Amato, Segni e amici, fatevi da parte

novembre 1, 1994


Pubblicato In: Varie


Col maggioritario il voto è diventato mobi­le; ridottosi il potere delle segreterie dei partiti, è diminuito il valore dell’appartenen­za; diventa determinante la figura del leader, che riverbera su tutta la formazione politica la luce della sua notorietà. Viviamo una si­tuazione di transizione: accanto a Forza Ita­lia, tutta identificata con il suo leader, convi­vono le forze ancora organizzate come partiti che ritengono di essere meno toccate dal pro­cesso di mobilizzazione dell’elettorato. Per i popolari. la loro anomala collocazione, rinvia ad una probabile instabilità. Paradossalmen­te, è proprio l’area di sinistra-centro, da cui più forte è venuta la spinta al cambiamento verso il maggioritario, quella che meno ha sa­puto darsi un’organizzazione coerente con il nuovo sistema: né partito tradizionale, né mo­vimento illuminato da un leader. E la strategia di tutta l’opposizione dipende dal proble­ma di dare unità e peso a quest’area.

Problema antico quanto la storia dell’Italia repubblicana: dal Partito d’azione, ai repubblicani, ai socialisti, ad Alleanza democratica. Ci ha provato Craxi, ma si è perso per avere identificato l’occupazione di uno spazio poli­tico con lo sfruttamento del potere economi­co. Oggi vi cerca i suoi confini l’Area, la attra­versa la finezza di Amato, vi si agitano i resi­dui di Ad, gli spezzoni socialisti, gli irrequieti verdi, la diaspora repubblicana e fin qualche residuo socialdemocratico, e quanto resta del grande patrimonio referendario.

Ci sono motivi strutturali per cui quest’area debba continuare ad essere disperatamente condannata a inghiottire tante energie, quasi le incombesse un tragico destino da “triango­lo delle Bermude”?

Eppure non mancano i motivi unificanti. In negativo, la consapevolezza che con il sistema maggioritario quest’area rischia la scomparsa. I suoi esponenti saranno costretti a nego­ziare con gli altri partiti, in primo luogo col Pds, una presenza nelle liste elettorali: un destino da indipendenti di sinistra che prelude­rebbe alla sostanziale sparizione dalla scena politica. In positivo, il fatto che quest’area, po­tenzialmente un 15-20% dell’elettorato, do­vrebbe avere tutte le caratteristiche per avvantaggiarsi del voto diventato mobile.

Esistono certo differenziazioni politiche non irrilevanti: sulle ragioni di opposizione a questa maggioranza, che per alcuni è un regi­me da contrastare come se si trattasse del fa­scismo o del franchismo, per altri un governo classista, inetto, inquinato dai conflitti di in­teresse; inoltre sui rapporti con l’opposizione, che per alcuni deve comportare una netta chiusura verso Rifondazione comunista.

Punto nodale di ogni strategia per l’area di sinistra-centro è il rapporto con il Pds: e proprio questo dovrebbe essere l’elemento unifi­cante. L’alleanza con il Pds non è solo strumentale per opporsi al “regime”; non deriva solo dalla convinzione che la riforma econo­mica e morale, dello Stato non sarà possibile senza coinvolgervi attivamente anche quel 30% di popolazione che si riconosce nei partiti di sinistra. Deriva dal fatto che solo una presen­za autorevole dell’area di sinistra-centro può scongiurare che il Pds rifluisca nell’illusione che basti reggere aspettando gli errori altrui per riuscire (un giorno) a governare.

Massimo D’Alema dice (Ansa del 27 ottobre) di essere convinto che “in Italia il bipolarismo si può costruire con alleanze tra il centro e la sinistra” e che “non si può chiedere ad un elettore moderato di votare progressista”. Ma se non ci si presenta come una forza unita, con un leader autorevole, se si lascia che il drappello dei parlamentari di quest’area agisca in ordine sparso, con iniziative affidate alla buona vo­lontà dei singoli, sarà perfettamente giustifica­to l’altro D’Alema, quello che afferma di non vo­ler trattare con quelli che ha fatto eleggere.

L’alleanza con il Pds non è in discussione, e la sua sincerità sarebbe incompatibile con le piccole astuzie da “due forni”, alla But­tiglione. Ma la rinuncia ad ogni tatticismo de­ve avere come contropartita l’evidenza che il problema non è quello di misurare i rapporti di forza attuali, ma di esplorare quelli poten­ziali presso l’elettorato, dandogli la possibilità di esprimersi; senza di che le sinistre all’oppo­sizione ci resteranno per chissà quanti anni.

Non è solo per affinità culturale e morale che l’area di sinistra-centro ci pare ricca come poche altre di intelligenza, finezza, disinte­ressata passione politica. A quest’area manca un leader: il problema, già difficile in sé, di­venta insolubile se non si scaccia l’impressio­ne che dietro il controllo, vantato o millanta­to, di qualche residua appartenenza, in realtà si nasconda la preoccupazione di definire in quale atollo dell’arcipelago piantare la ban­diera della capitale. Se è così, allora diventa necessario che i personaggi che animano que­st’area dichiarino esplicitamente di non volerne personalmente assumere la leadership, ma di voler invece dedicare le proprie energie a selezionarne una, e la propria autorevolezza a sostenerla. Solo così quest’impresa non apparirà l’esercizio perdente (e un po’ triste) di sommare simboli e sigle.

Non c’è garanzia che questa rinuncia sia suf­ficiente. Ma la posta in gioco non è la sopravvivenza di alcune appartenenze: è la possibilità di una reale alternanza in questo Paese.

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