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→  dicembre 12, 2009

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di Alessandro Penati

Da oltre dieci anni si discute dei problemi di Telecom Italia: un tormentone che si ripete fin dai tempi della privatizzazione.
Ma non si parla dell’azienda: servizi offerti, strategie, capacità di innovare, opportunità di crescita. Si discetta, invece, di proprietà e controllo o, meglio, dei problemi degli azionisti di maggioranza, di chi comanda (dei suoi amici e nemici), di piani e interessi del gruppo di controllo. Ma la problematica del controllo è fine a se stessa; non serve a gestire bene Telecom.
In questo contesto, si è aggiunta poi l’interferenza dei governi (di destra e di sinistra), nonostante l’azienda sia, da un decennio, privata al 100%. Così cambiano i nomi, dal piano Rovati del governo Prodi al piano Caio di quello Berlusconi, ma non la sostanza.
La vicenda è nota. Prima c’è stato il problema della montagna di debiti accumulata da Colaninno per conquistare Telecom (senza capitali), e per finanziare una massiccia campagna acquisti. Poi subentrano i problemi di Tronchetti che per ridurre i debiti vende quello che Colaninno aveva comprato; ma poi torna ad accumularne per fondere Olivetti, Telecom e Tim, senza diluire il suo controllo.
Alla fine, bisogna trovare una soluzione per far uscire Tronchetti prima che il debito diventi ingestibile per Pirelli. Ma c’è l’italianità da preservare. All’appello risponde il solito Trio: Mediobanca, con la fida Generali al guinzaglio, e IntesaSanpaolo, “banca di sistema”. Anche se il compito dell’azionista di controllo, cioè definire le strategie di una società, e verificare che il management le metta in atto, non è certo mestiere da banche e assicurazioni. Che anzi avrebbero fatto meglio a preoccuparsi di gestire casa loro.

Così, arriva Telefonica come partner industriale nel nuovo gruppo di controllo; che toglie le castagne dal fuoco a Tronchetti. Ma Telefonica crea più problemi di quanti ne risolva. Prevedibile, visto che le due aziende sono concorrenti. Il connubio apre conflitti di interesse di tutti i tipi: problemi di Antitrust e concorrenza in Sud America; operazioni con parti correlate, come nella cessione a Telefonica di Hansent (e nell’eventuale vendita di Brasile); problemi con le attività televisive, dove Telecom subisce la concorrenza di Mediaset, mentre questa tratta con la controllante Telefonica l’espansione tv nel mercato spagnolo. Senza contare i “piani” di marca governativa, sempre attenti agli interessi di Mediaset, per una rete in fibra che toccherebbe, guarda caso, gli interessi delle tv. In questo suk, non si capisce quale sia veramente la strategia che il Trio ha in mente per Telecom. Ma è chiaro che una simile sequenza di azionisti di controllo è stata deleteria per un’azienda che, a differenza delle altre privatizzate (come Eni, Enel, Autostrade), deve fronteggiare un tasso di innovazione senza eguali (da Facebook all’iPod, sono nati dopo il 2001), operare in un mercato domestico altamente concorrenziale, e in un panorama globale di progressive concentrazioni.
Bisognerebbe ricordarselo quando si parla di privatizzazione fallita. Il vero fallimento è l’ossessione di avere un azionista di controllo; e italiano. Disfarsene permetterebbe di concentrarsi sul futuro l’azienda: negoziando l’uscita di Telefonica, magari in cambio del Brasile; liberandosi di tutte le attività tv al miglior offerente; convertendo le azioni di risparmio per diluire il Trio, e aprire la strada a un aumento di capitale per espandersi e/o ridurre il debito; e lasciando allo Stato il progetto della mega rete in fibra: se vuole, se la faccia, visto che Telecom non potrebbe mai recuperare il costo del capitale.
E lasciando la retorica sul digital divide (come pensare di sviluppare l’economia della Barbagia costruendo un’autostrada a sei corsie fra Nuoro e Arbatax) e sulla internet-tv (in un paese già saturo di televisione), a chi con la retorica ci campa.
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di John Kay – Financial Time, 25 novembre 2009

→  novembre 22, 2009

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L’approvazione del decreto Ronchi, battezzato come “privatizzazione dell’acqua”, ha suscitato una reazione negativa singolare per compattezza delle voci e per asprezza dei commenti: l’articolo di Paolo Rumiz (La Battaglia dell’acqua, la Repubblica 18 Novembre) ne è esempio emblematico. La reazione potrebbe essere dovuta a un riflusso negativo verso le privatizzazioni dei Governi Amato e Prodi, perché il tempo sbiadisce il ricordo di quanta fosse l’invadenza dello stato nell’economia, mentre la cronaca offre fresche ragioni per lamentarsi di disservizi.

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→  novembre 18, 2009

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Dunque oggi alla Camera si va alla fiducia sull’acqua. Che bisogno aveva il governo di questo mezzo estremo per trasformare in legge un decreto, avendo i numeri di una larga maggioranza? Che fretta c’è su un tema di simile portata? È abbastanza intuibile. Se si affronta un iter normale, le cose vanno per le lunghe visto che il Pd è intenzionato a dar battaglia con l’Italia dei valori.

Entrambi i partiti hanno annunciato un fuoco di sbarramento a suon di emendamenti. Ma se accade, la storia comincia a far rumore; e se fa rumore c’è il rischio che gli italiani mangino la foglia. Cadrebbe la cortina di silenzio che negli ultimi anni ha avvolto il business legato alla distribuzione del più universale e strategico dei beni nazionali.

Il nodo è semplice. Lo Stato è in bolletta, da vent’anni non investe più come si deve sulla rete e oggi meno che mai ha soldi per un’azione di ammodernamento che costerebbe come otto ponti sullo stretto di Messina. Meglio dunque lasciare la patata calda ai privati, che con meno remore politiche potrebbero scaricare sulle tariffe il costo di un’operazione indilazionabile, e che per la mano pubblica è una delle ultime ghiotte occasioni di far cassa. Da qui un decreto che, caso unico in Europa, obbliga a mettere in gara tutti i servizi legati all’acqua e accelerarne la trasformazione in Spa, dimenticando che, quasi ovunque le grandi società sono entrate nel gioco, le tariffe sono aumentate in assenza di investimenti sulla rete.

Ovvio che meno se ne parla, meglio è. Se in Parlamento scatta la bagarre, c’è il rischio che i Comuni virtuosi (inclusi quelli con i colori della maggioranza), che hanno tenuto duro nel non cedere i loro servizi alle società di Milano, Genova, Bologna e Roma, creino un’alleanza per proteggere “l’acqua del sindaco”, cioè il loro ultimo territorio di autogoverno e autonomia dopo la perdita dell’Ici.

Se se ne parla, può succedere che gli utenti apprendano che, laddove le grandi società sono entrate in campo, le perdite della rete sono rimaste le stesse, i controlli di qualità sono spesso diminuiti e magari le tariffe sono aumentate . Magari si capisce che vi sono servizi che non possono essere privatizzati oltre un certo limite, perché allora l’acqua passa al mercato finanziario, diventa quotazione in borsa, e il cittadino non ha più un sindaco con cui protestare dei disservizi, ma solo un sordo “call center” piazzato magari a Sydney, Pechino o New York. No, non si deve sapere che siamo di fronte a un passaggio epocale, di quelli che cambiano tutto, come la recinzione dei pascoli liberi nell’Inghilterra del Settecento.

Non è un caso che si sia tentato di buttare una riforma simile nel pentolone di un decreto omnibus riguardante tutti i pubblici servizi, e non è un caso che – durante la discussione – si sia scorporato dal decreto medesimo il discorso il gas, i trasporti e il nodo delle farmacie. Gas, trasporti e farmacie erano la foglia di fico. Se oggi nel decreto su cui si pone la fiducia rimane solo l’acqua con i rifiuti, significa che l’acqua e i rifiuti sono il grande affare indilazionabile, l’accoppiata perfetta su cui si reggono i profitti delle multi-utility, e parallelamente le ingordigie della criminalità organizzata. Non è un caso che si parli tanto di “oro blu”.

La storia dell’umanità lo dice chiaro. Chi governa l’acqua, comanda. Le prime forme di compartecipazione democratica dal basso sono nate in Italia attorno all’uso delle sorgenti, quando i paesi e le frazioni hanno pensato ad affrancarsi grazie all’acqua. Lo scontro non è tra pubblico e privato, ma tra controllo delle risorse dal basso e delega totale dei servizi, con conseguente, lucroso monopolio di alcuni. Oggi potremmo dover rinunciare a un pezzo della nostra sovranità.

Paolo Rumiz

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→  settembre 14, 2009

La storia

di Alberto Arbasino

«Sventare gli sventramenti!» fu per decenni il motto di tanti architetti post-fascisti, per cui andava demolita addirittura la Piazza Augusto Imperatore, benché non bisognosa di interventi urgenti.
«Solo cocci e coccetti» minimizzavano invece i modernizzatori, per cui in ogni metropoli storica e contemporanea si demolisce e scava per venire incontro alle esigenze del Progresso, senza lasciarsi paralizzare da pseudo-ostacoli di non grande valore culturale.
Per decenni, poi, con andamento variabile, i giornali più progressisti denunciavano le potenti lobbies di costruttori che «infettavano» la Capitale e il Campidoglio con elargizioni elettorali e individuali e scambi di favori enormi fra il Catasto e la Casta.
L´affare del Pincio è apparso presto spiacevole e inutile, perché sfasciare un sito così illustre e perfetto solo per guadagnare qualche centinaio di posti-auto diventa ridicolo in una città ove circola un milione di macchine.
Forse converrebbe scavare sotto il letto del Tevere, l´unico sottosuolo romano ove forse non si troverebbero «domus» o anfore. È stato fatto sotto la Manica: ci sarebbero tanti costi e problemi in più?

La «pedonalità del Tridente» sembra un vano pretesto, quando proprio le rampe del Pincio sono diventate un sito di rimorchio minorenne con rock a volumi competitivi, anche per mignotte venute da lontano. Ma lì basterebbero un paio di transenne e di vigili, senza altre iniziative. E magari spendere i fondi per tenere l´intera Villa Borghese in condizioni meno schifose, semmai.
Ma del resto, a detta di taluni residenti, l´intera Piazza del Popolo era più carina quando era piena d´automobili ferme, multicolori e luccicanti sotto l´obelisco. Certamente meglio che adesso, volgarmente sfruttata come contenitore di enormi e ripugnanti impalcature e ponteggi incessantemente montati e smantellati e martellati per gazebi pubblicitari da stadio o da circo, per «eventi» fragorosissimi e assordantissimi per bambini e venditori di schifezze senza alcun nesso o rispetto per Valadier e i suoi «spazi» urbani e civici.

Tanti anni fa, pure, quando dalle periferie si proclamava «Riprendiamoci la città» dopo le lunghe paure stradali negli anni di piombo, e centinaia di giovani partivano di lontano per sedersi sulla scalinata in Piazza di Spagna e lì fare i cori di montagna, invano si richiedeva ai responsabili comunali di abbellire le principali piazze periferiche di scalinate analoghe in facsimile, visto il successo del prototipo. Ovviamente, ad opera delle maestranze bravissime e disoccupate di Cinecittà. Macché multipli, sentenziavano gli assessori. (E anche Fellini, credo). Mentre – come luoghi di socializzazione e coinvolgimento – sarebbero costati pochissimo, oltre a introdurre un post-moderno laico e non clericale nelle borgate pasoliniane non più di teenagers «zozzetti».
I sottosuoli urbani, in Italia e in tutta l´Europa, sono pieni di muretti romani in serie che vengono presto chiamati «Domus». Così come ogni sartoria è ormai una «Maison», e dunque incute riguardi. Per esempio, a Vienna, scavando davanti al Palazzo Imperiale, si sono rinvenuti dei mattoni con calcina che hanno subito causato la pedonalità intorno a un catino archeologico che solo un certo garbo civico e turistico evita di usare come un «posacicche». Qualcosa di analogo dev´essere capitato sotto l´Auditorium romano, dove al rinvenimento dei muretti antichi si imputa l´innalzamento del progetto originario, sacrificando le scale mobili (ormai costanti in ogni multisala per ragazzini), e il foyer-bar come luogo d´aggregazione per anziani che devono restar seduti se non sono disposti ai cento scalini giù e su dalla biglietteria.

I critici architettonici del Ventennio fascista, pure approvando i molti edifici razionalisti in mattoni e travertino dei loro invidiati maestri, giustamente non perdonano gli scatafasci causati dalla Via dell´Impero.
Così come sono inescusabili e inespiabili le demolizioni sabaude intorno all´atroce Vittoriano, benché imbellettato e vezzeggiato adesso come orribile attrazione turistica.
Ma ancora più orribile risulta adesso la biasimata «teca» sull´Ara Pacis. Perché rivisita, con un brutto «senno del poi» i travertini già intollerabili ai tempi del Duce e del film «peplum» della Romanità-a-Cinecittà. (Come già a Los Angeles, dove arrivando al Getty Museum si esclama «Fabiola! Spartacus! Scalera Film! Torna, Alessandro Blasetti, tutto è perdonato!»).
Perché poi bastava mettere a norma la teca precedente, discreta e vetrata e restaurata dai Rotary, così come si conservano gasometri e pastifici e rimesse tranviarie non griffate di quella stessa epoca. Invece di costruire muraglie presuntuose e fontanelle massicce che cancellano ogni vista sulle due celebri chiese di qua e sul Tevere di là. Per cui, avendo qui le dichiarazioni di architetti illustri contro la Piazza Augusto Imperatore nel suo complesso e assetto precedente, bisognerebbe sentire chissà quali «esperti». Abbattere le arroganti «ali laterali», che servono soprattutto a mostre e convegni clientelari di livello bassissimo? Affidare ai più lodati graffitisti della scena romana la decorazione di quegli insopportabili muri bianchi del Duce? Dai treni tiburtini e tuscolani si vedono interessanti «specimens». E se comunque si rammentano le ormai attempate stizze degli specialisti contro il resto della medesima piazza, c´è davvero da ridere. Ah, ah, vecchi cucù.

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Il Pincio e i talebani dell’urbanistica
di Franco Debenedetti – Vanity Fair, 17 settembre 2008

→  giugno 15, 2009

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Caro Direttore, «La “scure” di Draghi deve calare ancora, più dura e impietosa», ha scritto sul numero di Affari e Finanza dell’8 giugno scorso: i nodi che deve tagliare sono quelli con cui le banche provocano “l’asfissia finanziaria” delle imprese. Ne darebbero evidenza i loro bilanci, che per i ricavi contano sostanzialmente sul differenziale tra tassi attivi e passivi, e sul margine di intermediazione, e su cui gravano spese gonfiate da stipendi troppo elevati ai piani alti della piramide organizzativa.

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→  febbraio 26, 2009

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di Nouriel Roubini

Un anno fa avevo previsto che le perdite delle istituzioni finanziarie statunitensi avrebbero raggiunto un totale di almeno un trilione di dollari, senza escludere la possibilità di arrivare anche a due trilioni di dollari. In quel periodo economisti e politici erano concordi nel ritenere sbagliate per eccesso queste stime.

Servirebbero altri 1,5 trilioni di dollari per riportare il capitale delle banche al livello pre-crisi: solo così si potrà superare la stretta del credito, e rilanciare i prestiti al settore privato. In altri termini, il sistema bancario Usa è di fatto insolvente nel suo complesso, al pari di gran parte del sistema bancario britannico e di molte banche dell’Europa continentale.

Per il risanamento di un sistema bancario che deve far fronte all’attuale crisi sistemica le ipotesi sono fondamentalmente quattro: la ricapitalizzazione delle banche, con il contemporaneo acquisto dei loro titoli tossici da parte di una “bad bank” governativa; la ricapitalizzazione, accompagnata da garanzie governative – dopo un ‘iniziale perdita delle banche – degli asset tossici; l’acquisto da parte di privati degli asset tossici con garanzia governativa (l’attuale piano del governo Usa); e infine la pura e semplice nazionalizzazione – chiamandola magari con un altro nome (come ad esempio «government receivership») in caso di rifiuto di questo termine scabroso delle banche insolventi, da rivendere poi al settore privato una volta risanate.
Di queste quattro opzioni, le prime tre presentano gravi inconvenienti. Nel caso della “bad bank”, il governo rischierebbe di pagare prezzi troppo alti per i titoli tossici, sul cui vero valore non vi sono certezze. Anche l’ipotesi della garanzia potrebbe implicare un esborso statale eccessivo (nel senso di una garanzia troppo elevata, per la quale il governo non percepirebbe un corrispettivo adeguato).

La soluzione della “bad bank” comporterebbe un ulteriore problema: il governo si troverebbe a dover gestire tutti i titoli tossici acquistati senza disporre delle necessarie competenze tecniche. Quanto all’idea – invero molto macchinosa, avanzata dal Tesoro – che propone di stralciare i titoli tossici dai bilanci delle banche, fornendo al tempo stesso garanzie da parte del governo – è apparsa subito complicata e poco trasparente, tanto che è bastato il suo annuncio a provocare una reazione nettamente negativa dei mercati.

Paradossalmente, la nazionalizzazione potrebbe rivelarsi come la soluzione più favorevole dal punto di vista del mercato: verrebbero infatti esclusi dalle istituzioni palesemente insolventi sia gli azionisti comuni che i detentori di azioni privilegiate, e in caso di insolvenza molto estesa anche i creditori non garantiti, assicurando al tempo stesso ai contribuenti un compenso adeguato. In questo modo si risolverebbe anche il problema della gestione dei bad asset delle banche, rivendendo la maggior parte dei titoli e dei depositi – con una garanzia da parte del governo – a nuovi azionisti privati, una volta risanati i titoli tossici (come nella soluzione adottata per il fallimento della Indy-MacBank).

La nazionalizzazione risolverebbe oltre tutto anche il problema delle banche che rivestono un’importanza sistemica, “too big to fail” – cioè troppo grosse per poter fallire – e che quindi il governo deve necessariamente soccorrere, a un costo molto elevato per i contribuenti. Oggi di fatto il problema si è ulteriormente aggravato, poiché le soluzioni finora adottate hanno indotto le banche più deboli a rilevarne altre ancora più malridotte.

Le fusioni tra “banche zombie” ricordano un po’ il comportamento degli ubriachi cercano di aiutarsi l’un l’altro a rimanere in piedi: lo dimostrano le operazioni con cui JPMorgan, Wells Fargo e Bank of America hanno rilevato rispettivamente Bear Stearns e Wa Mu, Wachovia, Countrywide e Merril Lynch. Con la nazionalizzazione il governo toglierebbe di mezzo queste mostruosità finanziarie, per creare banche più piccole ma solide da rivendere a investitori privati.

È questa la soluzione che all’inizio degli anni ’90 ha permesso alla Svezia di risolvere la sua crisi bancaria. Al contrario, l’attuale politica degli Usa e della Gran Bretagna rischia di generare, come è avvenuto in Giappone, una serie di “banche zombie”, che in mancanza di un vero risanamento perpetuerebbero il congelamento del credito. Il Giappone ha pagato la sua incapacità di risanare il proprio sistema bancario con un decennio di crisi molto vicina alla depressione. In mancanza di interventi adeguati, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e molti altri Paesi corrono un rischio analogo: quello di una recessione o di una vera e propria deflazione che potrebbe protrarsi per vari anni.

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