Un negoziato dove manca la fiducia reciproca

giugno 25, 2015


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articolo collegato di Pietro Reichlin

Lo spettro della Grexit ha il merito di avere acceso un dibattito ampio sul destino politico ed economico dell’Europa. Siamo usciti a fatica dalle secche di una controversia tra specialisti sui pro e i contro delle politiche di austerità fiscale e sulla misura dei moltiplicatori della spesa pubblica. Il dibattito è sterile perché non tiene conto della situazione concreta in cui si trova la Grecia e l’Europa. Non si può ragionevolmente pensare che le politiche di rientro da un disavanzo (fiscale e commerciale) eccessivo possano avere effetti positivi sul Pil del paese, ma è altrettanto vero che una politica espansiva avrebbe l’effetto di riportare a livelli insostenibili il disavanzo commerciale e il debito pubblico greco, riaccendendo la speculazione contro i debiti sovrani. Secondo il gergo corrente, la Grecia non ha «spazio fiscale»: ogni euro di spesa pubblica in più va cercato fuori dal mercato, cioè presso i contribuenti europei ed è, di fatto, un finanziamento a fondo perduto. La crisi economica della Grecia non si risolverà in tempi brevi e qualunque accordo con l’Europa sarà solo un progresso temporaneo.
Data questa necessaria premessa, quali insegnamenti possiamo trarre dal dramma greco? Secondo un’opinione comune, la vicenda dimostra che l’Europa ha bisogno di istituire meccanismi più robusti di solidarietà e aumentare il bilancio federale per consentire maggiori aiuti ai paesi in difficoltà. Secondo altri, la vicenda dimostra che l’Europa ha finora scelto di difendere i creditori e le banche a discapito dei popoli e della democrazia. A me sembra che queste tesi siano, in buona parte, infondate. In primo luogo, vale ricordare che, dal 2010, la Grecia ha ricevuto dalle istituzioni internazionali risorse ingenti (in rapporto a qualunque esperienza passata di crisi dei debiti sovrani), e che essa è tuttora ampiamente sussidiata tramite tassi d’interesse artificiosamente bassi, liquidità emergenziale della Bce, fondi strutturali e ulteriori promesse di allungamento delle scadenze. Il fatto che tutto ciò non sia bastato ha molto a che fare con i problemi strutturali dell’economia greca, la cui soluzione richiede tempi lunghi e sacrifici. Non si capisce, inoltre, perché, come spesso si dice, la vicenda sia il sintomo di un “deficit democratico”. Se le politiche proposte dal governo greco si basano sul denaro dei contribuenti degli altri paesi europei, è logico che questi ultimi abbiano voce in capitolo. A scanso di equivoci, non intendo negare che l’Europa abbia bisogno di meccanismi di assicurazione più estesi per risolvere crisi nazionali. Questi ultimi sono necessari per fronteggiare problemi di natura temporanea e crisi di liquidità, ma non sono risolutivi di fronte a problemi fiscali di carattere strutturale, cioè legati a difetti istituzionali e di lunga durata (evasione fiscale, squilibri nel sistema previdenziale, bassa partecipazione al lavoro, ecc.) e all’indisponibilità dei governi di fare scelte politicamente costose. Se anche avessimo un bilancio federale ampio e gli strumenti adatti per correggere le crisi di liquidità degli Stati, il dramma della Grexit sarebbe esattamente dov’è ora (come ha sostenuto recentemente su questo giornale Franco Debenedetti).
È paradossale che chi sostiene le ragioni del governo greco sia anche sostenitore di una maggiore integrazione federale. Le federazioni sopravvivono solo se riescono a risolvere il rischio morale legato alla coesistenza di garanzie a livello centrale e decentramento del potere di spesa a livello sub-nazionale (che Rodden ha definito “il paradosso di Hamilton”). Per risolvere tale problema c’è bisogno di maggiore (e non minore) disciplina fiscale e più vincoli sulle deliberazioni democratiche a livello locale. D’altra parte, l’inopportunità della disciplina fiscale è proprio il primo punto del programma elettorale di Syriza, secondo cui l’austerità è l’origine di tutti i mali. È vero che l’austerità fiscale non aiuta a uscire dalla crisi, ma l’idea che i debiti si ripagano da soli è una strada che porta all’uscita dall’euro. D’altra parte, nessun meccanismo istituzionale può risolvere completamente il paradosso di Hamilton. Serve una forte reciproca fiducia tra gli stati membri, una visione comune ragionevolmente condivisa e la necessità che i governi nazionali siano parzialmente vincolati alle promesse dei governi precedenti. Il caso greco ha molto da insegnare su questo piano. Syriza ha vinto le elezioni anche perché ha promesso di rinnegare gli accordi sottoscritti dal governo Samaras e rinegoziare gli accordi con la Troika minacciando l’uscita dall’Euro. Il fatto che una rinegoziazione fosse opportuna o che il governo Samaras fosse incapace non cancella la natura del problema politico: chi garantisce che un eventuale accordo europeo con Syriza non possa essere rinnegato nel futuro? Ora una parte di Syriza preferisce andare alle elezioni anticipate piuttosto che accettare un compromesso che verrebbe votato dai partiti moderati del parlamento greco. Il costo di perdere la credibilità politica è maggiore del vantaggio di salvare il paese? Com’è stato detto giustamente da alcuni commentatori, la ragione per cui il negoziato è così difficile è che l’Eurogruppo e il Fmi non hanno fiducia nei confronti del governo greco. Forse è un atteggiamento sbagliato, ma senza questa fiducia la costruzione di un’Europa integrata non potrà andare avanti.

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