schieramenti che consentano l’alternanza di programmi contrapposti. Mentre, in campo economico, i nostri maggiori gruppi, IRI, FIAT, Olivetti, Ferruzzi, si dibattono in difficoltà non solo congiunturali.
Mentre Abete poteva svolgere la sua relazione e proporre un grande patto sociale, colto, come dimostra il grande applauso da cui è stato salutato, nel suo significato politico oltre che economico, ancora si credeva all’accidentalità dello scoppio di Firenze. Pochi minuti dopo la drammatica verità, l’interrogarsi su inquietanti ipotesi: un breve intervallo di tempo a ricordarci quanta grande distanza ci sia tra tenebrose irrazionalità e luminose razionalità, e quanto indifesa sia ancora questa nostra fragile speranza.
→ maggio 1, 1993

Abbiamo davanti agli occhi le immagini della gazzarra succeduta all’esito della notazione che assolveva Craxi: la loro pregnanza drammatica, più che al silenzio e all’immobilità delle auto bloccate in via Pani, rimanda alle immagini della fuga da Saigon assediata, al forsennato gridare e al frenetico agitarsi di chi si aggrappa ai galleggianti degli elicotteri, e spera di riuscire a farsi traghettare e a salvarsi.
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